La venticinquesima ora

La venticinquesima ora Book Cover La venticinquesima ora
David Benioff
Neri Pozza
2004
9788873059783

Esordio del giovane newyorchese David Benioff: “La venticinquesima ora” è un romanzo d’una bellezza livida e cupa. La recente traduzione cinematografica di Spike Lee è stata estremamente fedele allo spirito del libro: libro che, con felice istinto, l’editore Neri Pozza aveva proposto al pubblico italiano già nel 2001.

La venticinquesima ora è l’ora dell’immaginazione più libera e sconsolata; è l’ora della materializzazione dei sogni, e della sconfitta della logica; è l’ora della speranza, e dell’incanto; della cancellazione delle colpe, dell’annuncio d’un tempo nuovo. La venticinquesima ora è quella che domanderemmo per sfuggire per sempre ai rimorsi e ai rimpianti. È l’ora che non esiste, e perciò ancor più essa è splendida; è l’ultimo rifugio prima di consegnarsi alle necessità e all’ordine delle cose. Prima d’assumersi responsabilità. Il romanzo di Benioff affascina, rapisce e rattrista. Perché è una storia di amore e di amicizia, e un fedele spaccato delle contraddizioni del sistema e dei contrasti che vivono in ogni individuo. È la storia di Montgomery Brogan, giovane pusher, e dell’ultima giornata prima della sua carcerazione.

Monty proviene dalla comunità irlandese di Brooklyn. Il padre è proprietario di un pub; la madre è morta quando lui era ancora un bambino. L’assenza aveva segnato la vita del ragazzo: che aveva rifiutato la sua malattia, turbato dalla metamorfosi cui assisteva quotidianamente, ed era cresciuto senza sole – fiore bellissimo e sghembo. Avrebbe voluto diventare un vigile del fuoco. Lei ne sarebbe stata orgogliosa. Le cose sono andate diversamente.

Monty ha soltanto due veri amici: i vecchi compagni d’infanzia, rimasti sempre al suo fianco – nonostante tutto. Frank Slattery è un aggressivo e risoluto broker di ventisette anni, ex campione di lotta negli anni del liceo, d’origine irlandese e di indiscutibile talento. Jakob Elinsky è un confuso professore di letteratura di ventisei anni, discreto pensatore e gran camminatore: in passato ha vissuto a Seattle per un anno, nel periodo più vivo dell’indimenticabile movimento; si sentiva estraneo, ed è tornato a casa. S’invaghisce delle sue studentesse. Una di loro, Mary D’Annunzio, si rivelerà più intraprendente del previsto. E neppure questo, forse, potrà svegliarlo dal torpore.

Monty ha una compagna, Naturelle: una giovane portoricana solare, d’una femminilità incandescente e seducente. È stato colpo di fulmine. Ma la vita di Monty sta per cambiare per sempre: è stato tradito, o è stato incastrato. Condannato a sette anni di prigione, da scontare a Otisville. Rimane ancora un giorno per poter ripensare alla propria vita, prepararsi a rinunciare a tutto: accettare l’idea di poter perdere la propria compagna, doversi allontanare dai vecchi amici, vedere il padre per l’ultima volta.

In quest’ultima giornata Barry ripensa a quel che gli è accaduto, tra rimorsi, rimpianti, amarezza, sconforto; è incredulo di fronte al rovescio della fortuna, e non ha tempo per abituarsi all’idea. Non riesce a capacitarsi di quel che è accaduto. Si imprime nella mente un paesaggio, quello che aveva visto centinaia di volte dalla ringhiera. Perché vuole che quel paesaggio gli appaia, nei sette anni successivi, ogni volta che si troverà a chiudere gli occhi. Perché si sta per fermare il tempo, e allora è bene non dimenticare quale sia la propria casa: “è seduto sulla ringhiera della passeggiata che affaccia sull’East River, e tamburella con la mano destra sulle assi scheggiate, il guinzaglio avvolto ben stretto attorno al polso. Osserva gli edifici del Queens attraverso gli archi di una balaustra di ferro, il Triborough Bridge a nord, il ponte della Cinquantanovesima Strada a sud. Al di là del fiume, la punta settentrionale della Roosevelt Island, sorvegliata dal vecchio faro di pietra” (cap. I, p. 12). Fissa ogni cosa, cercando “d’assorbire ogni dettaglio, le chiazze di asfalto fresco stese come burro nero sul viale, i fanali posteriori delle auto che lampeggiano e danzano alla luce dell’alba, lo scintillio delle vetrate, alte sopra la strada, con dietro persone che lui non conoscerà mai” (cap. I, p. 16).

