Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina

Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina Book Cover Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina
Guillermo Arriaga
Fazi
2006
9788881127726

Conosciamo Arriaga per via dei film di Alejandro González Iñárritu: ha scritto “Amores Perros”, “21 Grammi”, “Babel”; la loro collaborazione è ufficialmente (definitivamente?) terminata ad inizio 2007. Scopriamo adesso Arriaga romanziere, a partire dall’opera prima, l’atipico, grottesco e leggero “Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina”, scritto nel 1994, non ancora film.

Prima di tutto, conviene avvertire il neofita che il romanzo è ben distante dall’ossessiva introspezione che caratterizza le scritture dei film di A.G.I.: è lontano dalla drammatizzazione del dolore, dall’esasperazione della sofferenza, dalla radiografia del pianto. Non scarnifica, non disossa; non s’impunta sull’inevitabilità. È, in altre parole, libero di prendersi gioco della vita e della morte, in queste pagine. Qui Arriaga la morte l’aveva addomesticata, e ne aveva fatto derivare un gioco. Da quattordici anni, quindi, sta precipitando.

Il primo Arriaga è un piccolo maestro dell’humor nero: la morte non domina ancora la scena, piuttosto è protagonista funzionale e necessaria; appunto, entra in scena soltanto quando viene agita, non è mai improvvisa e non è mai immotivata, e il dolore che porta con sé viene al limite ridicolizzato. Questi tratti mi sembrano già bastevoli a stuzzicare l’interesse di quanti, come chi scrive, s’erano arrestati di fronte ai film scritti dal messicano, irritati o stanchi di tanta ossessiva insistenza sul dramma. Il dolore insudicia quando diventa protagonista assoluto, cessa d’insegnare per tramortire e demoralizzare. Non è il caso, finalmente, di questo ludico e lieve incontro romanzato tra il rivoluzionario messicano Doroteo Arango Arámbula, noto come Francisco “Pancho” Villa, e l’inventore d’una ghigliottina messicana, Feliciano Velasco.

Velasco non la ripropone per uniformare le tecniche di condanna a morte (altrove, in Europa, l’impiccagione era un tempo riservata ai volgari assassini; i nobili venivano invece decapitati), puntando semplicemente a contenere i costi delle fucilazioni (pallottole), riducendo i tempi e le problematiche delle esecuzioni. È un laureato in Diritto che si vezzeggia di questa sua creazione, e a dispetto delle sue illustri origini si ritroverà non solo a vedere la sua arma adottata dalle forze rivoluzionarie, ma a essere parte lui stesso dei loro rabbiosi, bestiali e naturali (!) omicidi.

L’incanto letterario ci consente di riuscire a trovare ridicolo e grottesco un periodo macchiato di sangue anche di innocenti, come quello del Messico rivoluzionario. Per un attimo dimentichiamo che davvero non era difficile per certi eserciti massacrare qualcuno semplicemente perché benestante o spagnolo o nemico del popolo, perché l’allegoria della ghigliottina, e la ludica e nera sequenza delle decapitazioni, addirittura talvolta frivola, senza dubbio sempre divertente, aiuta a dimenticare che si moriva egualmente, e di morte vera. Velasco è fisicamente sgradevole, la sua invenzione è omicida, la sua condotta è vigliacca. Eppure, questo Tersite non risulta odioso. È – appunto – stupido e infantile come la morte, e della morte mantiene la casualità e la ferocia; una ferocia fredda, appunto: una sorta di abnorme naturalezza.

