Secoli di gioventù

Secoli di gioventù Book Cover Secoli di gioventù
Eraldo Affinati
Mondadori
2004
9788804531753

"Resto sveglio solo io, la schiena attaccata alla parete, le gambe distese sulla panca. Ergastolano della memoria. Condannato alla sapienza. Cosciente del peso schiacciante che la teoria delle infinite possibilità di scelta determina nei giovani. Con una certezza incomunicabile perché ognuno deve scoprirla da sé: soltanto l’esperienza del limite ti fa apprezzare la libertà, altrimenti vana” (“Der Lehrer!”, p. 159).

Secoli di gioventù” è la storia d’una staffetta senza più testimone – del fallimentare passaggio di segni, significati e idee tra le ultime due generazioni. La generazione del ’77 ha accelerato troppo nella zona di pre-cambio: ha lasciato cadere a terra il testimone di sabbia, e non s’è accorta d’aver passato al ricevitore nient’altro che aria. Avvelenata. Nella zona di cambio c’è sempre stata molta confusione, sin dagli albori delle società occidentali. Ma non era mai capitato che due frazionisti parlassero lingue così estranee. Secondo il regolamento, soltanto il frazionista che ha perduto il testimone può raccoglierlo e restituirlo al compagno. La questione è che adesso è tardi.

Affinati s’è accorto che la nuova generazione sta andando al traguardo senza testimone, e che la corsa rischia d’essere invalidata. Allora ha preferito guardarsi attorno, e non solo guardare avanti (o guardare altrove), e ha notato, tra polvere, cenere sabbia e sangue, il vecchio testimone di sabbia. Scrive sbracciandosi, disperando di scrollarsi di dosso un senso di responsabilità che è universale, e non individuale; ma non può rimediare a quanto accaduto. Può soltanto avere fede nella sua missione di insegnante.

E non spiace, intanto, registrare che il suo impegno politico non è cieco di fronte alla verità del dogma che ha assassinato la libertà d’espressione nel Novecento, e anestetizzato e annacquato le arti. Il suo alter ego guarda con sgomento alla deriva qualunquista e para-neonazista dei giovani disagiati della nuova generazione: pur salutandoli col pugno chiuso, non nega l’evidenza; chi ha occhi per leggere, legga. Io dico che vale più questo paragrafo di cento conferenze sul senso della parola “revisionismo”.

Si parla di Berlino – non è un caso. “Nel cimitero di quartiere sono sepolti Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Se questi paladini della giustizia sociale avessero visto quello che accadde nel dopoguerra, forse non avrebbero trovato le parole per raccontarlo. Quando l’esercito dell’Unione Sovietica occupò la capitale del Terzo Reich, alcuni vecchi operai comunisti estrassero dai nascondigli le tessere di partito per mostrarle ai nuovi conquistatori nella speranza di ottenere la loro benevolenza: invece di essere considerati amici, furono fatti prigionieri e spediti in Siberia. La falce e il martello prendevano il posto della croce uncinata” (“Lichtenberg”, p. 71) – appunto: il messaggio è chiaro.

Il romanzo è suddiviso in brevi capitoli, che sembrano essere figli d’una storia eccezionalmente lineare che è stata tagliata in tante piccole parti uguali, mescolate e quindi re-inserite nella struttura, provocando un efficace cortocircuito. Esistono diverse strade in questo labirinto: si può seguire la vicenda attraverso il racconto del viaggio del professore e d’un suo allievo, Matteo detto “Rosetta”, sulle orme d’un giovane tedesco smarrito in India, in cerca d’una catarsi dalla coscienza delle responsabilità della sua famiglia; nel contempo, si andrà leggendo del rapporto epistolare e non tra il professore e il padre di questo giovane tedesco, in cerca della verità sulla fosca figura del nonno nazista, caduto in Italia; ancora, si potrà gustare qualche frammento di vita d’un istituto tecnico romano, con una narrazione a metà strada tra una sensibilità lodoliana (e quindi pennac-iana) per le difficoltà e i talenti degli allievi e un’embrionale romantica registrazione pasoliniana del romanesco dei borgatari. L’espediente è quello del frequente cambiamento cronologico nella narrazione: espediente estremamente caro al cinema contemporaneo, per intenderci. E in effetti questo “Secoli di gioventù” è romanzo estremamente cinematografico. È già più d’un buon canovaccio per una sceneggiatura.

