Mareblù

Mareblù Book Cover Mareblù
Sebastiano Vassalli
Mondadori
1992
9788804356042

Se mai un giorno il mondo diventerà meno ipocrita qualcuno molto importante dirà chiaro e tondo come stanno le cose per quello che riguarda i giovani. Che sono prepotenti e parassiti e rompicoglioni e egoisti e stronzi e difficili da sopportare. Io non li tollero proprio” (Vassalli, “Mareblù”, capitolo II, “Dunque oggi è il 26 settembre 1980)

Augusto Ricci, sessanta anni di “lotta di vita”, sogna l’apocalisse borghese, ogni mattino, al suo risveglio; e s’inchina a dare omaggio ai quattro ritratti appesi nella sua stanza, coi quali dialoga ad alta voce. Mao, Marx, Lenin, Stalin. Da trenta anni è il custode del camping Mareblù. Ci troviamo in un luogo imprecisato della Liguria, nel settembre del 1980. Augusto riflette su quel che ha avuto dalla vita e su quanto ha vissuto fino a quel punto: ha creduto nel comunismo, adottando quei principi di lotta di classe che avrebbero dovuto rivoluzionare il mondo, ma ha finito per entrare nel meccanismo del sistema e diventare servo dei padroni. Augusto Ricci, che si sente ancora ribelle e rivoluzionario, altro non è se non un ingranaggio. Unico signore di un camping che custodisce tanto nei tre mesi di affollamento estivo quanto nei nove mesi restanti di tristezza e isolamento, risponde, in fin dei conti, soltanto a se stesso, ai suoi quattro ritratti e al suo pappagallo di quel che è la sua vita e di quelle che sono state le sue scelte.

Adesso, d’un tratto, il padrone annuncia che nel camping Mareblù c’è aria di rinnovamento. Adesso si va a progettare un anno di chiusura totale per ampliare e restaurare il sito e si medita di ingaggiare uno staff di sette membri. Ovviamente, non è previsto uno spazio per Augusto: e altrettanto ovviamente sarà difficile che si passi da un dipendente a sette dipendenti.

È la solita favoletta dei padroni: ti caccio via con un sorriso, ma mi raccomando: accetta la buonuscita e goditi tre mesi di semivita. Nel frattempo, il padrone ingaggerà un ragazzo, sottopagato. E dirà che è gavetta, per motivare quello stipendio ridicolo.

Tormentato dall’idea del prossimo licenziamento, afflitto dai suoi conflitti di coscienza politici, diviso e combattuto tra varie proposte di matrimonio, derivate da una incauta serie di annunci sui giornali, Augusto passa il tempo a meditare l’apocalisse borghese per il camping e per i suoi ospiti, che, col trascorrere degli anni, ha preso a chiamare con il nome della città: li chiama “Milani”, o “Torini”, o “Bergami”, e cerca di studiarne i movimenti con un vecchio binocolo, che non sa più se ha strappato al nemico in Libia o se ha comprato in un negozio da qualche parte.

Augusto Ricci è confuso. Si rende conto che quei motti pronunciati dai quattro ritratti in varie circostanze spesso suonano demenziali, o patetici; sa perfettamente che quel che sta vivendo è l’annuncio della sconfitta: la sconfitta più amara d’un uomo, e cioè l’avvento della vecchiaia in un mondo che non riconosce più e che ha cessato di appartenergli. Ed è la vecchiaia e la fatiscenza non solo del custode del camping, ma della sua ideologia e dei suoi idoli; impietoso e atroce è il loro fallimento, dolorosissima la crisi di coscienza.

Non so cosa ti rimanga, uomo di ideale. L’apocalisse borghese non sarebbe che un istante. Allora, davvero, lascia che tutto, gli ospiti del campeggio, i padroni, i ritratti, la giovinezza e i tuoi sogni, tutto, sia seppellito da una risata. Ridi, e di quel riso vantati all’inferno che tanti di noi attende; non è solo la tua ideologia ad aver fallito, è l’umanità che non riesce a salvarsi e continua a compromettersi con egoismo, arroganza, dedizione al totalitarismo, povertà spirituale.

Quattro ritratti appesi a una parete; non passerà neppure un secolo, e di quei quattro ritratti conosceremo una nuova versione; qualcuno penserà a ridipingerli, a tratteggiarli o a confonderli con altri colori e si stabiliranno nuovi significati. Quale verità, vecchio uomo d’ideale?

Che in fin dei conti esistiamo, siamo esistiti, nei nostri abbagli e nei nostri errori; e nella nostra splendida miseria di sogno e d’utopia abbiamo combattuto per un mondo più giusto e per un’umanità più felice. Tu credevi nel comunismo, altri, come me, nelle dottrine liberali più illuminate. Qual è l’esito? Siamo disperatamente soli e non ci riconosciamo in nulla. Entrambi.

