Project X

Project X Book Cover Project X
Jim Shepard
Meridiano Zero
2005
9788882370992

Non è soltanto per la libera circolazione delle armi: come Michael Moore insegna, la proporzione armi-abitanti di USA e Canada è estremamente simile, il numero annuo di cittadini massacrati per arma da fuoco ben distante. Non è nemmeno per via dei contrasti di una società multietnica, Inghilterra e Canada dimostrano il contrario; né per l’esposizione catodica quotidiana a violenze e omicidi, perché allora in ogni nazione occidentale dovrebbero ripetersi fenomeni analoghi con simile periodicità. Non è una questione di benessere, perché gli assassini sono giovani piccolo o medio borghesi; né una questione famigliare, perché spesso vivono nella classica famigliola americana. È forse una questione etnica, perché tendenzialmente sono bianchi, wasp. È forse una questione di anomia: Durkheim coniò il termine scrivendo il magistrale “Sociologia del suicidio” nel 1897. Rinfresco la memoria con qualche frammento: viatico a spiegarvi perché credo che il dramma degli School shooting sia, se non il primo, il più chiaro atto della corrosione interna degli Stati Uniti d’America.

Il suicidio anomico è il rovescio della medaglia del suicidio egoistico. Non dipende da come gli individui entrano a far parte di una società: ma da come ne sono sottomessi. Dipende dal disordine della nostra società: non dalle crisi economiche o dalle fasi di recessione, ma – più in generale – dalle fasi di trasformazione e di frantumazione dell’equilibrio sociale. Da tutto quel che turba l’ordine collettivo. In sintesi: “il suicidio egoistico deriva dal fatto che gli uomini non trovano più una ragion d’essere nella vita; il suicidio altruistico, dal fatto che questa ragione gli sembra al di fuori della stessa vita; il suicidio anomico, dal fatto che la loro attività non è più regolata, e ne soffrono” (p. 315).

Io credo che gli School shooting statunitensi corrispondano all’intuizione di Durkheim, e che ne costituiscano al limite una sordida evoluzione: “ogni società, in ciascun momento della sua storia, ha una determinata tendenza al suicidio”. Le ragioni per cui questi assassini, di norma suicidi, trascinino con sé il maggior numero di persone possibili sono diverse; penso a un’autodistruzione concepita come nazionale, globale; a un ultimo, disperato tentativo di affermazione della negata identità, pure nell’infamia, considerando quanto spesso le biografie degli omicidi-suicidi rivelino nulla o mediocre integrazione nel tessuto scolastico, e non episodici fenomeni di bullismo alle spalle; penso alle micidiali nuove armi a disposizione, e in America facilmente reperibili da chiunque, a prezzo d’occasione.

È evidente che, trattandosi di un fenomeno sino ad ora circoscritto a diverse aree suburbane o comunque periferiche degli States, ci sia da tenere presente un ruolo-chiave del fattore anomia: ecco una lontananza incolmabile dalle luci, dalla dorata plastica e dal tenore di vita delle grandi, irraggiungibili e vagheggiate metropoli; o forse una percezione miserabile del proprio presente e della consapevolezza d’un esecrabile futuro, in quei piccoli e polverosi ghetti periferici; magari anche una distanza micidiale dalla depressiva propaganda politica statunitense; certo un rifiuto sdegnato di quel sistema, di quella società e – non posso escluderlo – della sua ormai secolare politica estera, omicida a livello planetario. Un popolo che, negli ultimi sessant’anni, ha sulla coscienza i barbari massacri e le distruzioni di Dresda, Zara, Hiroshima, Nagasaki, Falluja non può non essere infestato dagli spettri.

Il fenomeno dei massacri nelle scuole esprime, infine e molto chiaramente, odio nei confronti dell’istituzione scolastica americana: luogo delle stragi e della caotica (altra simbologia interessante) scelta delle vittime, docenti, impiegati o studenti che siano, sono aule e corridoi dove frustrazione, disperazione e risentimento dei non integrati si sono cristallizzati, negli anni, soffocandoli. Chiaro e logico che in una nazione dal grilletto facile certe pubbliche (auto)esecuzioni potrebbero avvenire in diversi e più popolosi contesti. Curiosamente, i giovani americani distruggono e si autodistruggono proprio in quelle scuole propagandate come splendido esempio di educazione completa, intellettuale e sportiva, con tanto di ambulatori, laboratori, mense e attività extracurricolari di ogni ordine e grado. Immagino significhi qualcosa: un numero superiore di morti, in contesti egualmente ritenuti sicuri e pacifici, avrebbe diversa risonanza mediatica. Sospendo queste riflessioni perché a questo punto siamo pronti a parlare del romanzo di Jim Shepard: in seguito, dedicherò una finestrella ai massmediologi apocalittici, che non possono non essere chiamati in causa, per via delle loro stravaganti supposizioni.

