La cena di Henry

La cena di Henry Book Cover La cena di Henry
Carlo Trotta
Michele Di Salvo
2003
9788889000137

La cena di Henry è la mia ‘opera prima’, scritta praticamente di getto, in tre mesi, in un periodo di ispirazione totale. Parla di tutto e non parla di niente. È uno schifosissimo romanzo sui generis, con venature poetiche, tratti pornografici, giochi metaletterari e puntini puntini. È un libro sull'incomprensione, sul nostro tentativo di comunicare veramente, facendo finta di non renderci conto di quanto farlo sia impossibile. È un libro sulla vita, sul mondo e sul quartiere, ci sono personaggi miei e altrui che giocano ed interagiscono grazie alla penna di Henry, ci sono vicende che poco avrebbero a che vedere fra di loro, se una cena finale non intervenisse a ricordare che tra tutti c’è una caratteristica che li rende fratelli, Hitler e Poe il cane pazzo, Rosy quando te sposi e Pino il lavandino. Sono tutti maledettamente vivi”. (dal sito ufficiale di Carlo Trotta).

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Salutato dai felici auspici di “Candido” di Voltaire e “Ghiaccio-nove” di Vonnegut, l’esordio di Carlo Trotta è un romanzo non convenzionale: atipico, frammentato e sperimentale. Certa sensibilità metaletteraria, di gusto pirandelliano e vonnegutiano, è sintomo e segno d’una cosciente riflessione sull’identità, sulla natura e sul senso della comunicazione, sull’irreversibile distanza che si stabilisce tra chi trova nella letteratura l’incarnazione dell’utopia, e nell’otium l’unica dimensione esistenziale auspicabile e agognabile, e chi ancora s’affanna e s’affatica pretendendo materialità, “pragmatismo” (per quel che vuol dire), “produttività” e via dicendo.

E allora, in un certo senso, sembra quasi naturale che certe convinzioni dell’autore – a proposito di cosa sia, e cosa significhi la ribellione, e di cosa sia, e cosa rappresenti la verità – possano essergli parse meno dolorose o meno socialmente pericolose creando un personaggio protagonista, io narrante, assolutamente cosciente di sé e determinato a valicare – come una creatura illuminata del “Flatlandia” di Abbott – la soglia che separa due dimensioni. Henry è un ribelle totale, stirneriano.

Non ha dubbi sulla sua genesi, e sulle opportunità che avrà: “Io non esisto se non in questi fogli, io che scrivo sono un personaggio del mio autore, e il mio demiurgo mi dona, per una volta, la possibilità di creare i miei compagni, il mio mondo, e di parlare direttamente con te, pur sempre passando attraverso di lui” (p. 7). Non morirà, perché “non esiste” (è, infatti, “il più grande scrittore inesistente di tutti i tempi” p. 11): creato “per scrivere e per pensare”, è consapevole d’esser stato creato debole, e pretende di poter cambiare il suo carattere. Si sente stanco e intorpidito, costantemente: e questo a dispetto delle numerose e tendenzialmente estreme (o forse: a causa di queste esperienze estreme? Decida la sensibilità del lettore) esperienze estetiche ed “esistenziali” che vivrà assieme ai suoi golem: a queste creature di carta nate dalla sua fantasia di creatura di carta. Abitano nel suo stesso quartiere: che non esiste, o è dappertutto. Sappiate che potrete trovarlo là, dove è sempre notte.

