La pietra lunare. Scene dalla vita di provincia

La pietra lunare. Scene dalla vita di provincia Book Cover La pietra lunare. Scene dalla vita di provincia
Tommaso Landolfi
Adelphi
1995
9788845911767

In principio è sera, s’assiste a un ritrovo piccolo borghese e sembra davvero d’essere sul punto di immergersi in quelle scene della vita di provincia che il sottotitolo annunciava; poi “La pietra lunare” si fa notte della realtà e scintilla di fantasia e assurdità, storia mannara di un amore e di un’iniziazione alla vita; l’epilogo è luminoso e triste come tutti gli ammalati del demone meridiano sanno: è il ritorno nella realtà che assume i contorni d’uno strapiombo ineludibile, mentre s’avanza verso la città e non si riesce nemmeno più a guardarsi alle spalle.

Romanzo terminato nel 1937 (prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1939), “La pietra lunare” è un’opera letteraria purissima, prepotente allegoria d’un primo amore e dell’antica società agreste; dei suoi misteri, dei suoi contrasti, dei suoi pettegolezzi e delle sue interazioni. Il talento di Landolfi sta, nelle prime battute – e ho avuto la benedizione di poter leggere il libro del tutto all’oscuro della trama, vedrò di confonderla come posso, adesso – nella capacità di integrare l’assurdo, una metamorfosi, in un contesto che sembrava proprio estraneo alla fantasia. Spiazza, e piacevolmente; l’epifania dello zampa di capra della giovane Gurù è un piccolo capolavoro, intrusione che spiazza e frammenta e sgretola la credibilità e la quotidianità dei pettegolezzi che avvolgevano il protagonista, Giovancarlo, universitario appena tornato in paese, prigioniero d’una cena famigliare.

Qualcuno prova a parlargli, rozzo e grossolano, di letteratura; inevitabilmente qualcun’altro s’addormenta, salvo accendersi non appena si discute di chi ha fatto fortuna e come, e a quale prezzo. Poi s’insinua l’impossibile avvento della bellezza, occhi neri, dilatati e selvaggi, Gurù scende dalla montagna e ha piedi forcuti di capra; nessuno se ne accorge a parte lui, Giovancarlo. Si ribella a quel che vede e chiede sostegno a chi è attorno, non vedete che ha le zampe di capra?, dà in escandescenze ma sembra tutto scritto: lei è “venuta per andare con lui”, e così s’avviano per l’estate del loro amore stravagante, per tempeste di domande e di favole, per metamorfosi implacabili e lunari; muta sguardo, la capra mannara, ma non muta sentimento. È una selvatica docile, domanda d’essere domata: ma sembra epoca di dominio della fantasia, il piacere massimo è guardarla o sfiorarla ancora, qualche bacio è già sogno.

In paese Gurù è “in sospetto di stregoneria”. Vive in un castello in rovina, “decrepito maniero”, ultima erede d’una famiglia dall’oscura e feroce nomea; la fantesca dice che è donna lunare, ossia sterile. A lei vengono le capre come i lupi a Francesco; incontriamo quindi – credo di non sbagliare – la prima capra mannara della storia della Letteratura.

Giovancarlo Scarabozzo è uno studentello in vacanza che s’innamora di questa figuretta impossibile e si ritrova a vivere notti di sospensione autentica della credulità, su per le montagne, tra briganti mannari e apparizioni d’altre gurù; è l’incanto solare dell’origine della nostra società, e d’un contrasto tra la giovanile opacità chiassosa della vita studentesca metropolitana e il disordine fertile e notturno dei giovani della campagna estiva; sembra proprio che chi ha scelto di rimanere nei campi e nei monti sia diviso, multanime che muta anche aspetto – per chi sa guardare. L’istinto ha una sua imprevedibile, sarcastica violenza. È una delizia amorale, l’istinto. La realtà, a un punto, devono raccontarla i mannari: nel capanno il ragazzo non vede nemmeno i tavoli di cui parlano, i suoi sensi sono vivi ma non riescono a percepire correttamente quel mondo che non conosce e che tuttavia scorre nel suo sangue. Metafora suggestiva dell’incapacità di comprensione (e di percezione, va da sé) di società che giudichiamo superate, e tuttavia non sempre abbiamo inteso. Come certi amori, a ben guardare.

L’amore spaventa e fa rabbia quando non si riesce a controllarlo; il primo amore è una tempesta che confonde, è malinconia e sogno e desiderio e tutto va ibridandosi e non s’attenua e non si mitiga; scivola nel tempo e lascia cicatrici che niente cancella. E tante immagini che tendono a non scolorire. Basta non voltarsi indietro.

Landolfi racconta tutto questo – racconta la sua terra reale e il suo retroterra immaginario – con esemplare lingua letteraria, sublime capacità descrittiva – tratto fondante del suo stile, come altrove s’annotava – e non episodica adozione del prosimetro; meno felice nei versi e negli indovinelli che nella narrazione e nello sviluppo della trama, conosce picchi di emozionante capacità nel cristallizzare scene e memorie trasfigurate per pennellate intense, ripetute e incisive. Già in quest’opera s’intravedono prodromi, sintomi e segni di quella inclinazione al fantastico che vergherà il nome dello scrittore di Pico Farnese nella storia del nostro Novecento; inclinazione al fantastico che pretende tuttavia, almeno in questo caso, una sensibile ricostruzione della realtà trasfigurata con tanta classe e tanta pazzia, prima che cenere della realtà rimanga nei nostri cuori di lettori, a soffocarci. Dovremmo cercare significati e sensi, a dispetto del balenio stupendo e accecante del gioco e dell’invenzione.

E così l’ideale era quel balenio degli occhi di lei, “ombrati da lunghe ciglia (…); i capelli che ella pettina son corti lisci e un po’ gonfi, il sommo delle sue spalle e del suo seno, le sue braccia nude, abbagliano fra l’ambra come latte in una coppa di topazio, come alabastro al di qua d’un fuoco, come perle fra l’oro, come neve tra campi dorati d’autunno… in una parola: Gurù” – con la G maiuscola, s’intende; le altre gurù non s’avvicinavano nemmeno, neppure quando si spingevano oltre il consentito, tra le montagne, là dove la realtà era fantasia e le persone sia animali che uomini. Capra o fanciulla, capra e fanciulla; lunare e volubile, si lascia guardare ma l’ideale non si lascia possedere: nemmeno nel ricordo. Muta d’aspetto e tuttavia sfugge.

Splendido. Come le fantasie che cavalcano a briglia sciolta, sradicando tutto quel che è plausibile e logico. È il segreto alchemico della gaia scienza

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Tommaso Landolfi (Pico Farnese, Frosinone 1908 – Roma, 1979), scrittore, critico, saggista e traduttore italiano. Si laureò in Lingua e Letteratura Russa nel 1932, con una tesi su Anna Achmatova.

Tommaso Landolfi, “La pietra lunare”, Mondadori, Milano, 1968.

Prima edizione: Vallecchi, Firenze, 1939.

Alla prima edizione seguirono quella del 1944 (ancora Vallecchi), quindi quella esaminata, Mondadori, Milano, 1968; quindi Rizzoli, Milano, 1990 con nota di Zanzotto; infine Adelphi, Milano, 1995, con nota di Idolina Landolfi.

Approfondimento in rete: Centro Studi Landolfiani / Wikipedia

Gianfranco Franchi, marzo 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Splendido. Come le fantasie che cavalcano a briglia sciolta, sradicando tutto quel che è plausibile e logico. È il segreto alchemico della gaia scienza