Incontriamo i due personaggi principali. Il narratore-diarista (sebbene il romanzo alterni, a volte, messaggi vari e lettere alle sezioni diaristiche, accettate questa generalizzazione) è un professore di Lettere d’una scuola romana. Insegna Storia e Italiano ai ragazzi difficili. Crede che avrebbero bisogno di un nemico (p. 13). Definisce i suoi allievi “afasici, abulici e annoiati”. È comunista. Il suo allievo prediletto è “Rosetta”, battezzato così dai compagni perché ha il volto buono come la pagnottella romana (è un volto “tondo, tozzo, scorticato”). Mostra seri disturbi nell’apprendimento. Segue un programma differenziato. Vive con i nonni, in periferia. Il padre è un meccanico con troppi precedenti sul groppone, la madre è una donna senza futuro, già abbandonata a se stessa.

Nel padre di Rosetta, il professore rivede quel che avrebbe potuto divenire, se non avesse avuto amore per la scrittura. È invece un motociclista che cerca di spiegare ai ragazzi cosa sia stato bene, e cosa male nella Storia recente della loro nazione. Riesce a conquistare questi ragazzi leggendo loro passi da “Il richiamo della foresta”: s’avvicina a decifrare il loro codice di comunicazione con cautela, giocando a volte sul romanesco, a volte sul comune amore per la Roma, a volte sulle analogie tra la sua adolescenza difficile e la loro, a volte sulla partecipazione empatica della classe ai suoi racconti di guerra.

Proprio due dei suoi allievi gli mostrano, un giorno, un ritaglio d’un quotidiano da antropoidi – uno di quelli in distribuzione gratuita. Là si racconta che, nei pressi di Corviale, erano in corso degli scavi e delle ricerche per restituire alla luce quel che restava d’un’autocolonna della Wehrmacht, bombardata sessanta anni prima. I due futuri carrozzieri non hanno talento per la storia; in compenso, ne hanno per capire dove si debba scavare, nella loro città. Raccontano al professore d’aver trovato un passaggio, e ne portano prova. Rosetta li ha inseguiti, di nascosto, e potrà così portare il docente-amico a dare un’occhiata. C’è un cadavere che va esaminato per primo, perché sua era la cintura che Rosetta ha consegnato al docente per convincerlo a seguirlo. I documenti di quel soldato sono ancora leggibili…

È il principio d’un’avventura simbolica ed esistenziale che si svolgerà tra Roma, la Germania e l’India, sulla scia d’un nipote d’un nazista che voleva restituire la svastica alle sue origini, e in sé pareva fondere Gandhi e Hitler, non sopportando “il vuoto delle idee”.

Sarebbe stato imperdonabile se questo romanzo l’avesse scritto un autore incapace di riconoscere le ragioni del malessere della nuova generazione. Affinati non ha la disperata onestà d’andare fino in fondo, e si limita – in troppi casi – a percepire distanza tra il ragazzo difficile che ce l’ha fatta (lui, intellettuale e comunista) e quei ragazzi difficili che non potranno farcela (loro, futuri carrozzieri e intanto skinhead): sarebbe bastato spogliarsi del tutto della propria ideologia, o analizzarne a fondo le responsabilità storiche, sociali e politiche, per comprendere una delle ragioni di confusione delle nuove generazioni. Tutto qua.

I loro occhi sono splendidi. Anche se si limitano a intuire il significato delle mie parole, senza padroneggiarlo del tutto, mostrano una formidabile intensità. Pur fra disattenzioni, indisciplina e incostanze, sento che sto versando in loro un po’ di sangue. Polso contro polso. Mi spiego? Trasporto il materiale nella cava. Offro il mio contributo” (“Polso contro polso”, p. 134) – il sangue non è acqua.

Da leggere, per riflettere. I linguisti troveranno notevoli campionature del romanesco contemporaneo nelle aree meno agiate. I lettori incontreranno una storia che può affascinare, ma non sedurre. Sarà un buon film, magari in co-produzione tra diverse nazioni europee.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Eraldo Affinati (Roma, 1956), romanziere e saggista italiano. Ha esordito pubblicando “Veglia d’armi. L’uomo di Tolstoj” nel 1992. Ha curato l’edizione completa delle opere di Mario Rigoni Stern, “Storie dall’Altipiano” (2003).

Eraldo Affinati, “Secoli di gioventù”, Mondadori, Milano 2004.

Gianfranco Franchi, dicembre 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.

La storia d’una staffetta senza più testimone – del fallimentare passaggio di segni, significati e idee tra le ultime due generazioni…