Marina Monego [1961-2020], lettrice forte, scrittrice e catechista. Un ricordo

La professoressa Marina Monego [Venezia, 1961-Venezia, 2020] era una mia grande amica, una delle poche persone con cui parlavo veramente, e da circa venti anni. Era una critica letteraria sensibile e mai estranea alla cautela e alla misura; era una donna di singolare cristianità, adorata madre di due figli gentili; era una moglie innamorata come una ragazzina del suo adorato Daniele, uno degli ultimi venexiani.

Marina Monego aveva esordito come narratrice pubblicando una raccolta di racconti con un intellettuale romano, Enrico Campofreda, a metà anni Zero. Il testo si chiamava “L’urlo e il sorriso”. Poi la sua attività artistica si era ridotta, pubblicamente si era proprio fermata. Nel tempo, aveva invece continuato a dedicare un numero notevole di pagine alle sue letture, approfondite con umanità e competenza. Aveva una passione profondissima per Cesare Pavese e per Enzo Bianchi, il priore di Bose; adorava la letteratura di viaggio (e sulla letteratura di viaggio s’era laureata, a Ca’ Foscari) e tuttavia non era un’irrequieta o una vagabonda. Era umanissima ed elegante. Una persona pulita.

Se n’è andata circa un anno fa, nel marzo 2020, per qualcosa con cui stava combattendo da tempo. Erano le prime settimane dell’epidemia che sta infestando e disorientando l’Europa e l’Occidente, in genere; un disordine terribile sfigurava i pensieri e le emozioni di quasi tutti. Qualcuno ha pensato fosse stata quella malattia là, quella peste cinese che ci sta scombussolando. Non era. Io non ho saputo dire che poche parole, là per là. Ho pensato a cosa era successo, all’impossibilità di andare a Venezia ad abbracciare Daniele e dire “grazie” a Marina, a questo scenario catastrofico in cui è diventato difficile anche accompagnare qualcuno al di là di questo tempo.

Non ho saputo dire niente, pubblicamente, perché dopo essere diventato il più vecchio della mia famiglia, cinque o sei anni fa, ho maturato un rapporto complicatissimo con la morte. Da qualche anno, reagisco alle morti delle persone che conosco con apparente freddezza. In realtà ovviamente non è così, soltanto fatico terribilmente a scegliere le parole e a essere presente, in ogni senso, in tutti i casi. Scompaio anche io. Ho dovuto commemorare, in pochi anni, mio padre, mia madre e la madre di mio padre, che mi aveva cresciuto. Tanti funerali e tanto maiuscolo vuoto. Forse è già successo a tutti, forse già tutti capite, non c’è niente da glossare, non ci sono parole. C’è un silenzio spettrale con cui continuo a confrontarmi tutti i giorni. Là, in chiesa, le parole per loro le ho trovate ma forse ho faticato ad andare fino in fondo. Non ricordo più. Per Marina non ho potuto nemmeno andare sin là, a Venezia, in chiesa, e Marina invece meritava che fossi nelle prime file, a piangere la mia amica che non c’era più e a salutare l’anima cristiana di una donna umana e leale che Dio aveva chiamato a sé, per riconoscerle tutto ciò che è stata. Perché è stata una mamma e una madrina per tanti, Marina. Era una catechista, non a caso. Una che guidava a Dio.

Marina l’ho conosciuta vent’anni fa, primissimi anni Zero, quando qua su Internet eravamo i pionieri, più o meno. Scrivevamo su una piattaforma di eccezionale avanguardia, a dispetto della commercialità; si chiamava “ciao.com”, era una sorta di “mappatura di tutto” con recensioni e aneddoti dei cittadini (chiamati “consumatori”, si capisce). Là dentro, io, “Lankelot”, lei, “Gatta Penelope” e tanti altri abbiamo giocato un gioco differente, io avevo aperto un “caffè letterario” là dentro e parlavo soltanto di libri, di film, di dischi. Avevo ventitre anni e stavo scrivendo una tesi da pazzo sulla “Menzogna nella Letteratura Italiana”, una tesi che Arturo Mazzarella corresse nella megalomania, destinandola alla finitezza, riducendola al Novecento. Marina, che aveva una ventina d’anni più di me, in me aveva fiutato qualcosa di buono, nonostante il disordine, l’espressionismo, l’arroganza. Io in lei avevo riconosciuto la letterarietà – questa strana caratteristica di tanti miei compagni, questo loro odore – e la religiosità (non il misticismo; non ci sprofondava, lei, non ci cadeva; sono io che rischio pericolosamente, quando mi avvicino troppo a certi pensieri, il sentiero della mistica. Marina era Marina, aveva misura).

