Stagioni alla fontana

Stagioni alla fontana Book Cover Stagioni alla fontana
Giani Stuparich
Garzanti
1942

Ventisette prose, tra racconti ed esercizi di stile, a firma Giani Stuparich, originariamente apparse per Garzanti nel 1942 e quindi, per la seconda e sin qua ultima volta, sempre per Garzanti ma nel dopoguerra, nel 1950. Ventisette racconti, prometteva il vecchio segnalibro Garzanti, superstite tra le mie mani nel 2011, in cui era facile scoprire “come un senso di pace, un'inimitabile armonia che par fatta di silenzi, un amore profondo – si potrebbe dire reverente, grato – alla natura, quasi una nostalgia di solitudini, di contemplazione”.

“Stagioni alla fontana” è il quaderno di narrativa di un artista che non riusciva a trovare il passo adatto a scrivere il grande romanzo che avebbe dovuto assicuragli diversa popolarità: Stuparich aveva il respiro corto, il respiro dei veri narratori italiani – eredi della bella tradizione delle novelle, e dei racconti; e tuttavia di quella scuola sembrava estraneo a un aspetto spesso seducente e costruttivo, quale quello della minuziosa cura dell'architettura dell'opera.

“Stagioni alla fontana” è, con buona pace dei settant'anni passati dalla prima edizione, un quaderno di narrativa pieno di esperimenti e di bozzetti di almeno discreto interesse, che avrebbero potuto, se diversamente sviluppati e assemblati, dare vita a qualcosa di molto diverso. È in ogni caso un'esperienza estetica piacevole ed edificante, e non estranea a robuste meditazioni sull'opportunità d'una ben diversa dialettica con la natura: con la campagna, e con il mare. Stuparich non è mai misticheggiante, a questo livello della sua produzione: è tuttavia profondamente innamorato del creato. E il suo amore per il creato è uno dei suoi veri punti di forza.

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“Stagioni alla fontana”, il racconto eponimo, inaugura la raccolta. È un frammento lirico e semplice, singolarmente scultoreo, un pizzico di maniera; è la rappresentazione dei giochi innocenti di tre coppie di giovani in una fontana triestina. E giochi di bimbi – più indietro ancora – si incontrano nel brillante “Idillio”, laddove la felicità è stare in bici con l'amichetto prediletto: è “l'aria che circola tra i capelli e il collo; sole e ombra che s'avvicendano; la ghiaia che canta e fruscia sotto la ruota; essere come in un volo sospesi da terra; l'ebbrezza dell'equilibrio pericoloso; la spalla e la testa di Giorgio che le ciondolano accanto; il respiro ansimante di lui. Aldina è in estasi: le labbra socchiuse e la febbre del piacere sulle guance e negli occhi. C'è qualcosa di bacchico nel suo arrossato visetto di bimba”.

La natura, più di ogni altra cosa, sa ispirare quiete e pace nel cuore dei personaggi di questo libro: che sanno “godere delle cose semplici ed eterne: d'una ciocca rossa di fiori, d'un olivo abbracciato dall'azzurro, d'una fresca faccia di contadina”, come il pittore vagabondo protagonista del “Castello” insegna. La loro esistenza è stata un'iniziazione alla meraviglia della semplicità. E di fronte alla morte non mostrano ansia né angoscia: stoici accettano il corso della vita, e del destino, come nel pittorico frammento “Discepoli”.

La natura racconta meglio di qualsiasi persona gli orrori e la ferocia della guerra, come nel frammento “Il mutolo”, in cui si torna a casa nei territori feriti dai massacri della Grande Guerra e lo strazio lo racconta il bosco, solcato di cicatrici: “le schegge acuminate, il filo spinato, i rottami, i segni di morte […]. Dalla terra appena smossa vide spuntar cadaveri e biancheggiare scheletri nei borri”. Serviranno vent'anni per restituire selvatica armonia a tante terre.

La natura annuncia la compensazione d'una vita di sacrifici e di fatiche nella stupenda e romantica “Traversata”, storia d'un figlio che riesce a restituire alla mamma una casa perduta da più di vent'anni: la barca che va accompagnando i due a destinazione passa per il mare aperto, “e già si profilavano le montagne azzurre della costa. E, dentro un velo leggero, biancheggiavano i paesetti nelle insenature. L'aria era fresca e profumata di salsedine; e se non ci fosse stato il pettegolo tumtum del motore...” tutto sarebbe stato onirico, e santo: al di là del tempo.

