Non cercare l’uomo capra

Non cercare l'uomo capra Book Cover Non cercare l'uomo capra
Irene Chias
Laurana
2016
9788898451579

Sarei tentato di scrivere che il terzo libro di narrativa della scrittrice isolana Irene Chias, “Non cercare l'uomo capra” [Laurana, 2016; euro 15, pp. 192], è in buona parte un discreto romanzo rosa, perché in fin dei conti di storie d'amore, di malinconici periodi di asessualità e di rocambolesche avventure erotiche, in genere, questo libro per lo più tratta: dimenticherei però di dare il dovuto rilievo all'altro protagonista assoluto del romanzo, di buona valenza documentaristica, vale a dire la rappresentazione dell'integrazione degli emigrati (soprattutto africani) in Italia e la restituzione di uno spaccato famigliare italo-gambiano. Tecnicamente, “Non cercare l'uomo capra” è quindi un romanzo rosa “anfibio”: è anche un romanzo politico, radicale e progressista. Se ci concentriamo solo sulla narratrice, emerge per lo più l'aspetto “rosa puro”, con impatto ondivago e resa altalenante; se ci concentriamo sui suoi comprimari, si staglia la più interessante e complessa questione dell'integrazione (e delle sue contraddizioni, e dei suoi punti di forza, e dei suoi ostacoli).

Partiamo dalla narratrice. Luisa, figlia del Mediterraneo, laureata in Antropologia, dopo il dottorato s'è ritrovata impiegata alle Poste; tende a un'estetica della casualità e crede nell'accozzaglia degli stili; è una che si innamora dei personaggi secondari, da tanti punti di vista. Abita a Milano dopo aver desiderato a lungo di abitare altrove; mantiene parecchia nostalgia per Trapani. La incontriamo in un periodo di malinconia e di confusione, ben lontana da un equilibrio: “Riflettevo sulla possibilità di essere asessuale, di non essere più capace di provare desiderio o attrazione fisica. Mi identificavo rabbiosamente in Carole Ledoux e mi dicevo che nessuno aveva mai descritto il mio disgusto meglio di quanto avesse fatto Polanski in 'Repulsion'” [p. 55]. Più avanti, meglio: “Ho davvero pensato di essere divenuta asessuale, anzi forse proprio antisessuale. Sentivo una repulsione per questa diffusa ossessione, per le aspettative di disponibilità, per gli ammiccamenti allusivi” [p. 59]. E poi cosa succede? E poi capita una vacanza con una collega a Zanzibar, e c'è un primo episodio di interruzione dell'astinenza, complice l'attrazione incandescente per un uomo “nero come l'ebano e bello come l'estate”. Più avanti, a Milano, c'è un'avventura con un assicuratore napoletano che somiglia vagamente a una delle sue icone erotiche, Hiram Keller, attore felliniano [“Satyricon”]; infine, c'è una storia con un ex pallavolista argentino, musicista. Più la narratrice sente di vivere qualcosa di intenso e di autentico, più si libera delle paranoie e delle angosce che la stavano soffocando; non cerca nessuna stabilità – vive di incandescenze – e rimane diffidente nei confronti dell'amore (diffidente ma ovviamente prigioniera del suo fascino: “l'amore è comunque uno straniero”, e si direbbe che la narratrice adori ciò che è straniero).

Passiamo ai comprimari. Ci sono due africani: Assane e Seedia. Assane, fricchettone senegalese, cinquant'anni, due ex mogli alle spalle (una italiana, una senegalese) è fidanzato con una collega di Luisa. Ha studiato qualche anno Psicologia a Dakar, campa come barista e come commesso in un negozio di dischi. È in Italia da un pezzo – dal 1984. E a questo punto, “è vero, sono italiano, ma sono anche francese. Alla fine non sono niente. Da mia madre ho imparato il wolof, a scuola a Dakar il francese. Ma ormai la mia lingua è questa. Penso e sogno in italiano. Ho anche amato in italiano. Cosa può rendere una lingua tua più di questo?” [p. 149].

