La cura dell’acqua

La cura dell'acqua Book Cover La cura dell'acqua
Percival Everett
Nutrimenti
2008
9788888389899

Noi, tutti noi, siamo e saremo solo punti e linee. Rock’n’Roll. Un cerchio è solo una linea retta equidistante in ogni punto da un dato punto. Lagrange abbuffata. Un quadrangolo è quattro linee intersecate nello spazio. Il punto non ha dimensioni, è pura ubicazione. La linea non ha profondità, è pura direzione e lo spazio non è nulla. Avanti un atomo” (p. 187).

Non è inaccessibile: è caotico, nell’accezione più fertile e solare del termine, perché, postmoderno, va assemblando stili e tecniche di scrittura differenti, ricordando e rinnovando quando Joyce (in certi frangenti pensavo: il Finnegan’s Wake non è stato scritto invano), quando Carroll, preferendo ai filosofi moderni Zenone, Talete ed Eraclito. Percival Everett si confronta con la storia della sapienza, con gli interminabili studi sul senso e sulla natura del linguaggio, con la decadenza politica della sua nazione, con la cognizione del dolore: ne deriva un romanzo – romanzo? Sì, nell’accezione chiara di “confederazione di generi” – scritto per frammenti (ma non frammentario, specifica l’io narrante anticipando le critiche: cfr. pp. 23-24) destinati a sedimentare nell’inconscio del lettore. Perché la forza di quest’opera complessa e cerebrale sta nel suo essere a un tempo allegorica e pamphlettistica.

Da un libro ferocemente antigovernativo ci si dovrebbe attendere chiarezza didascalica, ma Everett non sta scrivendo propaganda per nessun partito, sta facendo propaganda per l’intelligenza, per la rivolta e per la libertà. Sta facendo, in altre parole, Letteratura. Questo spiega perché, tra i frammenti di questo “La cura dell’acqua”, possano essere individuate livide e dirette invettive rivolte all’amministrazione Bush, alla Cia (p. 160), ai propri concittadini, amalgamate a una trama principe che vuole essere trasfigurazione atipica di quanto avvenuto tra Afghanistan e Iraq negli ultimi anni. Post ferita delle torri, casus belli. Vediamo come. Ishmael (nemmeno Melville ha scritto invano) Kidder, protagonista del romanzo, è un padre sconvolto: la sua piccola Lane, serenità e gioia, è stata violentata e uccisa. Aveva soltanto undici anni.

Ishmael aveva un’esistenza semplice. Scriveva romanzi rosa sotto pseudonimo, viveva di niente, menzogne e piccole consolazioni domestiche, inquinandosi solo pensando a cosa fosse arte e cosa significasse significare. L’intellettuale deraglia e punta il presunto colpevole: lo sevizia e lo tortura, senza sentire piacere. Una delle tecniche di tortura è quella eponima. Intanto, medita sulla virtù, sulla conoscenza, sulla verità e sulla menzogna: sulla fede, sulle parole, sull’umanità. E quando lascia andare le briglie ecco calembour, stream of consciousness, allitterazioni nonsense, falsi refusi, reminiscenze. Sino al precipizio dell’opera aperta: “Adispettodi Humpty Dumpty, adispettodi le autorità del mio Paese, tu non puoi fare in modo che le parole, i simboli, i segni significhino quelli che ti pare. Perciò, dove sono i vincoli? Chi detta le regole con cui leggiamo? Sono regole di inferenza, e come mai vi aderiamo, senza sapere perché obbediamo, senza essere capaci di articolarle? Le parole su queste pagine non costruiscono una trama. Potete prenderle e portarvele via, se volte” (p. 51). Passo che configura, al limite, una rabbia anarchica che non può non sedurre. Perché mai come oggi è condivisa dagli intellettuali liberi e onesti di tutto il mondo occidentale.

E allora attendevi, sul piano dell’aggressione allucinata alla decadenza degli States, un memorabile colloquio col fantasma di Thomas Jefferson (pp. 39-41), che fumando uno spinello ricorda: “(…) la democrazia significa che il cinquantuno per cento della popolazione può cagare in testa all’altro quarantanove per cento”; e più avanti, parlando di Bush: “Io mi interessavo di filosofia e architettura, lui di barzellette sporche e cocaina. Io ho fondato l’Università, lui si è a malapena laureato (…)”. Siamo dalle parti dell’attacco frontale. Ma mai come in questo frammento. Semplicemente memorabile.