Incontreremo così Jimmy il Pazzo (autore anche della prefazione: è un’interessante nuova geminazione dell’autore, il Trout di Trotta, in un certo senso), vagabondo alienato, di mezza età, che s’aggira per il quartiere parlando ad alta voce, da solo, e lamentando e maledicendo le sue sventure; incontreremo Loredana la Puttana, coetanea di Jimmy, cupa e silenziosa, incapperemo rapidamente nel camorrista Peppe O’ Spinnaker, conosceremo la forte ma minuta Gina; e ancora, Poe il Cane Pazzo, stranissimo quadrupede dal positivo approccio alle paradossali e grottesche cose della vita, piccolo e agilissimo e capace di farfugliare in un italiano comprensibile, l’enigmatico e invisibile Giovanni L’Attaccapanni (nomen omen, immagino: è il dramma di chi si dedica al lavoro oscuro), il piccolo senegalese U U, così battezzato dagli ululati dei suoi compagni di classe, l’alcolista non anonimo Pino il Lavandino, Riccardo Cuore Codardo, ex promessa bruciata per la renitenza ai calci di rigore (come il nostro indimenticabile Divino), il Barista, sorridente (invariabilmente) amico (ma sa rivelarsi versatile) dei cittadini del quartiere, e l’essenziale pusher di skunk del quartiere, Don Franco. Che non è un sacerdote, ma è egualmente una benedizione per queste creature annoiate o ferite o in cerca di consolazione, oblio e pace interiore (infatti: “droga e prete sono la stessa cosa”, p. 25). Henry li ha creati: ma non contano nulla: sono soltanto “lettere ribelli”.

Ribelli come il loro creatore, che s’è americanizzato il nome dopo un paio di pagine – per cominciare a stabilire distanza tra sé e il suo dio. Nel libro, questo suo dio non esiste: Henry “è libero”, “è dio”, e “scrive per te”; si giostra serenamente tra la prima e la terza persona, può abolire a piacere le maiuscole, avallare la poetica della minuscola assoluta, innamorarsi dei puntini di sospensione cari a Céline e delle virgolette in apice, soltanto se accompagnate da questi arcani segni di “punteggiatura emozionale”. Spiega: “Ora voglio dire una cosa, io scrivo così non perché sia ignorante, conosco lettere e parole e il come si fa a metterle insieme. scrivo così per irritarti, provare a cambiarti, di modo che alla fine saremo amici o nemici. morte all’indifferenza. sarai come U U, riderai di chi si prende gioco di te con la saggezza di un bambino che non rinnega madre e padre. sarai il mio figlio dagli occhi sempre rossi, mandato da me in una terra creata da altri a provare a cambiarla” (p. 16).

Si tende, gioiosamente, all’anarchia. E le creature nate dall’immaginazione di Henry saranno splendide marionette a sua disposizione: potrà stuprarle direttamente, o farle accoppiare per poter meglio riflettere sul sesso (“dura poco e lascia il vuoto”, ecco la prima impressione), potrà trascinarle fino all’ubriachezza (l’alcol “impedisce di pensare e annebbia il cervello”: solo col tempo se ne comprendono gli straordinari talenti), farle fumare (sigarette, skunk e via dicendo: con crescente empatia), e via dicendo.

Vuole capire: perché vuole liberare il suo creatore, e ha intuito a cosa serva ribellarsi, e come ci si debba liberare: va sperimentando per cementare la sua convinzione, e per divertire il lettore e dio, e per non più dimenticare che deve combattere senza disertare (p. 56): ha perduto la verità degli uomini, perché rifiuta la loro idea di libertà e di verità.

È disperato e folle, sregolato e arbitrario, sentimentale e malato di una solitudine intollerabile: talvolta comprende che essa possa essere attutita, o mitigata; allo stadio, quando gioca la Roma (soprattutto in quel campionato, qualche anno fa: il passato non si dimentica), oppure bevendo e fumando. Il calcio e le droghe leggere pacificano e aiutano a socializzare: il sesso sublima. Ma non basta. Invoca il suo Dio (stavolta, in maiuscolo) perché possa trascinarlo tra gli incubi di carne: nella fantasia sta soffocando, perché s’accorge che l’immaginazione non conosce davvero limiti, e l’abisso che la separa dalla realtà è irrimediabile; e allora può invitare a cena tutti i suoi personaggi, in compagnia di Adolf Hitler, Charles Bukowski e Kilgore Trout, assistere a un’intervista di Virgilio alla televisione (argomento: le gioie e le rivelazioni derivanti dall’Lsd) e, tra le righe, suggerisce il suo sogno (che è forse il sogno del suo Dio): abolire lo Stato (p. 61).