Assane è da così tanto tempo in Italia che in quel periodo lui e suoi conterranei che vendevano statuette e oggettini etnici sulla riviera romagnola “rappresentavano un fenomeno relativamente nuovo”: non codificato, né interpretato. Secondo la Chias, solo col tempo si è sentita l'esigenza di definire il fenomeno, “distinguendo gli stranieri dagli immigrati sulla base della classe sociale. E qualche tempo dopo, ad approfondire lo iato tra le due categorie, è intervenuto il termine 'extracomunitario'” [p. 18].

Quando sono arrivato” - ricorda Assane - “eravamo tutti 'marocchini'. Io, gli altri senegalesi, i tunisini, tutti gli africani. Anche i marocchini veri, ovviamente. Era come un lavoro: vendevi roba per strada, eri marocchino. Poi siamo diventati 'vucumprà'. Mi ricordo quando ho incontrato questa parola la prima volta, è stato nel 1987, su un giornale […] Adesso 'marocchino' non era più un lavoro, adesso eravamo marocchini di professione 'vucumprà'” [p. 19].

Assane non si offende, normalmente, se gli dicono 'negro': e come lui molti altri senegalesi. “Perché la negritudine è stata al governo da noi, con Senghor. È stato presidente del Senegal fino al 1980”: Senghor e Aimé Césaire avevano adottato il termine “négritude” come risposta al razzismo francese, valorizzando una parola che veniva adottata come offesa.

Assane è l'africano consapevole – parla con Luisa a più riprese, durante il libro, restituendo un bel pezzo di storia (per lo più pacifica, e riuscita) della prima ondata di emigrazione degli anni Ottanta; Seedia, altro africano, invece è una figura più opaca, e non soltanto perché la sua storia viene raccontata dalla sua compagna, Simona, grande amica della narratrice, ma soprattutto perché la sua è una vicenda drammatica. Seedia fa parte di quegli emigrati che, per poter raggiungere l'agognata Europa, sono passati per il deserto e per un assurdo peregrinare tra nazioni, dapprincipio forti di documenti falsi, di poche banconote e di facili corruzioni, poi chiaramente vittime di cinici e spregiudicati malavitosi che giocano sulla loro pelle sino alle estreme conseguenze, costringendoli a osceni e infiniti viaggi della disperazione in furgoni malridotti e in barcacce traballanti, in condizioni igieniche deprecabili. Seedia non parla volentieri di quel periodo, e quando ne parla sembra combattere con una serie di rimozioni o di iperboli che contaminano la narrazione. In Italia, ha trovato l'amore: lui e Simona hanno una figlia di 4 anni, ma Simona ha paura di portarla anche solo in vacanza in Gambia, perché non vuole che passi né per l'infibulazione né per l'escissione (in quegli anni ancora consentite, laggiù). È uno dei problemi che stanno affrontando; l'altro, a quanto pare poco discusso, è quello dei mille tradimenti reciproci. Eppure, Simona non vuole che si rompa tutto, non vuole che si lascino, nonostante spesso non si capiscano, perché viaggiano “su categorie completamente diverse dalle nostre, e anche dire 'categorie' mi pare un azzardo etnocentrico”, spiega. Seedia non sa neppure quando è nato: sa solo che quando è nato non pioveva. Loro due si appartengono in uno strano modo, nonostante tutto: e l'esito della loro storia sarà spiazzante.

Assane e Seedia sono due esempi diversi, e fortunati, nonostante tutto, di una vicenda migratoria che, come sappiamo, si sta tingendo di troppo sangue: la Chias fa partire il romanzo nel 2013, a pochi giorni di distanza dalla disgrazia del barcone libico al largo di Lampedusa (366 morti e parecchi dispersi), e nella nota in calce si premura di ricordarci che da quell'incidente “i record di morti nelle traversate del Mediterraneo sono stati infranti – almeno per numero di vittime presunte, dato il ritrovamento di un numero inferiore di corpi”.

Chiude il libro la postfazione dello scrittore senegalese, naturalizzato italiano, Pap Khouma, direttore della rivista di letteratura della migrazione “El Ghibli”.

Gianfranco Franchi, aprile 2017

Terzo romanzo della scrittrice siciliana Irene Chias, classe 1973: storie d’amore e di (a volte, mancata) integrazione italo-africana