Dolodi

Dolodi Book Cover Dolodi
Stelio Mattioni
Zandonai
2011
9788895538778

“Per la gente di qua e di là è come se non ci fosse: il nascere, il vivere e il morire insieme, da queste parti, è un modo d'essere che si perde nella notte dei tempi. I confini hanno importanza solo sulle strade, dove ci sono le sbarre e le guardie messe lì a curare degli interessi”. Figuriamoci quando la guerra è finita e ancora non s'è deciso tecnicamente dove mettere un nuovo confine: allora è possibile prendere e spostarlo in qua o in là, con allegra disinvoltura. “Pare che si possa compiere questo e altro, contro chi, come noi, ha perso una guerra”: soprattutto se il confine è stato messo su alla buona, con quattro paletti di legno. Questo libro poggia su una kafkiana esperienza che chi viene da Trieste e dall'Istria ben ricorda: quella della drammatica vacuità della Linea Morgan. Stelio Mattioni ironizza sulla facilità con cui, a suo tempo, perdemmo non soltanto certi territori che non era né in cielo né in terra che venissero assegnati alla allora Jugoslavia, ma certi pezzi di terra. A volte, coincidevano con parti di casa. Che so: con la stalla.

Col suo stile grottesco e allegorico, naturalmente caro a Bobi Bazlen, l'artista triestino ci racconta, in questo suo libro scritto nel 1982 e uscito postumo, la storia di una coppia che s'era innamorata della casa sbagliata: una casa che stava dalle parti del confine. Non solo: ci racconta di chi ha venduto loro quella casa, pretendendo infine di restarci dentro. E già.

“Dolodi” (Zandonai, 128 pp., euro 15) è un romanzo allegorico e satirico di grande intelligenza e grande potenza espressiva. Scriveva Italo Calvino, presentando nel 1960 tre racconti di Mattioni a Vittorini, per il loro “Menabò”, che Mattioni era uno scrittore che non somigliava a nessuno. «Ha un mondo fantastico proprio e di grande forza», argomentava, per poi chiosare: «Misterioso sul serio. Senza nessuna compiacenza fumistica». Secondo il curatore di questa edizione, Francesco De Nicola, Mattioni è stato un artista caratterizzato da una «cifra di assoluta originalità, animata da una costante tensione ironica talora spinta al grottesco». E non posso che dare conferma: non ricordo d'aver letto nessun romanzo capace di prendersi così gioco della Linea Morgan e dell'ambiguità di chi simpatizzava per i titini. Davvero, un libro magnificamente e dolorosamente piacevole.

Trieste, fine anni Quaranta. Il vecchio Dolodi, «uomo in età, ancora vivace e pieno di umori», ma non di quattrini, parlottando col giovane Emilio riesce a convincerlo a levargli le ipoteche da casa: tutte e tre (sulla quarta si glissa). La ragione? Vuole lasciargliela, quella casa. Vuole vendergliela. Di cosa viva Dolodi non si sa: per tempo s'è pappato la gran dote di sua moglie. Adesso, forse è un mercante d'arte, forse scribacchia a comando, forse è un consulente editoriale. Ecco: il giovane Emilio scrive poesie. Tempo prima s'erano incontrati proprio per quello. Erano stati presentati da uno strano mediatore...

La casa si trova sull'altipiano, in un posto isolato. È bella grande, due piani. Qualche restauro e sicuro sale di livello. Problema ipotetico: si trova dalle parti del confine – ma il confine non è stato ancora fissato ufficialmente, s'attende il trattato di pace. Non potrà andar male, no? E certo. Emilio non crede che gli italiani possano ritirarsi d'un altro mezzo chilometro, dopo aver ceduto una penisola intera, e così cerca di convincere la moglie: l'investimento è buono, e poco importa che ci si trovi tanto distanti dal centro della città. “Aria buona, tanta luce, dal primo piano si vede la città, parte del golfo, e intorno... niente vicini, lontani dai rumori, finalmente in pace”, argomenta il ragazzo. Chiaro, quando viene sera cambiano le cose: “l'oscurità, il silenzio profondo e, in lontananza, le luci della città, fanno venire la malinconia, danno spazio alle più nere considerazioni”. Ma è un prezzo che si può pagare in cambio della pace e della bellezza. Soprattutto della bellezza dell'Altipiano, capace di sgomentare, e comunque di sedurre. Fa niente che i vicini slavi smanino per aggiudicarsi più terra possibile. Buon segno, al limite.

