Trieste selvatica

Trieste selvatica Book Cover Trieste selvatica
Luigi Nacci
Laterza
2019
9788858136164

Cos'è "Trieste selvatica"? È una "via sentimentale" a Trieste e al suo territorio: scritta per riconsiderare l'immaginario triestino, per restituirgli un respiro salvadigo, per sintetizzare decenni di letture e di approfondimenti e per estetizzare tante esperienze: tutta una serie di cammini, tutta una serie di incontri (e di lezioni). È una guida letteraria a Trieste e ai suoi dintorni, di una completezza spiazzante, capace di fare riferimento a testi fondamentali e piuttosto conosciuti (come "Trieste" di Ara e Magris, come "Trieste o del nessun luogo" di Jan Morris) ai migliori saggi degli ultimi anni (come "Trieste è un'altra" di Pietro Spirito, "Trieste sottosopra" di Mauro Covacich), a scritti ormai considerati marginali e comunque, da qualche tempo, difficilmente reperibili ("Trieste provincia imperiale" di Fölkel e “Bozzetti istriani” dell'amabile Guido Miglia). È un omaggio alla Trieste popolare e proletaria – storicamente senza letteratura o quasi, eccezion fatta per qualche sbuffo di Ugo Pierri, per l'insistenza recente di Covacich, soprattutto in "La città interiore", e per qualche poeta laterale. È una dichiarazione d'amore all'Istria nordorientale, vale a dire alla Ciceria, e al misterioso popolo dei cici, gli istrorumeni che la abitavano, sin qua piuttosto trascurati dalle patrie lettere, tolta qualche carezza di Rumiz e qualche accenno di Magris. È un libro scritto con estremo rispetto per tutte le sofferenze e tutte le contraddizioni di Trieste e del suo territorio: è scritto per spiazzare chi passa dalle parti di Miramare per due o tre giorni, si contenta di respirare l'atmosfera imperiale del Borgo Teresiano e del Borgo Giuseppino, notare qualche chiesa ortodossa e poi sparire con la sua cartolina in tasca. È un libro che insegna ad andare a san Giacomo, piuttosto che a san Giusto: vale a dire per il quartiere patoco dei figli del popolo e non per le rovine romane. È un libro che ameranno quanti pensano, come il vecchio Gillo Dorfles, che Trieste è una città che ha scoperto accidentalmente il mare (quasi fosse un lago salato, o giù di lì).

Poco più che quarantenne, il poeta triestino Luigi Nacci, padre della "Viandanza", ha deciso di dedicare un secondo libro alla sua città: il primo era stato "Trieste allo specchio", circa quindici anni fa, fondamentale indagine sulla poesia triestina del secondo Novecento e sull'immaginario locale [centodieci artisti intervistati, scandagliati trecentocinquanta autori]; questo "Trieste selvatica" [Laterza, 2019; euro 14, pp. 200] è un libro scritto tenendo ripetutamente presente la lezione magistrale dello Slataper de "Il mio Carso", fin dall'incipit, giocando poi a rovesciare i cliché, alla Fabio Cusin, e badando a rappresentare con esattezza contrasti e contraddizioni di una città che ha cambiato anima (e dialetto) tra Settecento e Ottocento, rinunciando al tergestino e abbracciando il veneziano, dimenticando così, assieme alla sua lingua, la sua storia: Tergeste-Trieste, Triest per gli austriaci [e Trst per la minoranza slovena] era stata, per quasi duemila anni, un borghetto di salinari furlani e uno scalo di scarsissima rilevanza; caduta Venezia, s'era ritrovata a essere "porto imperiale" di fama internazionale, almeno per un secolo e mezzo, e a Venezia era succeduta nel suo commonwealth.