Henry crede che il vero ribelle debba lottare col suo dio affinché egli migliori (p. 41): e non abbiamo dubbi che sia questa la natura d’ogni daimon, dimenticarsi d’essere creatore e nascondersi nel ruolo della creatura. Henry si spegne dopo una grande abbuffata para-ferreriana, pensando che ha scritto e scrive per conoscere, e che ha senso soltanto pensare, e non fare nient’altro; per accostarsi a questo splendido distacco da tutto quel che appartiene alla realtà, e lusinga e sconvolge le anime degli uomini, ha vissuto vite e inventato incubi e vissuto sogni e condiviso e negato e proibito; i suoi personaggi non possono o non sanno comprenderlo, seppelliti dalle loro risate sugli scaffali dei lettori.

È un esordio atipico: una sperimentazione originata da una seducente idea di base, giocata adottando una forma volutamente trasandata e sciatta, intervallata da improvvisi sprazzi di equilibrio e misura; è un libro che vive di costanti e divertenti richiami ad altre opere letterarie, rivelando una formazione culturale eclettica, piuttosto al di fuori del comune nella nostra generazione; Trotta sa essere lirico e pornografico, sa essere blasfemo e addirittura mistico, sa essere provocatorio e conformista: e ha la sensibilità d’osservare e d’ascoltare le persone che abitano nel suo “quartiere”: saprà parlare di loro, negli anni a venire, come nessun altro. Trotta canterà la vita degli emarginati, dei reietti, dei dimenticati e dei trascurati: perché ha già interiorizzato la loro disperazione, e va in cerca di parole nuove per raccontare della loro anima ai suoi lettori, e per liberarli dal male. Chi ha letto questo libro con eccessiva disinvoltura non ha ascoltato il latrato di dolore che l’ha originato: i veli di sarcasmo, di cinismo e di immoralità che l’autore ha ritenuto di stendere sul testo hanno nascosto un sentimento originario che è simile a un’atroce malinconia, stemperata appena da un immenso amore per la letteratura. Da leggere.

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PAROLE D’AUTORE (di Carlo Trotta)

