Subbuteo

Subbuteo Book Cover Subbuteo
Daniel Tatarsky
ISBN
2007

Un paio d'anni fa, quando cominciavo a studiarmi le pubblicazioni delle ISBN di Milano, bighellonando tra una libreria e l'altra, avevo notato un libro che sulle prime non avevo avuto il coraggio di sfogliare: “Subbuteo” di Daniel Tatarsky. Quando mi capitava di pizzicarne copie in libreria cercavo di sbirciare le immagini; ogni volta era un tuffo al cuore. Amarcord, nostalgia, immagini di pomeriggi sempre più lontani, sempre più in bianco e nero. No, un'altra volta, mi convincevo. Un'altra volta. Qualche giorno fa ho ceduto. Ho fatto bene.
Ero uno di quei ragazzini che aveva collezionato centinaia di squadre, negli anni Ottanta. Uno di quelli che preferiva giocare sul panno verde senza compensato sotto. Il compensato era da fighetti. Vuoi mettere quando il campo ti si riempiva di pieghe strane, cambiando la traiettoria del pallone? E la gioia incredula di quando qualcuno a casa ti stirava il campo del Subbuteo? Era tutto più casareccio e romantico. Più semplice e più bello. Ero uno di quelli che aveva i riflettori (inutili) e le tribune (di grande impatto), i recinti (con tanto di pubblicità), gli arbitri, i cartelloni pubblicitari (simili a quelli del vecchio Stadio Olimpico) e il massaggiatore. Uno di quelli che si sentiva morire quando l'amico sfidante si alzava in piedi di scatto, per esultare, e magari calpestava un giocatore. Ma dai, mi hai rotto Boniek!

Tifavo per i miei calciatori sciancati, sperando non finissero di traballare per sempre, detestavo chi tirava schicchere potentissime e irregolari e chi diceva che avevo vinto perché avevo magari l'Austria Salzburg e i giocatori erano più stabili, una cosa del genere, più robusti. Allora la voleva lui, e magari perdeva uguale. Le squadre te le andavi a comprare in quei vecchi, magnifici negozi di giocattoli di quartiere; con un po' di fortuna, potevi pescare, in mezzo alle squadre nuove in confezione verde, le ultime squadre in confezione diversa – piccina, anni Settanta – e vantarti con gli amici. Qualcuno le trovava eccessivamente vintage, pensava fossero un'imitazione. I nomi delle squadre a volte erano aggiunti a penna, sull'adesivo bianco delle scatole delle formazioni: tutto questo dava un tocco di realismo in più.
Ho disputato interi tornei da solo, nei primi anni Ottanta, giocando un po' da una parte e un po' dall'altra, facendo finta di essere il cronista. Se non ricordo male segnavo anche i risultati su un quadernino (magari c'era la Coppa). Vi risparmio tanti altri ricordi collegati (pane e nutella a casa degli amici al mare, le merendine che planavano sul campo, l'odiosa ora di congedarsi dal vicino perché s'avvicinava la cena, e via dicendo) perché sospetto che ci sia capiti. Come potevo sfogliare il più grande – l'unico, a memoria mia – libro sul Subbuteo senza ritrovarmi bambino?

