Il richiamo di Alma

Il richiamo di Alma Book Cover Il richiamo di Alma
Stelio Mattioni
Cliquot
2020

Scriveva Carlo Sgorlon: “Ogni libro di Mattioni arriva ai critici e ai lettori come una barchetta di carta abbandonata da un bambino sulle acque di un ruscello. Simula di farlo con indifferenza, con saggezza da orientale, e invece sotto sotto lo fa con segreto batticuore, e le speranze di un adolescente". "Il nostro tempo" – continuava l'artista friulano – "privilegia le tube e i cembali risonanti, e così la voce di Mattioni stenta un po' a raggiungere i suoi destinatari. Ingiustamente, perché i suoi libri sono di una singolarità che non ha quasi riscontro nella Letteratura Italiana". Forse perché nei libri di Mattioni si respira, tendenzialmente, la quotidianità di una piccola città di provincia (e di frontiera) in cui, tutto a un tratto, irrompe l'irrazionalità: l'allucinazione, l'inspiegabile, l'improbabile. La Trieste di Mattioni è puntinata di spiragli per la surrealtà. È una porta per l'assurdo. È la città della normalità dell'insensato. Topsy-turvy.

Il vecchio Geno Pampaloni, glossando Il richiamo di Alma sul «Giornale», nel maggio 1980, esordiva con una certa, apprezzabile frontalità: "È possibile che il vero narratore triestino della nostra generazione sia Stelio Mattioni, che non è certo il più noto. Della narrativa triestina e in particolare dell'eredità sveviana il Mattioni ha saputo fondere nel proprio stile molti elementi: il non-lirismo, l'ironia radicale (non effusa), il lavorio simbolico solidamente fondato sull'empirismo [...], la consuetudine con i sogni e i segnali del profondo, la naturale sapienza nel passare dal piano realistico a quello fantastico (senza farsi dell'irrealismo un programma)". Mattioni incarnava, con sincera naturalezza, l'essenza dell'outsider. Candidato al Campiello per questo ispirato, elegiaco e forse iniziatico romanzo, così veniva raccontato da Fiora Palazzini: "A Trieste, come persona, non è molto conosciuto, al di là della solita élite cultural-mondana": ciò è difficile da credere solo per chi non conosca Trieste. Come, penserà un forestiero: un autore Adelphi, pupillo di Bobi Bazlen, sostenuto da letterati e artisti di talento, apprezzato da Carlo Bo, da Barberi Squarotti, da Calvino, associato a Kubin, a Kafka, a Svevo e a certo Landolfi, poteva forse passare inosservato in una cittadina di poco più di centocinquantamila abitanti? Cosa, stavano forse tutti in osteria, o in osmiza, o magari a Barcola, su uno scoglio? Dove erano i triestini? La Palazzini aveva una congettura forse fondata: "Mattioni non è scrittore a tempo pieno ma, come sembra volere una certa tradizione triestina (Svevo in primis), la parte predominante della sua giornata la passa a fare il dirigente in una grande azienda industriale". Come a dire: viveva appartato perché stava a un certo livello e non aveva tempo da perdere con le relazioni sociali. Ipotesi poco convincente? "Molti lo considerano presuntuoso e altero. Lui lo sa, fors'anche se ne dispiace, non può farci niente". Pazienza, dunque: Mattioni era un outsider assoluto nelle patrie lettere e un triestino che preferiva stare per conto suo (o meglio: stare con i "felici pochi" e con i nostri "mati". Era direttore di sezione al "Circolo della Cultura e delle Arti", là in città). Mattioni era uno che scriveva per restare, non per intrattenere. Uno che ai giornalisti rispondeva così: "Scrivo quando voglio e quello che voglio. Sono assolutamente libero. Non sono legato neanche con l'Adelphi, non ho firmato nessuna opzione". Chi parla con questa perentoria franchezza, quarant'anni più tardi, tra gli artisti Adelphi o Einaudi? Chi ha questo carattere? Chi può permettersi questi toni?

La Palazzini ammetteva: "Un paio d'ore con lui, passate davanti a un registratore, e ci si accorge che è imprendibile quasi quanto i personaggi dei suoi romanzi (e non parliamo solo di Alma). Un nastro zeppo di risposte diligenti e cortesi, senza che io sia riuscita a scalfire più che una briciola della sua personalità più vera e profonda". Sfuggente, allora, come sfuggente è la sua Alma. O forse, chissà, "non aveva freschezza", quel giorno, per dirla in triestino.

Che libro abbiamo di fronte? Intervistato da Pierluigi Sabatti, a pochi giorni dall'uscita del romanzo, Mattioni così diceva: "Più che di un'educazione sentimentale, si tratta di una ricerca di sè stesso, attraverso un itinerario molto emblematico che, per il protagonista, risulta, fino alla fine, abbastanza indecifrabile. La comprensione delle vicende straordinarie che gli erano accadute viene tardi, quando finalmente capisce che cosa ha rappresentato l'intrusione nella sua vita di questa donna, che si presenta sempre in forme e luoghi diversi e, direi, con un richiamo diverso". L'atmosfera è "stregata": "non ci sono salti bruschi tra realtà e sogno". Siamo in una Trieste "sospesa tra sogno e realtà", alla ricerca d'una figura spettrale che forse è l'anima dell'artista, forse una sua perduta musa, forse l'essenza della città.

