La fortezza

La fortezza Book Cover La fortezza
Róbert Hász
Nottetempo
2008
9788874521456

Róbert Hász viene da un paese della Vojvodina dai due nomi: Doroslovo in serbo e in croato, Doroszló in ungherese. Il nome corretto sarebbe quello ungherese, stando agli odierni censimenti: la popolazione è a maggioranza assoluta magiara. Hász abbandonò la madrepatria nel 1991, per rifugiarsi assieme alla famiglia in Ungheria. Per ventisette anni aveva vissuto in Jugoslavia: in una terra di frontiera, in un paesotto piccolissimo, sorto sulle rovine di un monastero e di una fonte miracolosa. La sua infanzia e la sua adolescenza sono state titine: il Maresciallo Josip Broz muore quando il futuro scrittore era appena sedicenne. Racconto tutto questo per introdurvi all'opera: è decisamente probabile che questo (notevole) romanzo ungherese altro non sia che una terribile allegoria della decadenza e della rovina della fu Jugoslavia, scritto da chi sotto quello Stato e quel regime era vissuto; e dalla guerra era fuggito. Al contempo, come ogni lettore italiano saprà istantaneamente rilevare, “La fortezza” è un gigantesco omaggio al “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati. Verrebbe da dire, in considerazione di certi snodi narrativi, che siamo dalle parti di una “imitatio cum variatione”, per dirla con i padri Latini; cum variatione e contaminazione fantascientifica, non meno allucinata e allegorica, e altro e meno disperato – parrebbe – epilogo.

Entriamo nel cuore dell'opera da una finestra testuale di sicuro fascino e facile presa su noi contemporanei, angosciati dal dubbio sulla natura della realtà: Una strana sensazione si impossessò di lui mentre s'incamminava verso la porta: che tutto fosse solo un sogno, che nella vita reale non sarebbe mai potuto accadere, e si sentì stranamente sollevato. Gli sfuggì persino un sorriso per aver preso sul serio un semplice sogno. Sarebbe voluto tornare indietro e gridare agli altri due: siete solo i personaggi di un sogno, ragazzi, e al mio risveglio sarete scomparsi! Appena avrò aperto gli occhi, voi diventerete solo nebbia!” (p. 127).

Frontiera. Sensazione di essere lontani da Dio e dagli uomini. Abbandonati, o isolati. La nazione si sta disfacendo, assieme all'esercito. Il mondo si va tingendo di colori estranei. Questo aveva profetizzato papà Fabrio, vecchio marinaio: stanno per scadere le giornate sempre uguali, sta terminando la monotonia della pace. Il tenente Livius, da tempo nell'esercito, conosceva un riparo: un pergolato, che sembra indifferente al disordine e alla frenesia della realtà. Tuttavia quel riparo si sta dissolvendo. Il tenente sta viaggiando, adesso, alla volta d'un'antica roccaforte di pietra, un antico castello medievale. Distaccato da tutto: niente radio, televisione, posta e giornali. Niente telefono, apparentemente. Durerà poco, si ripete. Due settimane e arriva il congedo, non può essere altrimenti. Il colonnello smentisce. Livius è in ferma fino a data da stabilirsi...

Vedeva sotto di sé un vuoto oscuro e senza fondo, come se stesse nel punto più remoto di Thule, lì dove il mondo smette di esistere... Era troppo buio per distinguere qualunque cosa in quella profondità; il precipizio appariva interminabile” (p. 28). Stizzito e incredulo, s'adatta. E adattandosi scopre che la cucina è lussuosa. E che per avere un'uniforme adatta deve indebitarsi – promettendo “favori”. Mentre indaga sul senso dell'ordine governativo di difendere il monte a qualsiasi costo, in quel perfetto, assoluto isolamento, torna con la memoria agli antichi amori – la fantascienza, il telescopio puntato sui pianeti, una donna – e s'accorge che non c'è niente di razionale nella fortezza, e nelle condizioni dell'esercito. È come essere stati “sbalzati dal tempo”; qualcuno cerca di abituarlo all'idea di prepararsi agli imprevisti. Uno degli imprevisti è che “il passato potrà attaccare”.

L'importante è non sorprendersi mai. Qualunque cosa possa succederle, qualunque cosa lei possa sperimentare, vedere o sentire tenga sempre presente che si tratta di illusioni. A volte si accorgerà che è successo qualcosa solo quando è già superato, come se si destasse dal sonno. Ne avrà solo un ricordo. Queste illusioni possono essere però molto reali, come se fossero frutto di sonnambulismo” (p. 113).

Il colonnello è convinto che il nemico esista, e che stia sparando del gas per avvelenare e stordire l'esercito. Il tenente tutto ascolta e osserva, ma non riesce a orientarsi nell'incubo realistico che sta vivendo e combattendo. Questo sin quando – e perdonatemi se divento ellittico, ma è per non bruciare il piacere della prima lettura – al di là d'un muro non appare la ragione della presenza delle truppe in quel posto al di là del tempo. Qualcosa s'incrina.

Difficile evitare una comparazione con il capolavoro di Dino Buzzati. In comune c'è la percezione nitida di estraneità a una missione militare, l'isolamento in un'antica fortezza, un nemico che non appare e si finisce per credere, diciamo ingiustamente in entrambi i casi, sia inesistente; mentre il nostro letterato italiano sembrava voler parlare di esistenza e di significato della vita, Robert Hász non si limita alla ricerca d'una verità sulla sua trascorsa vita (amori e radici) e sul suo presente ruolo, ma vellica l'allegoria della fine di un mondo che pareva stabile e placido. Potrebbe essere, stando alla sua esperienza biografica, la Jugoslavia. Potrebbe essere, pensando al patrimonio culturale condiviso dalle antiche aree austro-ungariche, il grande Impero distrutto nella Prima Guerra; tuttavia numerosi richiami a oggetti della seconda metà del Novecento convincono a propendere per la prima ipotesi.

Tecnicamente, l'opera gioca su un buon numero di dialoghi, caratterizzati da un buon ritmo e da una discreta fedeltà al parlato. Questo agevola, naturalmente, la lettura. Le descrizioni non sono mai artificiose o sciatte: la sensazione è che siano ben calibrate nella tessitura della storia. Certe boutade filosofiche o para-filosofiche rischiano, in più di un frangente, di semplificare la portata di un'opera sottile e capace di pizzicare le corde dell'inconscio – non solo per le limpide reminiscenze buzzatiane. Non dubito che leggerò le prossime traduzioni dell'opera di Robert Hász. In Italia esordisce con il suo secondo romanzo. Speriamo di non dover pazientare troppo a lungo. Questo è, chiaramente, un autore. Un autore potente. Da scoprire.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Robert Hász (Doroszlo, Serbia 1964), filologo e scrittore di nascita serba ed etnia magiara. Vive in Ungheria. “La fortezza” è il suo secondo romanzo.

Robert Hász, “La fortezza”, Nottetempo, Roma 2008. Traduzione di Andrea Rényi.

Prima edizione: “Végvar”, 2001.

Gianfranco Franchi, gennaio 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.