Emilio ci casca. Compra. E accetta che Dolodi ci rimanga a vivere, almeno per il momento (per un po'...) con moglie e figlia. Dolodi ha una figlia mezza gatta e mezza matta, Dorina. Ha quasi vent'anni ma ne dimostra tanti di meno. Emilio ci casca, ma s'accorge presto che in casa c'è qualcosa che non va. E non è soltanto la coesistenza col clan di Dolodi (cucina in comune, come sotto regime sovietico), o la scomodità. C'è qualcosa che non va. E non viene detto cosa. Quando Dolodi promette di smammare entro due giorni – tutto a un tratto, come niente fosse – Emilio non fiuta il pericolo. Figuriamoci quando sua moglie e sua figlia finiscono effettivamente in città, mentre lui rimane ospite. Fermiamoci qui, con la trama.

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“Dolodi” è un regalo inatteso. Diversi scritti postumi del bravo Stelio Mattioni attendono di tornare alla luce, e noi aspettiamo di leggerli con gioia e con riconoscenza. Questo suo romanzo per qualcuno potrà sembrare uno psicodramma sul trasloco, incredibilmente simbolico ed evocativo, con non pochi elementi onirici; per qualcuno sembrerà una sceneggiata alla Polanski prima maniera, con tanto di elementi farseschi convenzionali, derivati e dettati dalla presenza d'un parassita vecchio stampo come il Dolodi che dà il titolo al romanzo, mezzo amato mezzo odiato, e quando odiato odiato con intensità spaventosa; per qualcuno suonerà come una stravagante e bizzarra trasfigurazione dei problemi d'una coppia giovane (che peraltro, come scopriremo, non ha ancora imparato a fare l'amore: mannaggia). Ma escludo che per chiunque abbia una minima cognizione di causa di ridicole e dolorosissime vicende di confine, soprattutto di incubi datati anni Quaranta e anni Cinquanta, da quelle parti, “Dolodi” possa avere significato diverso da quello che suggerivo. Vale a dire, quello del romanzo drammatico e allegorico nato per denunciare quanto folle sia stato accorgersi che nel nome di niente si perdevano case e storie: e che in quelle case magari restava chi le aveva vendute. Uno degno del nuovo regime, in questo caso, e del nuovo confine. Il racconto pubblicato in appendice, “Dardi”, esclude ogni altro equivoco.

Dipende da come si vuole leggere. Dipende da cosa volete capire. Io amo Mattioni, per quanto sin qua ho potuto leggerne, e accolgo con entusiasmo il romanzo in ogni suo aspetto: estetico, territoriale, allegorico, politico.

Grazie a Zandonai per averci restituito un pezzo di grande arte letteraria triestina. Grazie.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Stelio Mattioni (Trieste, 1921 – Trieste, 1997), giornalista, scrittore e poeta italiano. Ha esordito pubblicando in poesia “La città perduta” (1956) e in narrativa “Il sosia” (1962).

Stelio Mattioni, “Dolodi”, Zandonai, Rovereto 2011. Prefazione di Francesco De Nicola. Collana “I Fuochi”. In copertina: “Osmica” di Emiliano Lucchetta, 2008.

Gianfranco Franchi, febbraio 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

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SEMPRE SU "DOLODI"...

Scriveva Italo Calvino, presentando nel 1960 tre racconti di Mattioni a Vittorini, per il loro “Menabò”, che quel triestino era uno scrittore che non somigliava a nessuno. «Ha un mondo fantastico proprio e di grande forza», argomentava, per poi chiosare: «Misterioso sul serio. Senza nessuna compiacenza fumistica». E questo mondo fantastico, originale e pieno di espressività, possiamo ritrovarlo intatto in un romanzo breve postumo del grande artista giuliano, appena apparso in libreria: "Dolodi" (Zandonai, 128 pp., euro 15) è una divertente, dolorosa e stravagante satira della vita al confine orientale negli anni in cui tutto era sospeso, in attesa che si decidesse cosa poteva restare italiano, e cosa invece doveva essere ceduto all'arrembante vicino jugoslavo. È il grande libro simbolico sul dramma assurdo della Linea Morgan che sognavamo di leggere negli anni Ottanta e negli anni Novanta.