Oggi me ne andavo in bus a lavoro, ogni tanto alzavo la testa dal libro, guardavo fuori dal vetro e ridevo. Ridevo pensando a tutte le storie che mi ero – che ci eravamo – inventati giocando la simulazione di calcio più avvincente (altro che il calciobalilla: quella era roba da bar, senza tattica, senza estro, tutta questione di avambraccio e di potenza) e divertente di quegli anni. E poi cos'è successo? È successo che... che diciamo fino al videogame di “Emlyn Hughes”, o fino a “Footballer of the Year”, il computer perdeva di lusso nel confronto. Il Commodore 64 non ti emozionava come il Subbuteo. Il Subbuteo era più realistico. L'Amiga 500 ci offrì esperienze indimenticabili come il subitaneo passaggio da "Kick Off" a "Kick Off 2", a firma Dino Dini, poi venne "Sensible Soccer" e allora... allora cominciarono i primi seri guai per il Subbuteo. Giocare a calcio al computer era un po' più entusiasmante: non era soltanto il discorso della visuale sul campo o dell'interazione, era l'impossibilità di distruggere uno o più giocatori della tua squadra, la fine dei rischi per l'incolumità tua e dei tuoi pupazzi se l'amico sfidante si rivelava un po' vendicativo, la fine dei campi verdi da stirare, il tavolone da pranzo libero da campo e tribune, e via dicendo.
Vero, forse abbiamo sbagliato tutto: il Subbuteo avrebbe dovuto coesistere con i videogiochi, esattamente come la radio e internet, o internet e i libri. Per dire. Ma avrebbe avuto bisogno dei vecchi giocattolai di quartiere, non dei grandi magazzini che hanno man mano preso il loro posto; avrebbe avuto bisogno di quella fantasia che l'invasione mediatica di pallone ci ha tolto. Una volta non ti sognavi nemmeno di poter vedere la tua squadra quando giocava in trasferta; le partite in casa, se non andavi allo stadio, una volta ogni tanto andavano in differita (e in sintesi) e regolarmente andavano in Rai, tra Novantesimo e Domenica Sprint (viva viva il goleador) solo e soltanto per mostrarti gol e azioni più importanti. Avevamo tutti una gran fame di calcio e ci piaceva giocare a calcio anche così. Il calcio mancava per tutta la settimana, perché la copertura mediatica era scarsa e l'amore per la tua squadra del cuore era abnorme. Io ricordo, Subbuteo a parte, sfide bestiali a palletta. Palletta era uno straccio ovoidale fatto di cartacce e di scotch, meglio ancora se era quello da pacchi, più era grossa meglio era. Si giocava in un corridoio, magari davanti alla porta (di casa), si tiravano stecche pazzesche e si sudava come idioti. Spesso uno contro uno. Che senso aveva? Non lo so. Però ci divertivamo molto.

A Roma il Subbuteo diventava “Subbutèo”, con almeno tre b. Il suono di quella parola era decisamente famigliare. “Famo 'na partita a subbutèo?” era una richiesta normale, un po' come “Quando arrivano le ragazze giochiamo a strega di mezzanotte, dai!”. L'Atari VCS, l'Intellivision, la Coleco e le altre console pre-Commodore non erano così divertenti. I giochi sportivi erano tradizionalmente scarsi. Se vi ricordate "Peter Shilton" (C64) avete capito cosa intendo dire. Il Subbuteo era il nostro bisogno di consolazione (calcistica) e di simulazione. Tutti quei maledetti accessori erano stupendi e peccato solo non aver mai avuto la manualità per colorarli e dipingerli. Mica bastavano le squadre (e le scorte di palloni: vi ricordate? Se cadevano dal tavolo si rompevano. Spesso). Serviva qualcosa di unico e di caratterizzante. Tipo il tizio inutile che tirava i calci d'angolo. Se non vi sembra un linguaggio da iniziati, sappiate che questo è il vostro libro. Decisamente. Perché troverete tutta la storia del Subbuteo: del suo inventore, della fortuna dell'azienda, dei passaggi di proprietà; del suo progenitore, il Newfooty, dei suoi stravaganti epigoni – a volte proprio di casa Subbuteo – e dei milioni di bambini e ragazzi di tutto il mondo che hanno tirato schicchere come dio comanda più d'una volta, esultando per aver gonfiato (e sfondato) la rete.

Tatarsky ha scritto un libro generazionale e intenso, romantico e nostalgico: illustrato con foto accompagnate da didascalie bizzarre e cariche di humour, accompagnato da molti rimpianti. Quelli di chi, come me, a sedici anni si liberò sia del computer (per videogiocare) che del vecchio, glorioso Subbuteo. Questione di spazio, e di fratello della fidanzatina che aveva 11 anni e giusto due o tre squadre. Dargliene un centinaio, con tutti quei gadget, è stato bello e stupido, da parte mia. Succede.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Daniel Tatarsky è nato e vive a Londra. Scrive e gioca a Subbuteo, ma si guadagna da vivere come attore di cinema, televisione e teatro. Ha recitato nei film “The Disappeared” e “Britannic” (2007), è apparso nella pubblicità Fifa06 (con Wayne Rooney) ed è stato l’annunciatore della semifinale della Coppa d’Inghilterra 2005. Sa imitare perfettamente l’accento olandese, scozzese e del Lancashire.

Daniel Tatarsky, “Subbuteo”, ISBN, 2007. Traduzione di Massimiliano Galli.

Prima edizione: “Flick to Kick. An illustrated history of Subbuteo”, 2004.
Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi. Maggio 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.

Tatarsky ha scritto un libro generazionale e intenso, romantico e nostalgico: illustrato con foto accompagnate da didascalie bizzarre e cariche di humour, accompagnato da molti rimpianti. Quelli di chi, come me, a sedici anni si liberò sia del computer (per videogiocare) che del vecchio, glorioso Subbuteo.