E forse non servirà più, adesso, ridere del fallimento e dello spettro del neofascismo. Forse è tardi per ridere, almeno per me. Perdona il personalismo, compagno. Tu scrivi negli anni Ottanta, io nel duemilatre. C’è qualche differenza. Profetizzavi il crollo del tuo mondo e del tuo castello di illusioni; è rimasto un avamposto unico della cultura che sognavi, e certo, a ben guardare, ha cessato di appartenerti. Hai riso di quel che accadeva; di quel che ti capitava, di quel che capitava a chi viveva d’ideale e si dedicava alla lotta di vita, e non solo alla lotta di classe. D’accordo. Adesso, compagno, permettimi davvero di chiamarti così nonostante non si condivida l’ideologia, guardati attorno. Dalle rovine del sogno il nemico ha tratto potere; e s’è ancor più arricchito, ed è tornato a farsi arrogante e a pretendere potere. Comandano in pochi, comandano i pochi. È il tempo delle oligarchie. C’è un abisso tra il popolo e i detentori del potere. E sta tornando l’odio. Lo stesso odio che dilagava negli ultimi secoli, un odio nutrito dalla rabbia, dalla speranza e dall’amore. Dall’indignazione, e dal senso di giustizia di ognuno. L’odio di chi assiste all’infame strapotere di piccoli clan di ricchi e potenti e alla desolata lotta per la sopravvivenza di tutti gli altri. Quale felicità? Quale sogno? Quale poesia? Qui, presto, torneremo a lottare per un’esistenza decorosa. Tutti.

La tua ideologia, Ricci, era figlia di un sogno meraviglioso: ma ha fallito, e s’è trascinata via milioni di morti. E non consola certo sapere che l’ideologia che ha vinto è fittizia e non ha ideale ed è schiava del profitto e del reddito: anzi, umilia. Questa gente, Ricci, non crede in niente. Crede al denaro e al potere. Dio li maledica, uno ad uno. Tutti. Ti rispetto, Ricci. Nella grandezza della tua ultima risata e nell’amarezza del tuo conflitto di coscienza. A te appartiene la virtù dell’autocritica e il dono della preveggenza. Hai annunciato quel che sarebbe accaduto, raccontando la parabola della tua esistenza. A noi non rimane che lottare. Non possiamo difenderci con la tua ideologia, e non abbiamo nuove ideologie alle quali votarci. Ideali non mancano. È che questa realtà ci nausea. Forse oggi non rideresti. Penseresti magari a morire, se fossi incapace di ribellarti. Io credo che le cose possano ancora cambiare. Che verrà una società capace di ereditare quanto di più giusto e nobile esisteva e viveva nei tuoi sogni. E di insegnarlo alle generazioni a venire. Ma adesso noi non possiamo ridere più.

Il romanzo di Vassalli “Mareblù” è la sintesi profetica d’un mondo e d’una politica. L’incarnazione di un individualismo anarcoide che rifiuta, rinnega e abiura il comunismo, nella sostanza. L’annuncio di quel che stava per avvenire, e che puntualmente è avvenuto. La lingua non è immune da ossimori e non infrequenti rabbiose cadute nel parlato; ma è densa e fluida come in ogni libro di quel talento assoluto che è Sebastiano Vassalli. Artista scomodo, sgradito a troppe lobbies e a troppi clan. Artista autentico, come il dio che, adorando, ha ritrovato e divulgato. Dino Campana. Non andrai perduto, Vassalli. Il mio auspicio è che tu non venga mai frainteso.

Io non sono un oratore però a volte mi capita d’improvvisare dei piccoli discorsi che meriterebbero di essere valorizzati. Filodiffusi, che so. Stampati in qualche giornale. Poche parole succose e congegnate tra loro come gli ingranaggi di un orologio: tic, tac. Le parole si incastrano da sole, si muovono e formano il discorso. È bello” (Vassalli, “Mareblù”, capitolo V, “Dopo pranzo mi metto sulla mia sdraia”).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Sebastiano Vassalli (Genova, 1941-Casale Monferrato, 2015), poeta e romanziere italiano.

Sebastiano Vassalli, “Mareblù”, Mondadori, Milano, 1982. Nuova edizione riveduta e ampliata: Mondadori, Milano, 1992. Introduzione di Elio Gioanola. L’edizione esaminata ospita una accurata nota bio-bibliografica.

Gianfranco Franchi, maggio 2003.

Prima pubblicazione: Lankelot.