La natura costituisce, infine, il rifugio e il traguardo di chi ha vissuto una vita intera in città, come nel racconto “L'urto”: laddove c'è chi ha trovato pace e quiete dopo cinquant'anni di “vita falsa e inquieta”, e “la vita ch'egli ora viveva aveva il respiro dei boschi, il contatto con la roccia, con le nevi e con i ghiacci; la salute dell'anima egli la trovava in quest'aria”, e non più nel mondo, inteso nella città e nella società degli uomini – quel mondo è diventato sinceramente estraneo. Purtroppo gli uomini che vivono lassù, nel bosco, sentono altrettanto estraneo il narratore, forestiero – ma questo è un altro guasto, e non ha a che fare con il creato, e con l'armoniosa grazia di quel che ha fatto il buon Dio.

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Segnalo, a latere, che s'intravede a un tratto una figura smarrita nel tempo, da tempo, sconfitta dal progresso tecnologico, e quindi quasi fatata, ai nostri sguardi: quella del lampionaio. Ecco che Stuparich descrive il suo passaggio: “Il lampionaio è passato da poco: ha smontato in tre pezzi l'accenditoio e, dopo averli ficcati in una guaina di tela cerata, se ne è andato con l'aria d'uno che si diverta a tener in mano una grossa mazza: si vergogna di passar con la lunga canna, tutta d'un pezzo come usava una volta, sotto le lampade elettriche della città. Le fiammelle gialle dei lampioni non rischiarano ancora: sono come dei lumini decorativi nell'aria trasognata dopo lo sfolgorio del tramonto” [racconto “Stagioni alla fontana”]. In poche parole, qui Stuparich diventa pittore. Notevole.

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Curiosità editoriale, per finire. Nella seconda di copertina dell'edizione Garzanti, 1950 di questo libro, si legge qualcosa che racconta tanto di quell'epoca, dell'economia e della cultura dell'Italia del dopoguerra, della diversa civiltà editoriale che allora vivevamo. Trascrivo fedelmente: «“I libri sono belli ma sono cari” - dice il pubblico. E gli editori fanno ogni sforzo per ridurre i prezzi e facilitare le vendite. Riallacciandosi alla tradizione dei Fratelli Treves, la cui Collana Amena superò i mille volumi e fece conoscere da noi i maggiori scrittori italiani e stranieri, l'editore Garzanti ha lanciato questa nuova “Amena” ove sono via via pubblicate le migliori opere della narrativa contemporanea, scelte nel vasto campo della produzione mondiale, nonché opere di teatro e libri polizieschi dei più famosi scrittori del genere. Questa nuova “Amena” che, fin dal suo apparire, fu accolta con la più viva soddisfazione del pubblico e con il più lieto successo, si avvia verso il suo centesimo volume. Tra le molte opere ormai pubblicate, tutti possono trovare una lettura piacevole che solleva lo spirito nelle ore del riposo e, ciò che pure ha il suo peso, che costa la metà di un biglietto d'ingresso al cinema”. Da meditazione. Vero? Vero. Come tutto il resto, a ben guardare.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giani Stuparich (Triest, Austria, 1891 – Roma, 1961), giornalista e scrittore italiano, di madre triestina (Gisella Gentili) e padre di Lussino (Marco Stuparich). Iscritto all’Università di Praga, si trasferì assieme a Slataper all’Università di Firenze. Si laureò in Letteratura Italiana con una tesi su Machiavelli.

Giani Stuparich, “Stagioni alla fontana”, Garzanti, Milano, 1950.

Prima edizione: Garzanti, Milano, 1942.

Approfondimento in rete: Wikipedia.

Gianfranco Franchi, agosto 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Ventisette prose, tra racconti ed esercizi di stile, a firma Giani Stuparich, originariamente apparse per Garzanti nel 1942 e quindi, per la seconda e sin qua ultima volta, sempre per Garzanti ma nel dopoguerra, nel 1950…