Poco più tardi, vede una ragazza bellissima, che gli sorride. E si ripete che sarà tormentato da quel viso per tutti quegli anni: tormentato dall’idea di aver perduto la giovinezza, d’aver perduto se stesso. Non c’è rimedio alla dannazione. Osserva la città e gli abitanti nella solita quotidianità, e tutto sembra essere ostile e nemico, perché perduto: di fronte a uno specchio, nel pub, Monty discute con se stesso e sfoga il suo odio contro ogni singolo componente del sistema, contro ognuna delle comunità che popolano la grande Mela, contro Cristo e contro i poveri e i benestanti. Monty si svuota del dolore e della frustrazione; manifesta la sua dissociazione dal sistema e il suo rifiuto dei conformismi e delle consuetudini. Ma non si ribella. Descrive, e nomina.

A far da contraltare a questa digressione furiosa sarà l’alba, a poche ore dal carcere: seduto su una panchina, nel parco, si guarderà attorno e sembrerà trovare bellezza e poesia nella semplicità delle vite dei suoi concittadini. Ma è un istante; è dettato dalla malinconia, non è una conversione, né, tutto sommato, un credibile rimpianto.

Il libro sembra volersi porre al di là dell’etica: vuole esclusivamente raccontare. Il rammarico di Frank, per non aver saputo consigliare l’amico e per non avergli impedito di spacciare, si specchia nell’ammissione di impotenza di Jacob e nella tristezza di Naturelle; tutti sapevano, nessuno ha saputo impedire o ha voluto, in realtà, opporsi. Monty è andato per la sua strada, arricchendosi sul dolore e sulla miseria delle persone, vendendo droga da quando era adolescente; Frank trova perfino legittimo che l’amico sia punito, tuttavia ciò non gli impedisce di sentirsi in colpa per la sua sorte.

24 ore della vecchia, solita vita; nel lusso della propria abitazione, al fianco di una splendida ragazza, e ancora in un locale a ballare e parlare con gli amici; a passeggiare con l’adorato cane Doyle, a cercare un senso o immaginare una impossibile fuga. Non c’è rimedio, non c’è più possibilità di salvezza. Tutto è precipitato, e il mondo di Monty sta per finire. Si può disertare dalla realtà, ancora una volta – l’ultima. Se esiste una venticinquesima ora, si può ancora evitare il dolore. Il sogno, certo. Ma i sogni si dissolvono, e tutto si spegne.

Il libro è strutturato in una premessa e 24 capitoli, numerati progressivamente e non titolati. La premessa racconta il simbolico salvataggio del pitbull Doyle, avvenuto qualche anno prima: Monty l’aveva trovato, rabbioso e morente, e l’aveva restituito alla vita. Quel cane rappresenta la ritrovata fiducia nella vita, la sconfitta della diffidenza nel prossimo, l’incarnazione dell’amicizia: “la cosa migliore” che Monty sente d’aver fatto nella sua vita è stata guarirlo e accudirlo. È un cane che “sembra uscito dall’inferno” (p. 145). Da quell’inferno che sta per accogliere il suo padrone. Doyle vivrà come simulacro di Monty, tra i suoi amici. Nell’attesa del ritorno di chi, forse, non potrà o non vorrà più tornare.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

David Benioff (New York City, 1970), scrittore americano.

David Benioff, “La venticinquesima ora”, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2001. Traduzione di Massimo Ortelio. La venticinquesima ora” è il terzo romanzo di Benioff – il primo ad esser stato pubblicato.

Prima edizione: “The 25th Hour”, 2000.

Riduzione cinematografica: “La venticinquesima ora”, di Spike Lee (2002).

Gianfranco Franchi, febbraio 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.