La miglior vita

La miglior vita Book Cover La miglior vita
Fulvio Tomizza
Mondadori
1977
9788804485933

“Eravamo in guerra, continuavamo a trovarci in piena guerra per l'eterna questione dell'essere italiani e dell'essere slavi, quando in realtà non eravamo che bastardi. Raggiunsi il parroco, presi a braccetto sua madre trascinandola verso casa nostra. La spinsi dentro, chiusi la porta. 'Tu dove vai, matto?', fu in tempo ad ammonirmi Palmira. 'Al diavolo!', risposi, e tornai a chiudere con forza. La rabbia mi bruciava le viscere. Attraversai lo spiazzo, con un calcio spalancai la porta del campanile e mi misi a suonare fitto, con livore, imprecando tra i denti: 'Basta, per Dio, basta!'” [Tomizza, “La miglior vita”, Mondadori, 1977; pp. 199-200].

1977. Quarantaduenne, l'artista istriano Fulvio Tomizza pubblica il suo decimo libro di narrativa: “La miglior vita”, stampato – come tutti i suoi predecessori, con l'eccezione episodica e simbolica del “Bosco di acacie” - da Mondadori, è un ritorno alla materia dell'opera prima, “Materada”, strutturata e plasmata stavolta con ambizioni più epiche che liriche, e con respiro decisamente più massimalista; secondo il prestigioso critico letterario giuliano Elvio Guagnini, “La miglior vita” è “una grande sintesi, il progetto di un'epopea, di una grande saga contadina in cui il confronto tra la grande storia e quella degli esclusi permette il sondaggio dei conflitti etnici, nazionali, psicologici individuali e collettivi” [introduzione a “Gli sposi di via Rossetti”, Mondadori, 1988; p. 9].

La storia è quella della piccolissima parrocchia di Materada, frazione campagnola del borgo marinaro di Umago: a raccontarla, attraverso oltre mezzo secolo di storia e di passaggi di bandiera e di più o meno rovinosi impatti dei regimi e dei potenti di turno, è un povero sagrestano [“nònzolo” in dialetto istroveneto], Martin Crusich, figlio di un altro “studacandele”, Zvane, altro maestro nell'arte di suonare la campana e accendere e spegnere i ceri, per un bel pezzo; così come suo padre, e suo padre prima ancora.

I sagrestani, in quella società contadina, erano figure utili e rispettate: servivano alla comunità proprio come i braccianti, perché simbolicamente col loro ruolo contribuivano “a tenere lontana la tempesta dalle vigne, dai granoturchi, dai frumenti”. Non solo: tenevano la memoria di quel che era stato, e dei legami tra le famiglie; e servivano con disciplina il parroco, che rivestiva un ruolo carismatico, fondamentale.

Il nònzolo di Tomizza racconta la storia della sua parrocchia attraverso i passaggi da un parroco all'altro, dai giorni di Franz Joseph, vale a dire da quando l'Istria era amministrata e degnamente governata dall'impero austroungarico, succeduto a molti secoli di Venezia, sino ai giorni di Tito, vale a dire quando l'Istria era diventata, per la prima volta nella sua storia, parte di un territorio amministrato e governato direttamente da popolazioni slave.

“La miglior vita” ha grande fascino, in questo senso, dal punto di vista documentaristico e storico-letterario; pur trattando le vicende di una piccolissima parrocchia, isola a maggioranza slava in un territorio che conosceva tendenzialmente maggioranze venete, riesce a essere esemplare, divertente e amarissimo. È chiaro che leggere la vicenda dell'intera Istria, nel tragico Novecento, attraverso le sorti di una parrocchia soltanto è a dir poco arbitrario; ma ciò che conta è la capacità di Tomizza di raccontare divisioni etniche e antagonismi politici, amicizie e dispute, naturalità dell'antica coesistenza tra veneti e slavi e progressiva, terribile inimicizia, con limpidi esercizi di riscrittura della storia e della tradizione, più per una parrocchia che per un'altra.

I parroci serviti da Martin Crusich alternano simpatie e appartenenza per l'antichissima comunità istroveneta, a fede e dedizione alla comunque antica componente illirica, ideale antesignana della successiva, robusta ondata slava. E si emozionano per il ritrovamento di un frammento in glagolitico, come per la consultazione di registri scritti nella nostra lingua. Dipende dall'orientamento; dipende dall'origine; dipende dalla sensibilità. In comune c'è la percezione di una terra umile e povera, ma ricca di tradizioni e di bellezza. È limpida la sensazione di una storia condivisa tra più genti, innaturalmente contrapposte soltanto dalla storia del Novecento, forse irrimediabilmente.

Nella “Miglior vita”, secondo Gloria Rabac-Condric, “descrivendo gli orrori dei tempi turbolenti e disperati, Tomizza intendeva sintetizzare il caotico deprezzamento dei valori umani, quando la convivenza diventa un peso e l’individuo non si avvede di aver smarrito il senso della vita. Le grandi metamorfosi provocate dalla guerra hanno inciso sul comportamento dei sopravvissuti, gente di campagna e urbanizzata, rimasti in Istria, che si sentono condannati a vivere nel terrore del domani” [fonte: “Repubblica letteraria”].