Project X”, sesto romanzo del letterato americano Jim Shepard, classe 1956, riesce laddove aveva fallito “Elephant” di Gus Van Sant: non fa di tutta l’erba un fascio, non mostra una generazione di giovani americani inebetiti dalla mensa scolastica e dalla televisione o dai videogame violenti, non nasconde l’umanità e la sensibilità dei genitori dei ragazzi e le premure di parte del corpo docente, ben presente nell’opera (gioverà ricordare che Shepard insegna, dal 1984, nel Williams College) senza caricature né facili macchiettismi. Racconta e spiega la genesi di una tragedia invitandoci a cercare, se non senso, almeno significati profondi e superficiali nelle sue dinamiche, analizzando il comportamento dei due giovani protagonisti, accompagnati nella loro quotidianità e nella loro intimità da una superba e credibile narrazione dialogica, tenuta viva dalla bella traduzione di Federica Alba.

Shepard rivela – questa la mia impressione – una notevole capacità di registrazione degli effetti, preferendo una minore indagine delle cause della decisione di massacrare studenti e docenti: punta, decisamente, sul senso di inadeguatezza e sulle complesse e intricate relazioni sociali dei due ragazzi, sui loro robusti silenzi di fronte alle domande genitoriali, sulle bugie e sulle risposte poco più che bisillabiche di fronte tanto ai complimenti quanto alle critiche dei docenti. Mostra d’avere speranza separando la sorte del protagonista, l’incerto e complessato Edwin, da quella del suo compare, il brutale Roddy detto Scheggia, che manda – di fatto – in porto la sua missione (auto)distruttiva. Suggerisce quindi che la paura può essere sintomo d’intelligenza. Oppure, d’una debolezza così grande da impedirti d’avere personalità anche quando hai deciso di perdere tutto. Sarei tentato di trascrivere le ultime battute del romanzo, ma per rispetto del lettore mi limito a suggerire una lettura ripetuta delle ultime cinque righe del libro.

Edwin ha in comune con diversi tra questi tristi killer delle scuole americane una situazione scolastica ed esistenziale traballante, a dispetto d’una serena vita famigliare. Da un anno i suoi voti sono precipitati, inspiegabilmente; qualche docente lo stuzzica, invitandolo a essere meno tetro e depresso durante le lezioni. Intanto, non lega con nessuno se non con Scheggia (cfr. notevole discussione sui gruppi nella scuola: pp. 46-47). Non frequenta attività extra-scolastiche, cerca di non mangiare niente a mensa, si mostra cinico e tira qualche battuta di troppo su Charles Manson. Spesso si ritrova a prendersi a cazzotti, e a prenderle, da qualche compagno. I suoi problemi comportamentali derivano anche da questo; nonché, pare di capire, dalla timidezza con le ragazzine, pure piuttosto desiderate.

Crede che la tv sia una malattia mentale (p. 18) tuttavia il suo amico mostra interesse per la reazione dei telegiornali dopo la notizia degli omicidi (p. 69); in compenso, Edwin consulta spesso un libro sui serial killer, informandosi per bene su teorie e tecniche di distruzione di massa (cfr. Ed Gein, p. 85 e non solo), e sulla personalità e sull’estetica (!) degli assassini. Edwin non fa sport, non ha amici, se ha interazioni coi coetanei è per pestarsi, con una o due eccezioni. Ha terrificanti emicranie e sprigiona, a ogni pagina, una solitudine e una coscienza del suo isolamento semplicemente abnormi.

Shepard vi guiderà nella sua anima: nella sua incerta adesione ai piani omicidi di Scheggia, prima d’avvelenamento poi di sterminio, e nella sua emozione di fronte ai complimenti per un bel disegno; nel suo amore per il fratellino, nella sua paura di tutto. È un viaggio che segna il lettore, umanizzando i responsabili di quelle stragi che vediamo, periodicamente, infestare i notiziari americani. L’uomo nero è sempre più bianco. Come spesso è stato.

