Guida ragionata al Mattioni postumo [2002-2018]

46240004_325975608231841_2642885675799543808_n

 

Una breve guida al Mattioni postumo si pone, sul nascere, l’audace obbiettivo d’essere a un tempo completa ed equilibrata; in corso d’opera, si deve ammettere che non potrà che essere provvisoria, perché qualcosa può essermi sfuggito, nonostante la passione e l’ostinazione: mi riferisco a “Il testimonio”, pubblicato dalla piccolissima Ramo d’oro nel 2003: nel gennaio 2019, per capirci, consultando l’oracolo digitale google, lo trovate soltanto nominato nella pagina wikipedia dell’artista e nel catalogo opac del servizio bibliotecario nazionale: sembra sia stato pubblicato soltanto per sparire nel nulla. Accettate quindi con la dovuta benevolenza questo mio contributo critico, tenendo presente il vizio di fondo appena riferito.

Morto Mattioni nella nostra amata Trieste, nel 1997, settantaseienne, i cassetti dell’artista raccontavano la seconda metà della sua carriera: terminati gli sfarzi einaudioti e adelphiani, sotto egida Bazlen, negli ultimi tredici anni di carriera lo scrittore giuliano aveva trovato episodica fortuna pubblicando romanzi per la piccola Spirali e un buon saggio su Saba per la Camunia; la visibilità d’antan pareva irrimediabilmente compromessa e perduta, così la possibilità di pubblicare con regolarità. L’esito era quindi una fotografia della sua fortuna artistica: vale a dire, “estremamente contraddittorio”. Mattioni moriva lasciando cassetti straripanti di lavori intelligenti e degnissimi: sua figlia Chiara si incaricava, nel corso del tempo, di dare loro senso e trovare degna pubblicazione.

Scrivo nel gennaio 2019: cinque sono i libri mattionici postumi letti e apprezzati nel frattempo; il sesto, come vi spiegavo, è rimasto “fantasma”, perché non ne ho letteralmente trovato traccia in giro; il settimo, forse il più atteso, è rimasto semplicemente annunciato in uscita (si tratta di “Caman. La città degli straccioni”, che doveva essere pubblicato dalla Zandonai, sotto l’illuminata direzione di Giuliano Geri, nei primi anni Dieci; purtroppo Zandonai è andata kaputt sul più bello e l’augusto Geri è rimasto ancora oggi privo di direzione editoriale degna delle sue riconosciute competenze e potenzialità di “Adelphi dei Balcani”). Vengo quindi a darvi qualche coordinata per cinque Mattioni postumi, perché possiate orientarvi correttamente e andare a rimediare quanto preferite o quanto vi occorre.

2002. A cinque anni di distanza dalla morte dell’artista, e a ventidue anni dall’ultima volta (“Il richiamo di Alma”, 1980) Adelphi torna a ospitare uno scritto del pupillo di Bazlen: si chiama “Tululù“, cioè “sciocchina”, è stato scritto nel 1990 e, a dar retta alla bandella di Calasso, è la conferma del talento da “magistrale narratore di storie” del nostro Stelio; sentite qua: Mattioni è “[…] capace di dare a una vicenda di umile quotidianità, a una minima cronaca familiare, il passo e i toni della favola. Abbandonando il piglio grottesco a cui ci ha abituati, Mattioni assume qui, per raccontarci la sua indimenticabile eroina, una tonalità che è insieme dolente e distaccata, compassionevole e ironica”. Non solo: “[…] È grazie a questa superba economia del montaggio e dello stile che Mattioni riesce a raggiungere una sua rarefatta classicità – e soprattutto a fare di Matilde un «cuore semplice» che non si oppone alla crudeltà e all’indifferenza degli altri, ma le abbraccia rifiutando sino in fondo di perdere il suo sguardo infantile e pudico, la sua scandalosa innocenza”. Ecco: con tutto il rispetto per sua maestà Calasso, penso che questa sia una bandella enfatica – e che, tra tutti gli inediti apparsi nel corso del tempo, sin qua, “Tululù” sia il più fiacco, il più manierista e in fin dei conti il più trascurabile. Ricordo ancora l’emozione con cui mi ritrovai a sfogliare una Adelphi di Mattioni comprata “da contemporaneo vivente”: non mi pareva vero. Ricordo altrettanto bene il senso di insoddisfazione al termine della lettura. Insoddisfazione ibrida a stupore: come ha potuto Adelphi farsi sfuggire le “Memorie di un fumatore” (MGS Press, 2009), il potente “Dolodi” (Zandonai, 2011), il frammentario e sofisticato “Interni con figure” (EUT, 2011), l’allegorico e kasparhauserico “Di sé con gli altri” (Vydia, 2018), preferendo questo librotto sentimentale e vecchietto, lontanissimo dagli esiti migliori (stavo per dire “classici” o almeno “convenzionali”) della scrittura di Mattioni? È così irragionevole che mi ritrovo a congetturare ragioni altre e diverse di fronte alla scelta di opzionare e pubblicare soltanto “Tululù” (andato incontro, come era fatalmente immaginabile, a discutibili fortune commerciali, complice pure il pessimo “rosa” dello sfondo della copertina Adelphi). Probabilmente soltanto Chiara Mattioni (col controcanto dei suoi referenti milanesi) può raccontarci come sono andate le cose: ipotizzo screzi, fraintendimenti, incomunicabilità, escludo la stupidità – certo è veramente paradossale che, ad oggi, l’epilogo sia quello che vi ho appena descritto, e cioè che il meglio di Mattioni postumo sia stato scelto e pubblicato dalla piccola editoria di qualità e di progetto o addirittura dalle Edizioni Universitarie Triestine. Intendiamoci: per un lettore come me, o come il nostro egregio direttore Chiereghin, o come l’illustre professor Senardi, cambia poco: siamo segugi, andiamo a cercare il vino buono nelle cantine più sperdute (e sappiamo che il tartufo vero ormai sta in Istria, mica in Piemonte). Io sono piuttosto rammaricato per i lettori italiani medi, quelli che pensano che il valore di un libro vada commisurato all’altezza delle pile nelle librerie o magari negli autogrill, e che quindi tendono a confondere le chiassose e flatulente fortune commerciali della paccottiglia con la qualità delle opere d’arte: per quei lettori, Mattioni postumo è al limite una bizzarra e grottesca curiosità. Cambieranno le cose? Risponda la vostra coscienza.

