Vino e donne dal 1913. Piccola storia di una città industriale e della sua ultima osteria

Vino e donne dal 1913. Piccola storia di una città industriale e della sua ultima osteria Book Cover Vino e donne dal 1913. Piccola storia di una città industriale e della sua ultima osteria
Saverio Minozzi
Thyrus
2005

Esordio di Saverio Minozzi, “Vino e donne dal 1913. Piccola storia di una città industriale e della sua ultima osteria” è un romanzo di incredibile freschezza espressiva e grande potenza simbolica: nostalgica rappresentazione d’un microcosmo e notevole, inattesa tragicommedia della condizione dei cittadini nella società postindustriale, in una delle province del nostro stupendo maledetto Belpaese. È anche, e paradossalmente a questo punto un elemento del genere va quasi in subordine, una storia del Novecento di Terni: da leggere, con calma, sfogliando assieme “Cento anni cento scatti. Una città si racconta” di Enzo Simula, libro fotografico (ed. Thyrus, 2005) che restituisce immagini d’una città segnata non solo dal passaggio dal regno del secondario al dominio del terziario (dal lavoro seriale intossicante al precariato, o “non-lavoro”), ma anche dai bombardamenti alleati (same old story: dovevano bombardare la fabbrica, assieme puntavano case, chiese, monumenti. Antico vezzo angloamericano). Prima il romanzo di Minozzi: così si può immaginare e capire. Quindi, le foto di Simula. Così si può avere conferma.

Mi spiace dover riproporre un’opera prima edita nel 2005, questa di Minozzi, nella certezza assoluta che vi risulterà nuova a due anni pieni di distanza: purtroppo, a dispetto della grande qualità del testo, la sua circolazione e la distribuzione non sono state mainstream. Suona grottesco pensare che nessun editore medio di qualità abbia avuto l’opportunità di rilevarne i diritti per rilanciarlo, perché – considerando anche le recenti opere prime apprezzate dalla critica e dalle giurie dei premi – qui diverse eminenze si sarebbero spinte a parlare di piccolo capolavoro, o almeno di gran libro. Perché questo è almeno un gran libro, una lezione di scrittura immediata e facile e di narrativa, sorprendente considerando che si tratta d’un libro d’esordio. Prodromi di qualcosa di davvero promettente che potremo leggere negli anni a venire, se Minozzi non cadrà vittima della depressiva coscienza d’essere italiano, quindi costretto a soccombere a certe logiche e certe misteriose dinamiche editoriali. Auspicando che l’autore resista, prima d’entrare nel cuore dell’analisi vi rinvio subito al paragrafo finale, per notizie sulla reperibilità: encomiando intanto pubblicamente il piccolo editore che ha creduto in un libro come questo, permettendogli di vivere. Grande scelta, Thyrus, da catalogo.

Bruce Springsteen è la colonna sonora ideale del romanzo, per esplicita dichiarazione autoriale e del postfatore Marco Venanzi: cantore delle contraddizioni, dei contrasti e delle fortune della provincia industriale, rabbioso e profondo e immediato. Minozzi racconta la storia a partire dal suo epilogo: ossia, in prolessi o – se volessimo passare dall’ambito letterario a quello cinematografico, evidentemente caro all’autore (cfr. diversi rimandi anche stilistici, tematici – p. 17, musica – non solo strutturali, a “Radiofreccia”), in flash-forward. È il principio-fine della storia è presto raccontato: c’è un ragazzo che sta guidando la macchina, con l’aria di chi se ne va. Chi rimane è un vecchio che cammina al centro della strada, pensando che quella linea è un filo e che ai suoi piedi c’è il nulla. Minozzi vuole accompagnarci a capire non come, ma perché le cose andranno a finire così, in quella cittadina che se non fosse per le targhe delle auto si direbbe sobborgo di Bucarest. Perché pensa sia forse questione di destino.

E allora avanti, per analessi e prolessi alternate e calibrate con grande metodo e grande equilibrio, per questa storia che ha come teatro un’osteria, bordello sino alla legge Merlin: nel Vicolo del baro senza tempo, dai giorni in cui l’Abruzzese padrone affrontò e ospitò l’ultimo brigante, Micciacorta, all’avvento del ragazzo di bottega che avrebbe animato l’osteria, Fortunato, trovatello che non voleva canzoni d’amore, come Bukowski. Nella felice galleria dei personaggi, si stagliano Sante che non voleva parlare, perché da quando il prete aveva venduto suo padre alle camicie nere aveva perso fiducia nelle persone, e si limitava a bere e osservare e solo col suo amore in segreto si confidava; e Libero (chiaro omaggio alla gloria cittadina Libero Liberati), figlio di Fortunato, nato con la velocità nel sangue, cresciuto nel bordello sopra l’osteria, campione del mondo che un giorno andò dritto in curva, in Valnerina; e l’ingegnere, senese d’origine, anima del testo, avventore dell’osteria e primo maestro di moto di Libero.