Cosa c'è di eccezionale, in questo libro di Nacci, al di là della documentazione (riferita puntualmente in bibliografia, in appendice)? C'è il sentimento – un sentimento di pietà, di pace e di profondissima umanità: è un libro che invita a sventolare bandiera bianca, e forse per questa ragione va accolto e trattato con più rispetto ancora. C'è un'aneddotica lapidaria, come si conviene – periodicamente l'artista restituisce in poche righe, quasi fossero schizzi o appunti, pezzi di storia (e di letteratura, e di cronaca). C'è qualche battuta memorabile: "La bora è un dio che non ha fedeli" è forse la mia preferita (e poi continua, quasi fosse una poesia in prosa: "Non si fa adulare, non esige tributi, manda in frantumi gli altari di chi fosse così ingenuo da dedicarle un tempio. La bora è la voce potente del limite, un coro di confini che distrugge le cose vive e le cose morte"). C'è una prepotente presenza del Carso, ragionata e motivata a dovere ("Il Carso è Trieste ma è più di Trieste, è il suo apparato scheletrico e muscolare, polpacci tesi, pelle abrasa, unghie sporche. La città di sotto, quella sul mare, è tutta testa, è ferma. La città di sopra è un corpo che si dimena. La bellezza incomparabile del Carso sta nella sua durezza, nella sua sfuggevolezza"). C'è l'amicizia (sfocia forse nella fraternità) con gli sloveni di Trieste e dintorni e con la Slovenia, in genere: da questo punto di vista, Luigi Nacci è forse il primo nostro connazionale, dai tempi dell'istriano Fulvio Tomizza, a mostrare una simile dolcezza e una simile comprensione dei nostri vicini. Ed è un'amicizia pura, non c'è niente di ideologico o di etnico a muovere Nacci; in questo libro, riferendosi (ad esempio) ad Alojz Rebula, riesce a raccontare la realtà slovena triestina con garbo, competenza e lucidità, senza fanatismi e senza assecondare revanscismi o velenose acredini, come invece periodicamente accade nelle pubblicazioni di Wu Ming 1.

E poi c'è il "salvadigo" triestino, qualcosa di diverso dal nostro "selvatico italiano". Sentite qua, prendete le misure: "Salvadigo a Trieste è comunemente chi ha dei modi bruschi, scontrosi, al limite del rozzo in certe situazioni, chi non si lascia afferrare, uno da lasciar stare. Salvadigo può essere chiunque, il direttore di banca o il manovale, la condizione sociale non c'entra. Dentro ogni triestino c'è un pezzo di muschio, di corteccia di carpino nero intrisa di umidità, un residuo di boscaglia che ci fa diffidare delle trattative condotte nei saloni di rappresentanza, delle ideologie costruite in astratto, delle verità date per scontate nei centri di potere [...]. Siamo orsi. Selvatici, anche senza stare nella selva".

Sì, questo è un libro salvadigo. Nacci, nella nota autoriale, parla chiaro: "Vorrei considerassi questo libro come un discorso fatto a voce, camminando assieme, passandosi la borraccia, dove di certo può capitare di sbagliare, di essere inesatti, ma nessun errore impedisce al cammino di continuare". Quando Nacci sente di poter sbagliare, si fa domande – appare una pioggerellina di punti interrogativi, in certi contesti delicati, come a Basovizza: è un approccio cauto, civile e intelligente.

"Trieste selvatica" è destinato alle biblioteche degli appassionati di questioni triestine, carsiche e istriane; può valere, considerata la preziosa bibliografia, come mappa letteraria; a quanti hanno imparato a conoscere e apprezzare l'artista per via dei suoi libri sulla viandanza (pubblicati, sin qua, da Ediciclo e Laterza), posso assicurare che uno dei leit motiv del saggio è ovviamente il cammino: periodicamente Nacci vi porterà quando nel vecchio Molo san Carlo, odierno Molo Audace, quando nella vecchia piazza Grande, odierna Piazza Unità, quando per san Giacomo, quando per i boschi, spiegandovi bene cosa osservare...

Gianfranco Franchi, maggio 2019

Per approfondire: LUIGI NACCI in Porto Franco / Compagnia dei Cammini / sito ufficiale di Luigi Nacci /

Cos’è “Trieste selvatica”? È una “via sentimentale” a Trieste e al suo territorio: scritta per riconsiderare l’immaginario triestino, per restituirgli un respiro salvadigo, per sintetizzare decenni di letture e di approfondimenti e per estetizzare tante esperienze: tutta una serie di cammini, tutta una serie di incontri (e di lezioni). È una guida letteraria a Trieste e ai suoi dintorni…