Può un uomo desiderare di passare alla storia per essere stato parte d’una divisione di massacratori, può gloriarsi di fondare la sua carriera sullo spavento che ovunque incute quel suo macchinario? Qui avviene, sin quando Velasco non capisce che non sta più servendo il suo ideale e il suo destino, ma un esercito che vuole riprodurre in serie la sua ghigliottina, realizzata con anni di studi e paziente ricerca delle migliori materie prime. E in quel frangente Arriaga regala pagine di grande letteratura. Come questo frammento: “[…] non c’è sensazione più tragica, nel senso più completo del termine, di quella di aver perduto il destino a cui credevamo d’essere destinati. È in quell’istante che si sintetizzano con violenza tutte le emozioni legate alla perdita. Tale sentimento non ha niente a che vedere col fatto di aver raggiunto la meta che ci eravamo prefissi, no. Si fonda invece sulla profonda convinzione che ognuno di noi abbia una propria ragione d’essere, che ha l’obbligo di portare a compimento e a cui deve assoggettarsi: non farlo, ci dà la sensazione di naufragare. Perdere ogni volontà di fronte al proprio destino significa sprofondare nella tragedia, sottomettersi alle leggi della casualità, arrendersi al trionfo delle circostanze. Sentirsi come una marionetta. Perdere questo ‘qualcosa’ chiamato destino, genera una situazione insopportabile” (pp. 156-157) – e mi sembra estremamente interessante la potenzialità da chiave di lettura passepartout di questo passo con l’intera produzione cinematografica di Gonzalez Inarritu scritta da Arriaga: io dico che qui s’annida l’embrione di anni di scrittura e di ricerca, in questo brano che accompagna Velasco alla distruzione della ghigliottina e alla successiva diserzione.

Simbolicamente mi pare peraltro notevole che nessun altro riesca poi a ricostruire la ghigliottina, a dispetto delle richieste zapatiste e delle attese di Pancho Villa. Naturalmente, l’invito è a surclassare subito la lettura “letteraria” delle ultime pagine. Ciascuno decida la sua rotta, questa è la mia direzione.

Il romanzo ha momenti di grande intensità nei dialoghi, adeguata rappresentazione di tempi, colori e ritmi del parlato, e nelle descrizioni della superficie profonda dei personaggi, per via dei tratti del loro temperamento o dei loro comportamenti poco prima o poco dopo una decisione o un evento. Qualche episodio risulta felicemente sconnesso dalla narrazione, sconfinando nel bozzetto o nello sketch; penso, ad esempio, all’amore tra Velasco e la bella rivoluzionaria sensibile, a un tratto, non più alla brutalità e alla fisicità ma alla sghemba poesia di quell’ometto. Plausibile, piuttosto, la sua successiva fuga, preferendo una battaglia a una vecchiaia da sposa: in linea col personaggio.

Non ricordo di aver letto romanzi su Pancho Villa, il “Robin Hood” dei messicani; ricordo diverse immagini, in compenso, tratte o ispirate dalla sua esistenza. Nel libro non manca nemmeno questo elemento; s’allude alle prime troupe americane, ansiose di filmare esecuzioni e di dedicare primi piani insistiti al pericoloso nemico della democrazia, amico del popolo. L’impatto – manco a dirlo – è stupendamente grottesco.

Velasco sognava ricchezza e fama, trova un esercito irregolare e oscura fama di capo d’uno squadrone temuto e solo episodicamente vilipeso (micidiale la trasformazione di ghigliottina in altalena, o in tagliapane; ridicola la furia dell’inventore contro l’emulatore, che sognava di ghigliottinare i topi; etc.), sempre pronto a ricostituirsi e a rigenerarsi. Le sue non sono memorie d’una testa tagliata, ma d’un tagliatore di teste, capace di abiurare e rinnegare il suo passato e la sua estrazione sociale per inseguire l’impossibile realizzazione di sé; sino alla perdita di se stesso, e – curioso epilogo – alla sua sparizione.

Sullo sfondo, assalti ed esecuzioni, furti e rapine, omicidi e grassazioni. In nome della rivoluzione. La morte, infine, fa ridere. Almeno qui. Almeno per un po’. Quanto basta per prendere le distanze dall’ingrato memento mori, ac mori soffrendo, classico del cinema di Inarritu.

Da leggere, da leggere. Sarebbe formidabile compararlo alle italiche memorie di Mastro Titta, il boia dello Stato Pontificio. Stesso humor nero: si vede che è nel dna degli assassini.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Guillermo Arriaga (Città del Messico, Mexico 1958), sceneggiatore, produttore radiotelevisivo e romanziere messicano. Ha esordito pubblicando “Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina” nel 1991.

Guillermo Arriaga, “Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina”, Fazi, Roma, 2006. Traduzione di Stefano Tummolini. Progetto grafico e illustrazione di copertina: Maurizio Ceccato.

Prima edizione: “Escuadrón Guillotina”, 1994.

Gianfranco Franchi, luglio 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.