Ciò detto, auspicando di poter leggere altre opere d’uno scrittore che Dave Eggers considera tra i migliori contemporanei, passo ad esaminare rapidamente le conseguenze recenti delle apocalittiche letture popperiane dell’influenza della tv sulle menti dei cittadini.

Scriveva Bosetti in “Dal villaggio all’asilo d’infanzia (globale)”, all’interno di “Cattiva maestra televisione”, Marsilio, Venezia 2002, pp. 48-51): Nomi come Paducah (Kentucky), Pearl (Mississippi), Stamps (Arkansas), Conyers (Georgia), Littleton (Colorado) evocano nella mente di qualunque americano l’incubo di una violenza che esplode improvvisa tra i ragazzi, che sembra scaturire da una infanzia geneticamente modificata da menti perverse” L’elenco delle città è estremamente più esteso (per approfondire: “School shooting”, con tanto di letteratura fiction e non fiction), ma vediamo dove si vuole andare a parare. Poco oltre, leggo: “I nostri bambini sono stati nutriti – dichiarò Clinton il primo giugno del 1999 – da una dose quotidiana tossica di violenza. Ed è una cosa che si vende bene. Ora, trent’anni di studi hanno mostrato che questo desensibilizza i bambini alla violenza e alle sue conseguenze. Adesso sappiamo che al momento in cui un tipico ragazzo americano raggiunge l’età di diciotto anni, ha visto 200mila scene di violenza, 40mila di omicidio (…). Studi dimostrano che il confine tra la violenza di fantasia e quella reale, che è una linea molto chiara per la maggior parte degli adulti, può diventare molto confusa per bambini vulnerabili (…)”; l’ex presidente concludeva alludendo a eventuali future limitazioni per il Primo Emendamento. Ci stiamo avvicinando ai veri responsabili dei massacri, tenetevi forte. Bosetti ricorda quel che ha insegnato lo psicologo Dave Grossman in “Stop Teaching Our Kids to Kill”: “l’esercito degli Stati Uniti si addestra a sparare su simulatori che sono uguali, con piccole modifiche, al Super Nintendo che possiamo comprare a Natale per i ragazzi”: questo spiega la mira infallibile di Michael Carneals, 14 anni, nella strage di Paducah (otto colpi tutti a segno; sulla base di quella distanza – 7 yards – un ufficiale medio della polizia colpisce una volta su cinque, in azione).

Bene. Per i massmediologi apocalittici, quindi, c’è poco da inquietarsi: siamo tutti condizionati da film e videogames, è per colpa loro se in America c’è chi massacra venti coetanei per volta, a scuola. Siccome la mia generazione s’è addestrata a sparare ai nemici già ai tempi di “Operation Wolf”, sul glorioso Commodore 64, adesso so che sapremo darci da fare in qualsiasi contesto bellico, figuriamoci con bersagli urlanti e semoventi come gli studenti impauriti. Le console si sono evolute, dai tempi dell’Intellivision: con le Playstation gli sparatutto sono diventati un centro addestramento reclute. Avvertite Osama: potrebbe abbattere i costi. Mi sembra superfluo ricordare che, in passato, simili e grottesche responsabilità vennero imputate alle opere letterarie, ai fumetti e a certi dischi (…), piazzati serenamente alla gogna.

Francamente, escludo che le simulazioni della realtà, siano essere la lettura, la visione di un film o l’interazione con un videogioco, possano arrivare a sostituire l’esperienza; escludo siano cause prime o cause uniche; escludo siano cause secondarie. Tendo a credere non siano nemmeno concause, a meno che i soggetti protagonisti non patiscano problemi complessi di personalità. E quale società, quale comunità non ha influenza chiara sulla personalità di un individuo? E quanta influenza ha la sua percezione di differenza, distacco o estraneità dalle norme e dalle leggi immutabili o quasi di quella società, e di quella comunità? In sintesi: prima di definire Chuck Norris – faccio per dire – il padre dei massacratori nelle scuole, inviterei i massmediologi a guardarsi la sua opera omnia. Le successive idee non potranno che essere diverse. Questo romanzo, intanto, si rivelerà interessante supporto. Questa è una previsione facile.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

James R. Shepard, alias Jim Shepard (Stratford, Connecticut, USA, 1956), scrittore americano. Ha insegnato nell’Università del Michigan. Insegna dal 1984 al Williams College.

Jim Shepard, “Project X”, Meridiano Zero, Padova 2004. Traduzione di Federica Alba.

Prima edizione: “Project X”, New York, 2004.

Gianfranco Franchi, agosto 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.