In un'altra intervista, rilasciata ad Alberto Frasson, Mattioni insisteva: "Il richiamo di Alma è un richiamo ad una vita più autentica, più nobile: ad una vita di tipo interiore, spirituale [...]. Sostanzialmente un richiamo religioso, sì, ma non solo. Un richiamo spirituale, il bisogno di avere una speranza, o una attesa, che solo dalla fede può trarre alimento".

Sulla bandella della prima edizione Adelphi, marzo 1980, si legge che l'artista triestino, raccontando la storia di Alma, "questa inafferrabile ragazza che ogni volta appare con un volto diverso, in un luogo diverso e con un 'richiamo' diverso", s'è riferito a un archetipo che ha "nutrito tanti testi della letteratura tedesca, dal primo romanticismo a Spitteler: quello della 'ricerca dell'anima', vissuta attraverso una figura femminile, sfuggente e mutevole". La ricerca è tuttavia fallimentare: "Il protagonista non prende mai la via giusta proprio perché non riesce mai a perdersi". Il labirinto non è un gioco. Il labirinto non è mai stato un gioco. Il labirinto non può essere un gioco. "Ogni volta viene bloccato da un nascosto sentimento di ostilità verso l'ignoto, che è poi innanzitutto ostilità verso il se stesso ignoto". E soltanto a un certo punto, "incontrerà il trasparente segreto che aveva sempre evitato di riconoscere".

È passato quasi mezzo secolo dalla pubblicazione di questo libro incantato, dedicato all'adorata figlia Chiara, consapevole e orgogliosa erede della letteratura paterna, esemplare curatrice delle sue opere postume. Nel frattempo, il cinema s'è distratto e ha dimenticato di eternare questo romanzo triestino, che poteva ispirare un film destinato a diventare un classico, allora forse più da Zurlini che da Visconti, oggi forse più da Tornatore che da Salvatores; in compenso, nel 2014 Vanna Vinci ha disegnato una graphic novel ispirata al romanzo, pubblicata dalla Bao. Intervistata dalla prestigiosa rivista «Fumettologica», la Vinci ha risposto che illustrando voleva restituire "questa specie di incantesimo. Il fatto che rispondere al richiamo di Alma è come dire che a un certo punto tu fossi perso ma ti stessi anche ritrovando: il protagonista è completamente perso, non studia, non fa niente, non torna a casa, gira senza nessun motivo, se non dei motivi che si dà lui senza che glieli abbia dati lei, ma d’altra parte si sta ritrovando, sta scoprendo una parte di sé che non sapeva neppure di avere. E poi proprio l’incantesimo che c’è nella città di Trieste, che io sento".

Come accoglierete voi, adesso, questo stradario tergestino, elegiaco e mistico? Tornerete a cercare la "figura bianca" ("più bianca di ogni altra cosa che potessi scorgere d'intorno, ma inoltre circonfusa dello stesso colore del cielo, e soprattutto viva e vicinissima, nonostante la distanza"), stradario letterario alla mano, oppure andrete in cerca di un segreto (davvero? Quale? Riferito a chi? Forse a voi stessi?). Tornerete a parlare di anima e di spiritualità oppure vi ostinerete a cincischiare nel più gretto materialismo, una volta chiuso il libro? Quanta ispirazione potrà darvi un simile giocattolo? Che cosa vi restituirà? E soprattutto...quando?

C'è forse un'ultima storia che devo riferirvi, per completezza. Giurerei di averla letta sul «Piccolo» nel 2016. Alessandro Mezzena Lona scriveva: "Richiamato alle armi durante la Seconda Guerra Mondiale, finito in un campo di concentramento inglese dopo il tentativo fallito dell'esercito italiano di conquistare El Alamein (esperienza che racconterà nel romanzo inedito Camàn. La città degli straccioni), Mattioni ha vissuto in quegli anni una storia bellissima. Quella tutta epistolare con una giovane 'madrina di guerra', Assunta Canestrelli di Pesaro, che continuò a scrivergli fino al 1953. Non si incontrarono mai, Assunta e Stelio, si scambiarono al massimo una foto. Ma quella bionda 'non ossigenata però' per lo scrittore rappresentò non solo un contatto con il mondo che stava al di là delle armi, delle divise, dei morti e dei feriti, ma una finestra spalancata su un amore immaginario, mai consumato eppure preziosissimo. Una figura di donna sfuggente, imprendibile, come la Alma del romanzo finalista al Premio Campiello. Una ragazza vista per caso, per strada a Trieste, che generò uno dei personaggi più affascinanti e originali del secondo '900 italiano".

Gianfranco Franchi.

Gianicolo, settembre 2020.

[postfazione della nuova edizione Cliquot, 2020; poi apparsa sul mensile triestino "Ponte Rosso" numero 61, 2020].

Per approfondire: MATTIONI in Porto Franco / Mattioni in Wikipedia / "Guida Ragionata al Mattioni postumo" di GF.

Scriveva Carlo Sgorlon: “Ogni libro di Mattioni arriva ai critici e ai lettori come una barchetta di carta abbandonata da un bambino sulle acque di un ruscello. Simula di farlo con indifferenza, con saggezza da orientale, e invece sotto sotto lo fa con segreto batticuore, e le speranze di un adolescente”…