Va detto che stando a quanto racconta il curatore dell'edizione, il bravo Francesco De Nicola, il libro proprio allora è stato scritto: 1982. Purtroppo la sorte di Mattioni (1921-1997), artista caro a Bobi Bazlen e alla vecchia, elegante Adelphi, è stata questa: un libro che uscendo allora avrebbe potuto, per quanto sottile e ironico, destare scandalo, suscitare scalpore e animare un vivace dibattito politico (e ammettiamolo: era il momento giusto), uscendo nel 2011 va semplicemente a consolare i giuliano-dalmati, va a dare il suo onesto contributo al dibattito storico-politico, va a fare una grandissima figura sugli scaffali dei lettori forti, e degli appassionati di letteratura italiana. Accontentiamoci.

Mattioni ironizza sulla facilità con cui, a suo tempo, perdemmo non soltanto certi territori che non era né in cielo né in terra che venissero assegnati alla allora Jugoslavia, ma certi pezzi di terra. A volte, coincidevano con parti di casa. Che so: con la stalla. Il romanzo racconta la storia di una coppia che s'era innamorata della casa sbagliata: una casa che stava dalle parti del confine. E racconta la storia di chi ha venduto loro quella casa, pretendendo, in qualche strano modo, di rimanerci dentro: il vecchio Dolodi, «uomo in età, ancora vivace e pieno di umori», ma non di quattrini, sedicente mercante d'arte, fumoso consulente editoriale, padre di famiglia con una figlia mezza matta mezza gatta. La sua bella casa, sull'altipiano, ha tre-quattro ipoteche sul groppone e un gran bisogno di restauri. Per il resto, vanta un gran panorama e tanto silenzio: l'unica noia è che sta abbastanza vicina al confine, all'ultimo confine; il nuovo non è stato ancora fissato ufficialmente, s'attende il trattato di pace. Impossibile pensare che dopo aver perso tutta una penisola l'Italia voglia rinunciare ad altro mezzo chilometro di terra, no? Emilio ci casca. Compra. E accetta che Dolodi ci rimanga a vivere, almeno per il momento (per un po'...) con moglie e figlia. Emilio ci casca, ma s'accorge presto che in casa c'è qualcosa che non va. E non è soltanto la coesistenza col clan di Dolodi (cucina in comune, come sotto regime sovietico), o la scomodità. C'è qualcosa che non va. È qualcosa che si fiuta nell'aria, ma ancora non ha nome. Quando Dolodi promette di smammare entro due giorni – tutto a un tratto, come niente fosse – Emilio non capisce il pericolo. Figuriamoci quando sua moglie e sua figlia finiscono effettivamente in città, mentre lui rimane ospite. Fermiamoci qui, con la trama.

Com'era, il confine, a nordest? «Per la gente di qua e di là è come se non ci fosse: il nascere, il vivere e il morire insieme, da queste parti, è un modo d'essere che si perde nella notte dei tempi. I confini hanno importanza solo sulle strade, dove ci sono le sbarre e le guardie messe lì a curare degli interessi». Purtroppo, la tragedia della guerra cambia gli equilibri. E quando la guerra termina, non si riesce a decidere quali debbano essere, i nuovi confini: allora è possibile prendere e spostarli in qua o in là, con allegra disinvoltura. «Pare che si possa compiere questo e altro, contro chi, come noi, ha perso una guerra»: soprattutto se il confine è stato messo su alla buona, con quattro paletti di legno, scrive Mattioni. Per qualcuno, il suo "Dolodi" potrà sembrare uno psicodramma sul trasloco, incredibilmente simbolico ed evocativo, con non pochi elementi onirici; per qualcuno sembrerà una sceneggiata alla Polanski prima maniera, con tanto di elementi farseschi convenzionali, derivati e dettati dalla presenza d'un parassita vecchio stampo come il Dolodi che dà il titolo al libro, per qualcuno suonerà come una stravagante e bizzarra trasfigurazione dei problemi d'una coppia di giovani. Ma per chiunque abbia una minima cognizione di causa di ridicole e dolorosissime vicende di confine, soprattutto di incubi datati anni Quaranta e Cinquanta, "Dolodi" è una consolazione letteraria amara e magnifica: perché racconta una storia tutto sommato plausibile.

Gianfranco Franchi, febbraio 2011. Prima pubblicazione: "Secolo d'Italia".

Un romanzo allegorico e satirico di grande intelligenza e grande potenza espressiva.