Oggi le bettole sono diventati bar, pizzerie, tavole calde. Certe osterie erano la gente che le popolava, erano qualcosa di differente. Voi non lo sapete, date retta, scriverebbe Minozzi: “La bettola era prima di tutto il suo puzzo: quel misto di rancido e piscio che ti accoglieva già dalla strada, quel tanfo di vino versato e mai pulito, di fumo e carne secca appesa al soffitto, era tabacco, mosche, aria viziata e sputi. Una roba da far schifo, per capirci. In un angolo c’era un camino dove stava immancabilmente un grosso pentolone d’acqua, se te le portavi da casa potevi anche cucinarti un paio di salsicce, altrimenti da mangiare non ne trovavi. Lì trovavi un unico articolo: vino rosso. Prendersi una ciucca con quel vino lì era un’esperienza mistica, sembrava fatto col legno. Lo chiamano genuino, da quelle parti” (p. 24). Un giorno Fortunato s’accorge d’essere vecchio, versa l’ultimo bicchiere di vino e via. Il muto brinda all’Abruzzese, si chiude baracca.

La televisione era stata comprata dai cittadini, Fortunato metteva solo la corrente. L’oste non lavava, asciugava soltanto i bicchieri – era la moglie, nel retro e nel mistero, a lavarli. Nessuno l’aveva mai visto lavare i bicchieri. In certi periodi c’era il postino della città che sedeva a bere e piangeva; da un po’ non faceva che portare lettere di licenziamento, le donne lo vedevano arrivare da lontano e si disperavano. La breve apparizione del postino, e la successiva rivelazione della ragione del suo pianto, sono folgoranti.

Non mancano incursioni nei tunnel, durante i bombardamenti alleati, e descrizione dei giorni delle radio libere: non manca la descrizione puntuale dei primi rappresentanti delle grande industrie che giungono a proporre-imporre i loro prodotti nelle osterie, e non mancano i telefoni a gettone. Non manca la storia della fondazione della grande acciaieria, e della corruzione dell’idea già in epoca fascista; non manca la descrizione delle case scoperchiate dalle bombe, e dei “battesimi” rivoluzionari dei bambini con nomi assurdi; in altre parole, c’è tutto il Novecento d’una provincia che ha sognato di cavalcare la rivoluzione industriale e s’è trovata cavalcata da altri interessi: devitalizzata, confusa e abbandonata, fa leva sulla fantasia e sulla rabbia per non ammettere che un’epoca si sta definitivamente chiudendo, e che forse è l’ora del bicchiere della staffa. Poi, con stile, si chiude la serranda e via.

Ha detto che gli sembrava di vivere in una di quelle città che si vedono nei western, quelle che si chiamano con nomi tipo Gold Town, che nascono con la corsa all’oro e per un po’ di tempo sembrano il paradiso, poi un giorno si esaurisce la vena e chi può sale su un carro e se ne va ancora più a ovest, finché dietro non rimane una città fantasma. Qui non era oro, ha detto, era acciaio, ma è lo stesso. Poi si è rimesso il cappello e ha detto che suo figlio non ce lo avrebbe lasciato a crepare in una città fantasma, un modo per mandarlo via da quel quartiere putrido l’avrebbe trovato. Quando si è allontanato lungo il viottolo, curvo sul bastone che ogni passo raccontava di chissà quale inferno nelle ginocchia, c’aveva su uno sguardo che sembrava andasse a spaccare il mondo” (p. 119)

Auspici ultimi. Un film tratto da questo libro – certi dialoghi sono già perfetti, è parlato che sembra registrato e trascritto, davvero credibile – e regalato ai cittadini delle centinaia di città industriali italiane, per insegnare e ricordare loro quel che è stato e quel che di buono dovremmo recuperare della vita dei nostri bisnonni, nonni e padri: la socialità, i centri d’aggregazione. L’umanità.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Saverio Minozzi (Roma, 1980), scrittore italiano. Ha esordito pubblicando questo libro nel 2005.

Saverio Minozzi, “Vino e donne dal 1913. Piccola storia di una città industriale e della sua ultima osteria”, Edizioni Thyrus, Terni 2005. Pp. 136. Prefazione di Mino Lorusso. Postfazione di Marco Venanzi.

Gianfranco Franchi, luglio 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.