Torno alla mia guida. 2009. La MGS Press fa il colpaccio, aggiudicandosi l’autobiografia “Memorie di un fumatore”. Mattioni, fedele al paradigma di Ettore Schmitz, racconta la sua esistenza giocando sulle sigarette fumate dall’adolescenza sino, sostanzialmente, alla fine dei suoi giorni; e dà vita a un grande romanzo triestino, gioia per i suoi lettori e per tutti gli appassionati di narrativa italiana atipica. La ragione è semplice: non esiste un romanzo che racconti la vita d’un artista tramite vulcanici e ludici cambi nella scelta del tabacco da fumare. Più ancora, non esiste, sul territorio nazionale, una città che abbia sofferto più rovesci della sorte e cambi di bandiera, nell’ultimo secolo, della nostra vecchia Trieste. Racconta Chiara Mattioni, nella bella postfazione del libro, che “questo è il romanzo di un uomo, di una vita e di una città, non sbrigativamente un libro di ricordi. Perché le memorie non sono i ricordi, pur passando attraverso essi. La differenza sta nella prospettiva da cui si rievocano luoghi, cose, persone, situazioni […]”; altrove, spiega che nei capitoli relativi alla sua infanzia si ritrovano gli elementi originali di “La casa dei Golob” (inedito, 1967) mentre quelli relativi al servizio militare e alla guerra si ritrovano in “Caman” (inedito, il famigerato mancato Zandonai). È un memoir appassionante e sin qua ingiustamente sottovalutato.

Un anno più tardi – 2010 – la Zandonai pubblica il seducente “Dolodi”, andando incontro a una buona fortuna critica: è uno scritto del 1982, romanzo allegorico e satirico di grande intelligenza e grande potenza espressiva, irriverente oltraggio alla cattiveria della Linea Morgan e dei confini del secondo Novecento. Extra Lisert verrà considerato uno psicodramma sul trasloco, incredibilmente simbolico ed evocativo, con non pochi elementi onirici; a qualcuno sembrerà una sceneggiata alla Polanski prima maniera, con tanto di elementi farseschi convenzionali, derivati e dettati dalla presenza d’un parassita vecchio stampo come il Dolodi che dà il titolo al romanzo, mezzo amato mezzo odiato, e quando odiato odiato con intensità spaventosa; a qualcuno suonerà come una stravagante e bizzarra trasfigurazione dei problemi d’una coppia giovane (che peraltro, come scopriremo, non ha ancora imparato a fare l’amore: mannaggia). Ma escludo che per chiunque abbia una minima cognizione di causa di ridicole e dolorosissime vicende di confine, soprattutto di incubi datati anni Quaranta e anni Cinquanta, “Dolodi” possa avere significato diverso da quello del romanzo drammatico e allegorico nato per denunciare quanto folle sia stato accorgersi che nel nome di niente si perdevano case e storie: e per ribadire che in quelle case magari restava chi le aveva vendute poco tempo prima: restava uno degno del nuovo regime, in questo caso, e del nuovo confine.

