La finzione di Maria

La finzione di Maria Book Cover La finzione di Maria
Fulvio Tomizza
Rizzoli
1981

1981. Quarantaseienne, lo scrittore istriano Fulvio Tomizza, triestino d'adozione, pubblica il suo dodicesimo libro di narrativa: si tratta del suo primo romanzo storico. “La finzione di Maria” è, nelle parole del critico letterario giuliano Elvio Guagnini, “la vicenda tragica di un processo di eresia intentato dall'Inquisizione, in cui l'indagine del narratore si snoda sul difficile terreno del rapporto tra potere, libertà, conformismo, rivendicazione della propria individualità” [introduzione a “Gli sposi di via Rossetti”, Mondadori, 1988; p. 9]. La Controriforma restituita da Tomizza mostra una Chiesa fredda nei confronti di due poveri figli del popolo illusi di potere costituire, con la fede, la devozione e la dedizione, un esempio di santità: questa è la storia d'un grottesco processo per “simulazione di santità” concluso con una confessione tutt'altro che sentita.

Trama. Venezia, 1662. Una donna vive chiusa in soffitta con un prete. Il prete è Don Pietro, quarant'anni, dei dintorni di Bergamo. Un tempo ha avuto fama di guaritore, c'era gente che veniva da lontano per poter essere curata. Ma poi il vescovo aveva ordinato che quei pellegrinaggi cessassero; perché potevano essere equivocati. E allora don Pietro aveva preferito partire, andarsene via, sparire. E di lì a poco era diventato uno speciale padre spirituale. Il tutore di una santa, che proprio per la sua fama di santone era andata a cercarlo.

Lei è Maria Janis, trent'anni, del piccolo borgo di Vertova. È davvero in odore di santità. Sopporta privazioni e stenti con semplicità e naturalezza. Maria e Don Pietro non fanno niente di male: non hanno rapporti illeciti di nessun genere. Vivono segregati, da un pezzo; e lei si nutre solo di ostie. Non mangia altro, da anni. Lui le impartisce l'eucarestia ogni santo giorno; e assieme pregano il Signore. Sono anni quelli in cui il Sant'Uffizio condanna “preti concubini, donne indovine, artigiani e barcaioli sorpresi a mangiar carne nei giorni di precetto” [p. 15]: basta poco per stuzzicare i solerti inquisitori. Mezza soffiata. E così, Maria e Pietro vengono arrestati, avvolti nel “ferraiolo” e tradotti in carcere. A lui viene trovato indosso un libretto di preghiere, una corona del rosario e un borsellino con pochi spicci. A lei viene sequestrata una scatola d'argento. Conteneva cinque ostie, se la teneva in seno. Chissà come gliele prendeva, il prete. In casa, gli sbirri trovano libri di preghiere, rosari e vestiti da religiosi. E stanano pochissime provviste. Magro bottino.

“Per quanto tempo non ha mangiato e si è comunicata ogni giorno? Per cinque anni non ha toccato cibo e si è comunicata tutti i giorni, eccetto i venerdì santi nei quali la cena celeste della vigilia continuava a produrre il suo effetto mantenendola in forza. E durante il viaggio, e poi a Roma e qui a Venezia? È sempre vissuta del pane degli angeli” [p. 68].

Fra' Agapito, grande inquisitore del dominio veneto, deve scogliere il grande nodo: il nodo del mangiare. Maria è veramente santa oppure è una ciarlatana, una simulatrice e un'eretica? Riesce davvero a nutrirsi di ostie, e di ostie soltanto, oppure ogni tanto, di nascosto, dà un mozzico a una rosetta o si regala una cucchiaiata di minestra? Cinque mesi di prigione schiariscono poco le idee alla mezza santa: “in breve, da cattolica sfrenata la donna di Vertova rischia di saltar indietro di un secolo e venir processata come una delle mille streghe di quelle vallate alpine” [p. 161].

Maria Janis da Vertova, processata il 16 marzo 1663 assieme al suo maestro, il prete Pietro Morallis, confesserà la sua colpevolezza e verrà così graziata. Finirà i suoi giorni in un “ricovero di derelitti”, un “pio luogo di mendicanti”, costretta dal Sant'Uffizio a recitare il rosario una volta la settimana, confessarsi una volta al mese e comunicarsi nei giorni stabiliti dal confessore imposto dal tribunale. Don Pietro, invece, verrà accolto in un monastero, grazie alla fideiussione di un mercante bergamasco amico.

La morale della buia favola raccontata da Tomizza è che una povera donna, cresciuta in un contesto di miseria e di analfabetismo, aveva finito per convincersi che la santità potesse equivalere a un “privilegio feudale esteso agli umili”: qualcosa di concreto, guadagnabile per rinunce e sacrifici; un sentiero di vita come un altro. Ma così non era, e non c'era coerenza che potesse tenere. Il destino sapeva mostrarsi incredibilmente prepotente, e crudele.

Nella nota “Incontro con un manoscritto”, in appendice, Tomizza rivela la genesi del romanzo: “Nel giugno 1976, consegnato all'editore il manoscritto La miglior vita, al quale mi aveva indotto la lettura stimolante e traumatizzante del registro dei morti nella mia parrocchia, presi a interessarmi del movimento luterano in Istria, sorto in parte spontaneo e in parte sviluppatosi in seguito all'apostasia di Pier Paolo Vergerio, vescovo di Capodistria, e all'azione di altri ecclesiastici riformati: Baldo Lupetino e il lontano parente Mattia Flacio Illyricus da Albona, Stipan Consul Istrian da Pinguente, Anton Dalmatin e Primus Trubar, iniziatori questi tre ultimi della lingua e della letteratura croata e slovena […].”

“[...] Nella Biblioteca civica di Trieste riuscii a scovare i primi numeri della rivista 'Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria', recanti i verbali di dibattimenti a carico di alcuni eretici di Dignano e persino un elenco di tutti i processi indetti dall'Inquisizione veneta contro persone originarie dell'Istria e della Dalmazia. All'archivio di Stato di Venezia, che dedica un reparto ai documenti di quel Sant'Uffizio, fui pertanto in grado di ampliare l'indagine sul movimento della setta di Dignano animata da maestri artigiani e persino da preti e loro figli di origine greca, trasferitisi sulla costa veneta dell'Istria in seguito all'occupazione delle loro terre da parte dei Turchi [...]” [pp. 201-202]

… e tra quelle carte, complete di fatti relativi anche a periodi successivi alla seconda metà del Cinquecento, Tomizza pizzicò quelli della “Finzione di santità” sostenuta contro una “Maria Jani da Vertova”, piccolissima località della diocesi di Bergamo, compresa allora nel dominio veneto. Questo è quanto.

Vale la pena ricordare che, sempre nel contesto delle ricerche di Tomizza sulle apostasie e sui movimenti luterani in area giuliana, si svilupperà, in questi primi anni Ottanta, il suo successivo, documentatissimo e apprezzato romanzo “Il male viene dal Nord” [Mondadori, 1984], dedicato alla controversa figura del vescovo Pier Paolo Vergerio.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.

Fulvio Tomizza, “La finzione di Maria”, Rizzoli, Milano 1981. In appendice, una nota autoriale: “Incontro con un manoscritto”.

Prima edizione: Rizzoli, 1981. Il libro è stato tradotto in USA.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, aprile 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

La Controriforma restituita da Tomizza mostra una Chiesa fredda nei confronti di due poveri figli del popolo…