E queste metamorfosi provocate dalla guerra sono andate a esasperare l'antagonismo che c'era, ma non uccideva e non infoibava, tra chi cantava “Nela patria de Rossetti no se parla che italian” e chi cantava “Terra meravigliosa, Istria amata, focolare della gente croata”. E tutto ha avuto inizio quando è caduta l'Austria, nella Prima Guerra Mondiale, e i soldati italiani hanno conquistato Trieste e Pola, Pisino e Umago, e sono arrivati a un passo da Fiume. Qualche tempo dopo, quando viene firmato il trattato di pace, c'è un altro Paese con cui fare i conti, nato dalle rovine del grande impero di Franz: è il regno di Jugoslavia, composto da Serbia, Croazia e Slovenia. “Le famiglie slave” - racconta il nònzolo - “erano libere di emigrare nel giovane stato jugoslavo che si estendeva oltre fiume, il confine dentro lo stesso abitato” [p. 94]. Questo a meno di non voler assecondare la loro altra anima, quella istroveneta, che pure ben conoscevano.

Da quando esisteva questo equilibrio tra istroveneti e slavi? Martin Crusich – Fulvio Tomizza – racconta che l'inizio di questa storia si poteva forse datare 1630: una peste “aveva lasciato in vita dieci persone a Umago, quattro a Cittanova, otto famiglie a Pola, imponendo una massiccia ripopolazione dell'Istria” [p. 88]. E la parrocchia di Materada, per capirci, sembra proprio fosse stata fondata da chi era scampato ai nemici di sempre, i turchi:

“Sempre avevamo creduto che la parrocchia avesse avuto inizio con la venuta del Capo Zorzi Ràdovan sfuggito all'avanzata turca in Albania e sepolto, come risultava dalla pietra tombale, nel 1676. Doveva aver combattuto a fianco dei Veneziani contro i Turchi poiché una benda nera gli attraversava la fronte; e giunto a Umago con un bragozzo carico di figli e di nuore, aveva comandato ai maschi d'inoltrarsi nel bosco e di non fermarsi finché non avessero incontrato l'erba dell'habàt, che cresce solo in terra buona” [p. 41]. L'habàt è il sambuco.

“Il suo nome, coi titoli di Capo di Cento e di Gastaldo, era riprodotto anche sull'architrave della porta”, conclude Tomizza. Insomma: l'alleanza antica tra veneti e slavi era l'alleanza tra popoli fratelli, nemici dei turchi; la facile coesistenza istriana tra veneti e slavi nasceva nella memoria della terribile pestilenza, e del flagello che aveva ferito i Balcani; e i macedoni, i serbi e i montenegrini che erano già saliti in Istria secoli prima erano accolti come fratelli, martiri d'un comune, terribile nemico.

E così quella era la terra dei veneti e dei friulani, cioè i Benvegnù, i Bassanese, i Fabris, i Bonifazi, e dei serbi esuli, e dei croati e degli sloveni. E secoli di lavoro e di amicizia non erano passati invano. Nessuno pensava a una o un'altra “nazione”: tutti erano istriani, figli del popolo e della terra. Ma il Novecento pensava si dovesse essere o “italiani”, o “jugoslavi” - il Novecento voleva che si decidesse cos'era il bene e cos'era il male; il Novecento voleva cancellare il passato, confonderlo, alterarlo, distruggerlo. Denigrarlo.

Quando muore un uomo, scrive Tomizza, il mondo muore. Ma con “La miglior vita” non muore il popolo che ciacolava in veneto infilando parole croate o slovene dove serviva, e dove voleva; non muore il ricordo delle sofferenze di una civiltà contadina in cui si poteva morire di tetano camminando a piedi nudi, o fracassati sotto un carro di legname; non muore il ricordo d'una gente che chiamava lo zio “barba” e la zia “gnagna”, come in Veneto; né di quelle donne che passavano pomeriggi a “tacar bottoni, cavar passerini e tajàr tabari”, cioè a parlottare e spettegolare. Non muore il ricordo d'un popolo in cui si diventava “vecio” o “vecia” appena si diventava padri e madri, a sedici anni come a trentacinque, e così si poteva chiamare il figlio col proprio nome, perché uno era il giovine l'altro il vecio, e non muore il ricordo di chi sapeva “butar i bronzi” per scacciare la scalogna e la pegola. Muore la possibilità che possa tornare a parlare la stessa lingua, e a condividere la stessa storia. Perché si disperde, quella gente, per il mondo, per i continenti. E qualcuno, tra i discendenti, rifiuta di tenere vivo il ricordo, la memoria, generazione dopo generazione. Non io.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.

Fulvio Tomizza, “La miglior vita”, Rizzoli, Milano, 1977.

Prima edizione: Rizzoli, 1977. Quindi: Sansoni, 1980. Quindi: Mondadori, 2000. ISBN, 9788804485933. Il libro è stato tradotto in francese, in tedesco e in croato.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, aprile 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Un ritorno alla materia dell’opera prima, “Materada”, strutturata e plasmata stavolta con ambizioni più epiche che liriche…