Sono nato in un paese di stupide teste di cazzo e, se non altro per associazione, o forse determinismo genetico (che pensiero tranquillizzante e sgradevole), devo essere anch’io una stupida testa di cazzo. Le stupide teste di cazzo del mio Paese hanno eletto re una stupida testa di cazzo, e lui ha governato con stupida pompa e maestà del cazzo, una stupida testa di cazzo per l’eternità, che in un’epoca più equa avrebbe lo stesso successo dell’omino col badile che chiude la sfilata del circo, ma forse nemmeno. Quella stupida testa di cazzo è stato eletto da stupide teste di cazzo e sponsorizzato da stupide teste di cazzo e forse addirittura scaricato da stupide teste di cazzo, ma le stupide teste di cazzo, essendo stupide teste di cazzo, o se ne sono dimenticate o l’hanno perdonato e sono tornate ad amare il re stupida testa di cazzo che ama la guerra e i soldi e se ne sta lì a macellare la nostra lingua mentre si mastica la guancia e inquina l’aria con slogan (…)” (graffiti, come se importasse qualcosa, pp. 20-21).

Spaventano la tristezza, la rabbia, il malessere, il furore, la chiarezza disperata di una pagina come questa. Perché significa che l’artista è consapevole che può anche scrivere una pagina come questa e non servirà a nulla. Perché è un sistema che non può essere rovesciato, proprio perché non ha più niente di democratico: se non la logica stupida del 51 a 49 (che non esclude che quel 49 sia sponsorizzato ed eletto da altrettante teste di cazzo: il nodo è come garantire uguale visibilità a ogni candidato, non chi scegliere tra due fantocci che hanno disintegrato gli spazi degli altri…).

Non credo si possa scrivere che questa lettura abbia un termine. “La cura dell’acqua” tornerà sul vostro comodino o sulle vostre scrivanie più volte, negli anni, e invecchiando vi concentrerete su altri aspetti: filosofici, in prima battuta, ed esistenziali e linguistici, in generale. Politicamente sconfortati e disillusi come saremo, troveremo eroico il pensiero che un artista abbia voluto sfogare ancora, nel 2007, sano odio, giusto disprezzo e sacrosanto disgusto nei confronti del suo governo assassino e imperialista; pensando che quella sua iconoclastia era forse uno degli ultimi colpi di coda di una coscienza civile e di un sentimento di appartenenza alla cosa pubblica ormai totalmente perduto. Sarà allora che la postmoderna e anarchica scrittura di Everett si tingerà di colori e significati diversi, e rivoluzionari: accessibili e chiari per tutti, come un codice non più segreto, rivelato e condiviso.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Percival Everett (Fort Gordon, Georgia, USA 1956), scrittore americano. Laureato in Filosofia e Biochimica, ex musicista jazz, bracciante e insegnante di Liceo. Professore di Letteratura alla Southern California, vive in un ranch con la moglie Danzy Senna. Ha pubblicato romanzi (esordio: “Suder”, 1983), raccolte di racconti, favole e poesie.

Percival Everett, “La cura dell’acqua”, Nutrimenti, Roma 2008. Traduzione di Marco Rossari. Art Director: Ada Carpi. Collana Greenwich, 4.

Prima edizione: “The Water Cure”, 2007.

Dalla quarta: “La cura dell’acqua ha avuto una genesi e un percorso di scrittura diverso da quello dei precedenti libri di Everett. È stato scritto e illustrato, durante il 2003, su vari quaderni ad anelli e fogli sparsi in un loft nel centro di Los Angeles. L’autore non aveva intenzione di scrivere il testo in ordine cronologico per poi, letteralmente, mischiare le carte: il romanzo si mostra infatti nello stesso ordine in cui è stato composto, come un non sequitur”.

Gianfranco Franchi, aprile 2008.

Prima pubblicazione: Lankelot.