Il 1 aprile 2003 ho fondato Lankelot, doveva essere soltanto il mio sito personale. Eravamo io e un grafico, Lorenzo Marchi. Dopo poche settimane, ho capito che Lankelot poteva essere qualcosa di differente. Poteva essere “le migliori intelligenze incontrate su ciao.com”, e un giorno vi racconterò quante erano e che fine hanno fatto, insieme alle migliori intelligenze delle riviste che quel matto che ero aveva animato negli anni dell’Università, “Ouverture” e “Der Wunderwagen”. In quel momento Marina è stata fondamentale. È stata una colonna della rivista, da subito, condividendo le sue letture e i suoi racconti (avevamo una divisione tutta dedicata alla “fiction”, rischiosa scelta perché il “metro” dovevo essere io, ma tanto di buono ne è uscito; un’altra volta, solo Marina ora), è stata una colonna, dicevo, ed è stata una bandiera.

Marina era, di Lankelot, l’anima cristiana e battagliera, era la gentilezza e l’ospitalità, era l’apertura mentale e la trasversalità, senza nessuna concessione ad altra ideologia che non fosse la parola di Dio – perché lei era leale al Vangelo, è tutto qui. Sono passati ormai 17 anni da quei giorni. Per 17 anni, anche dopo che Lankelot è caduto e ripartito sotto altro nome, come “Lankenauta”, animato dagli stessi ragazzi, senza di me, Marina è stata là. Centinaia di articoli [stanno qui], tanti commenti, poche ma profondissime amicizie. Era là con noi quando Lankelot diventava una rivista “.eu”, quando superavamo certi dati di ascolto che sembravano e sembrano ancora adesso impensabili, quando fondavamo le effimere Edizioni del Catalogo, quando si passava alla rivista 3.0, quando combattevamo contro i social network, quando abbiamo perso, contro facebook. Perso.

Marina era sempre lì, a destreggiarsi tra liberali, anarchici, fascistelli, comunisti, socialisti, democristi, era là; col suo garbo e con la sua ironia. Con la sua potentissima sensibilità. Unica.

Perché non ha fatto carriera, nelle patrie lettere? Perché le patrie lettere sono un colabrodo di marachelle, di autoreferenzialità, di debiti e di stupidità, tolto qualche virtuosismo accademico, qualche vecchia Adelphi e qualche amatore. Perché in Veneto abbiamo perduto l’editoria che c’era un tempo, a volte è stata sottratta dai milanesi, altre volte è andata a remengo, battuta. E poi… perché non vedo editori “cristiani” in cerca di intelligenze di un certo genere, perché quotidiani cattolici sono forse due o tre e direi stanno al completo. In un altro momento, una come Marina sarebbe stata una colonna della cultura di “Avvenire”. Nella nostra epoca, era destinata a starsene da parte, outsider e laterale, mamma e catechista, orgogliosa della sua libertà e della sua autonomia di giudizio, dei suoi sbagli e delle sue preveggenze. Adesso è andata di là, e di là ci difende e prega per noi, per i miei bambini e per i bambini di tutti, perché lei era così.

So che a qualcuno può sembrare strano ciò che sto per dire, perché in questi anni ho avuto dialogo con tante centinaia di persone, forse qualche migliaio, per questioni letterarie e politiche, in genere, e da fuori forse qualcuno pensa che io abbia chissà che confronti con chissà quanti. È una percezione sbagliatissima, e anzi è disastrosamente sbagliata. Da ormai almeno dieci anni a questa parte, io parlo davvero con pochissime persone. È morta l’unica con cui ci scrivevamo lettere, parlando di Roma e Venezia, di Dio e di fede, di Cristo e di malattie, di Ellade, di famiglie distrutte, le mie, “quelle da cui vengo”, e famiglie vive, la sua e la mia, quella nuova. Parlavamo del fu Lankelot e di chi aveva fatto carriera e strada e chi no, parlavamo di cosa fosse l’angoscia e cosa fosse la pace, cosa l’eternità e cosa il niente. È morta una persona a cui aveva senso dire certe cose. Poi, non le ho più scritte, stanno là dentro, adesso, a tormentare certe giornate in cui sono come un pesce, apro la bocca e non esce nulla, e magari me ne vado in un giardino, illudendomi che sia un bosco, e nel bosco, chiusi gli occhi, scompaio, rinasco e scompaio, misteriosamente.

Addio a una persona che tanto ha dato e tanto darà a chi vorrà ascoltare, a chi tornerà a leggerla, a chi saprà ricordare. Scusami se ho fatto tardi a dire “addio”, è che proprio non mi andava, no. Se adesso mi vedi, se adesso mi senti, guidami tu quando sbaglio, non voglio più deragliare.

Franco

28 dicembre 2020

Trovate Marina qui, su Lankenauta.  Brancolini e gli altri hanno scritto due parole qui, a marzo. Enzo Bianchi, il suo mentore, è questo signore qui.