Typee

Typee. Avventura in Polinesia Book Cover Typee. Avventura in Polinesia
Herman Melville
Piano B Edizioni
2011
9788896665305

“Le Marchesi! Che strane visioni di esotiche cose evoca solo il loro nome. Nude uri... banchetti cannibaleschi... boschi di noci di cocco... banchi di corallo... capi tatuati e templi di bambù; valli piene di sole dove cresce l'albero del pane... canoe intagliate che si cullano sulle splendenti acque azzurre... selvagge foreste custodite da idoli terrificanti... riti pagani e sacrifici umani” [Melville, “Typee”, Piano B, Prato, 2011; p. 23].

Ben prima d'essere il papà di “Moby Dick”, Melville era, per i suoi lettori americani, il marinaio-scrittore che era (soprav)vissuto in mezzo ai cannibali; questa sua leggendaria fama era dovuta alla sua fortunata opera prima, “Typee” [1846], mezza robusta fantasia mezzo onesto memoir della sua diserzione nell'isola di Nukuhiva, e del suo incontro con una tribù di aborigeni apparentemente paciosi. L'isola in questione era stata scoperta nel 1791 dal capitano Ingraham di Boston con un paio di secoli di ritardo rispetto alle altre Isole Marchesi.

I Typee [o Tipii, o Taipi], tribù ospite del giovane marinaio americano, nascondevano un fosco segreto: l'atroce vizio del cannibalismo. Nascondevano, si fa per dire: stando a quanto ci riferiva Melville, era il caso di pensare a un esempio di classico nomen-omen. Sentite qua: “Sembra che tali celebri guerrieri incutano agli altri isolani un terrore indicibile. Il loro stesso nome è spaventoso, perché la parola 'typee' nel dialetto delle Marchesi significa 'amante della carne umana'. Ed è piuttosto strano che tale titolo sia dato esclusivamente ai Typee – osserva HM – poiché tutti gli indigeni di questo arcipelago sono noti per essere irriducibili cannibali” [p. 43]. Più cannibali dei cannibali, insomma, a quanto pare. Situazione potenzialmente incresciosa, e questo nonostante l'apertura mentale – eccessiva, ammettiamolo – di uno che scriveva che considerava il cannibalismo qualcosa di meno orribile del previsto: “perché se è vero che il cannibalismo è praticato da parecchie tribù primitive del Pacifico, esso è tuttavia esercitato soltanto sui nemici uccisi; e sebbe questa pratica certamente orribile e spaventosa debba essere immensamente aborrita e condannata, continuo a sostenere che coloro che vi si abbandonano sono, sotto molti altri rispetti, umani e virtuosi” [p. 220]. Non ci piove, figuriamoci: il diavolo non è mai così brutto come lo si dipinge. Dicono.

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Melville era decisamente amico delle popolazioni aborigene: considerava il termine “selvaggio” applicato spesso a sproposito. In questo senso, oggi questa sua datata opera prima potrebbe essere considerata come un moderno esempio di dialogo e di apertura nei confronti di una civiltà tanto distante e sconosciuta: con tanto di provocatoria autocritica... “Quando considero i vizi, le crudeltà e le mostruosità di ogni specie che germogliano nell'impura atmosfera di una civiltà febbrile, sono propenso a credere che per quanto riguarda la colpevolezza rispettiva delle parti, quattro o cinque isolani delle Marchesi, inviati come missionari negli Stati Uniti, sarebbero presso a poco utili quanto un numero uguale di americani inviati nelle isole con analoghe mansioni” [p. 141]. Pensa pensa. Il curatore dell'edizione italiana del 1944, Bruno Tasso, considerava “Typee” addirittura “un'opera a tesi, quasi una riprova della verità di quanto Rousseau ha affermato nell'Emile: essere cioè la civiltà la più grande nemica della felicità dell'uomo” [p. 14]

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Secondo Simone Buttazzi, “Typee divenne un caso editoriale anche perché raccontava di un giovane finito tra i cannibali che invece di venire smembrato e pappato assiste ai baccanali di un Eden in mezzo al mare”. Insomma: si trattava d'un libro che aveva saputo spiazzare a dovere il pubblico yankee. Tecnicamente, il letterato bolognese-berlinese riferisce che Pina Sergi, anni fa, aveva rilevato che con questo libro Melville aveva inaugurato “un metodo di lavoro che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita: l'ibridazione di esperienze personali con fonti di prima e seconda mano indispensabili per fare contesto” [p. 8]. Metodo particolarmente divertente, e profondamente fertile, e capace di rianimare la narrazione dalle ripetute paludi della prevedibilità, e della routine.

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Last but not least, una curiosità italiana. A pagina 77 leggiamo: "Di tanto in tanto ci capitava di battere il capo contro qualche ramo sporgente, oppure precipitavamo fra sassi appuntiti che ci ammaccavano e ferivano, mentre le acque fluivano senza pietà sui nostri corpi prostrati. Belzoni, quando s'insinuava attraverso i passaggi sotterranei delle catacombe egiziane, non può aver incontrato ostacoli maggiori di quelli che incontravamo noi [...]" - Melville ci racconta così che nel 1846 il nostro compatriota Giovanni Battista Belzoni, 1778-1823, era diventato un paradigma, nel mondo. Chi era Belzoni? L'uomo che potrebbe aver ispirato Indiana Jones. Uno dei padri dell'egittologia. Veneto e straordinario. Tu guarda se toccava ai cannibali della Polinesia restituircene memoria, con un paio di secoli di differita, complice la narrativa del più illustre antenato di Moby – il musicista, dico, mister Richard Melville Hall.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Herman Melville (New York, 1819 – New York, 1891), scrittore e poeta nordamericano.

Herman Melville, “Typee. Avventura in Polinesia”, Piano B, Prato, 2011. Traduzione di Luigi Berti, già in Mondadori, 1951; rivista dall'editore. Prefazione di Simone Buttazzi.

Prima edizione: “Typee: A Peep at Polynesian Life”, 1846.

Nella sua prefazione, Buttazzi spiega quanto picaresca e avventurosa sia stata la storia editoriale del libro: in buona sostanza, “un manoscritto zoppicante, due prime edizioni pressoché simultanee e una 'biforcazione' del testo i cui strascichi giungono fino a noi, con la versione censurata che riappare, carsica, addirittura nel world wide web, su Project Gutenberg” [p. 12].

Edizioni IT: Torino, 1931. Quindi, ricordiamo almeno Vallecchi, 1937; Allegranza, Milano, 1944; prima integrale in Mondadori, 1951; Feltrinelli, 1957; Rizzoli, 1965; Riuniti; 1968; Garzanti, 1970, 1973; Mondadori, 1984; etc.

Gianfranco Franchi, ottobre 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.