2011.  “Interni con figure” è, nelle parole di Chiara Mattioni, un’opera che “ha a che fare soprattutto con il senso, ovvero con il non senso, della vita e delle vicende umane”: è uno scritto intrapreso dal primissimo Stelio Mattioni, trentenne, impiegato innamorato della letteratura, e mantenuto in progress sino agli anni Novanta, assemblando man mano nuovi frammenti e nuovi appunti, andando a plasmare un insolito e ludico quaderno di narrativa. Interni” è una galleria di incontri, vissuti in primis per forgiare la biografia di Saba; è una sequenza di memorie e di aneddoti e di luoghi sabiani; infine, è una giostra di sketch e di bozzetti letterari, nervosa e sintetica rappresentazione di incontri avvenuti nelle case o negli studi o nelle gallerie, protagoniste figure fondamentali o laterali della scena letteraria triestina – incluso chi a Trieste passava per amicizia dei grandi, come Montale, o chi aveva semplicemente sangue dalmata, come il romano Moravia. Mattioni si servì di buona parte del materiale raccolto in questo libro per pubblicare una biografia di Umberto Saba che Adelphi non trovò il coraggio di sostenere, come forse avrebbe dovuto e potuto fare; il resto del libro racconta e testimonia gli incontri di un artista di grande sensibilità e grande onestà, estraneo ai salotti e a certi chiassosi circuiti letterari: un lucido e sottile osservatore delle piccolezze e delle rare eccellenze del secondo Novecento.

Veniamo al 2018 – a quello che, per adesso, è l’ultimo capitolo del Mattioni postumo. È stato scritto nel 1996, un anno prima di andarsene; secondo il professor Magris, questo suo “inedito e inconcluso racconto è incompleto per necessità letteraria e per casualità. È come se fra le sue pagine ci fossero dei vuoti indicibili, che risucchiano la narrazione, e insieme la mancanza di una sistemazione e di una vera e propria storia”: con queste parole l’insigne germanista ha presentato il libro, in anteprima, per il “Corriere della Sera”, nel settembre scorso, salutando contestualmente la surrealtà di questo lavoro; una surrealtà che, nelle parole dell’augusto critico, “si inserisce in quella tradizione fantastica, puntigliosamente descrittiva e sottolineata di Kubin e di altri, inclini — a differenza di Kafka — a spiegare la realtà oscura piuttosto che a farla vivere nella sua nuda oggettività”.

Da un certo punto di vista, si può considerare questo lavoro di Mattioni parte di quella sua produzione “politica” (virgoletto la parola “politica” perché Mattioni, sin qua, non è mai stato esclusivamente politico: sempre “grottesco e politico”, o “stralunato e politico”, mai schiettamente politico; è uno scrittore, è uno che per prima cosa fa letteratura) che prende il via con “La stanza dei rifiuti” (Adelphi, 1976), trasfigurazione di mezzo secolo di disgrazie, opportunismi e trasformismi triestini, passa per “Dove” (Spirali, 1997) e s’esalta in “Dolodi” (2010): se già in “Dove” Mattioni si interrogava sul potere, e sui progressivi disfacimenti della storia, se in “Dolodi” si ritrovava a fare satira degli improbabili e disumani confini triestini e istriani del secondo dopoguerra, in questo lavoro sembra volersi prendere gioco di certi partiti di massa di limpida origine marxista, e delle loro logiche interne; così come dei giochi di ruolo che si disputano (meglio, si disputavano) in quei contesti, e della stupidità (o, se preferite, dell’ingenuità, o dell’inadeguatezza) dei suoi protagonisti. Il misterioso io narrante amnesico può – come ovviamente e saggiamente già osservato da Magris – far tornare in mente Kaspar Hauser, paradigma che Mattioni non poteva non tenere presente, per prendere ispirazione e per prenderne distanze; tuttavia fa bene la Battocletti a raccontarlo, nella sua introduzione a questo volume, come una sorta di Pinocchio, “una creatura collodiana […] privo di tentazioni e di propensione al male, come al bene. Estremamente docile, […] imita gli altri, cercando di conoscere il senso del tempo che non possiede”. È un pinocchio scombinato, grottesco, mattionico. Corredano l’edizione la postfazione di Maria Mattioni e una biobibliografia dettagliatissima, curata da Chiara Mattioni. Allora, eccoci alla fine della guida. Quando esce il prossimo Mattioni postumo? Cosa uscirà, stavolta? L’atteso e già sfumato “Caman” o “La casa dei Golob”? C’è parecchio di più, preparatevi. Nel 2017, gli eredi Mattioni hanno donato 49 faldoni all’Archivio di Stato di Trieste: contengono i libri, le lettere scambiate e ricevute, le fotografie, tutta una serie di materiale extravagante. Provvedo a nominare almeno gli altri quattro romanzi rimasti inediti: “La vita non basta” (1987) “La battaglia di Templenizza” (1990), “Il negro delle ore” (1992), “La casa di riposo” (1992); a loro va aggiunto l’incompiuto “La villa” (1997). Ci sono poi racconti lunghi (come “Caballus”, “Egon Camini”), soggetti cinematografici (“Il trillo del diavolo”, dedicato all’istriano di Pirano, Tartini), sceneggiati radio, pièce teatrali. Roba da matti. Anzi, da mattioni.

Gianfranco Franchi, gennaio 2019

Prima pubblicazione: PonteRosso

Per approfondire: MATTIONI in Porto Franco Mattioni in Wikipedia /