«Jimmy il Pazzo, ci tiene a far sapere che lui e Kilgore Trout esistono entrambi, e si conoscono. Potrebbe essere una delle basi del mio modo di affrontare la stesura dei testi lunghi. Ho capito una cosa, in questi giorni, in dubbio tra pop e mainstream, tra quartiere e letteratura, se devo scegliermi un’etichetta, mi scelgo quella dell’autore di fantascienza. Per l’esatto intendersi del termine si veda “Vita breve e felice di uno scrittore di fantascienza”, testi autobiografici di P.K. Dick, edito da Feltrinelli. Illuminante. Dick è l’autore dal quale sono più preso al momento, mi sta facendo capire molte cose, e soprattutto mi ci ritrovo in un modo personale di affrontare la scrittura. Fantascienza qui è da intendersi come “filosofia speculativa”, storie basate su ipotesi, sempre originali, che definirei perlopiù “parallele”. Mondi possibili “se”… Parto da questo, “ma cosa accadrebbe se?”, e da quel momento in poi ho bisogno di saperlo. Successo questo in cuor mio, provato una volta il brivido del “se” al quale non potevo dare subito una risposta, il mio cammino è stato obbligato da coincidenze di amor di lettura. Avevo finito Bukowski, ed era come se fosse morto un amico. Lui non scriveva più per me, e io ne avevo bisogno. Ed eccolo lì, il buon Chinasky, far capolino nelle mie pagine… Ma allora mi domando, posso farlo? È sacrilegio, o posso farlo davvero? Far parlare nella mia fantasia, seduti a un tavolino di un bar, Henry Chinaski, Kilgore Trout e Arturo Bandini era una cosa che mi faceva sognare a occhi aperti. Metterli su carta, immaginandomeli come me li sono sempre immaginati, questi tre miei amici, è stato, oserei dire, “naturale”. Qualsiasi cosa io potessi provare a scrivere, sarebbe un plagio. A questo punto, mi permetto, oso, e lo trasformo in un omaggio da innamorato. Se poi i tre geni al tavolino a parlar di dio e di bevute sono ascoltati da Jimmy il pazzo, che in un testo a quattro mani, in una sorta di corrispondenza, mi riferisce, il tutto diventa mio, e di tutti i libri che ho letto. Assieme. (la mia precedente è un autocitazione da “i racconti metafisici di Jimmy il pazzo”, che verrà presto edito in un testo a sei mani, di Jimmy, Nick la puzza, e Sam Diamante, Comparse Scomparse). Non so se mi spiego bene su questo, ma posso dire che è la chiave di quel che ho in testa dal punto di vista stilistico, assieme ad altre due regole: osare, nascondere. Ecco, forse per riassumere: usare, osare, nascondere. E palesare qualsiasi omaggio. Se in testa hai lui, chiamalo con il nome suo, ma quel che lui ha in testa, fallo intuire, non lo dire a chiare lettere. Jimmy il pazzo esiste, e mi aiuta a scrivere. “La cena di Henry” è un libro secondo me con molti limiti, ha attimi troppo bassi che definirei “errori giovanili”, ma anche pezzi di cui sono molto soddisfatto, righe che mi danno un brivido difficile da spiegare, è, davvero, come se non le avessi scritte io. è su questa ipnosi e su questo dubbio speculativo che proverò a passare molte notti in futuro, a far giocare tizio con caio, per vedere che succede. In fondo c’è chi gioca a sims, io mi diverto di più così. I dubbi miei e dei romanzi di Dick sono sostanzialmente gli stessi. Il modo di non risolverli, forse, pure. La differenza tra me e Dick (oltre al fatto che lui scriveva molto meglio) sta nel fatto che io nei miei romanzi come personaggio uso pure lui, in un libro scritto con Kilgore Trout, e dedicato a Leo Bulero. (una piccola anticipazione dal mio prossimo romanzo…). Il tutto provando a impostarlo come lo farebbe Benni, e a sdrammatizzarlo come farebbe Pennac, prima di quella pugnalata finale, quell’amarezza che ti da soltanto Buk. Badate bene, “provando”… La fantascienza, faccia a faccia con la metaletteratura. Quando ho scritto “la cena di Henry” non ne ero cosciente ancora, ed è proprio lì che mi si è svelato il mondo in cui voglio ambientarmi. Ringrazio Gianfranco per l’ottima recensione. Quando ha avuto il libro ha detto “così lo leggo e ti faccio una recensione”. Sul mio volto il terrore.Lo spettro del giudizio. “ma io pensavo che lo leggevi e basta!”. Ma che li scrivo a fare i libri, se poi non mi va di farli leggere? Ogni volta che sai di una singola persona che legge le tue stronzate, è un brivido. E invece il buon Gianfranco è stato non solo lusinghiero e piacevole da leggere, ma è andato a toccare e a raccogliere proprio là dove era più giusto fare, a parer mio. Leggere una recensione, e dilungarsi poi in due righe (si, parlo troppo, me lo dicono tutti…) di ringraziamento a volte non solo gratifica, ma aiuta a capirsi meglio. C’è gente che scrivendo si risparmia i soldi per lo psicologo. Credo in questo caso mi sia valso un buono visita. È bello riflettere su altrui riflessioni su tue riflessioni precedenti! Ti dimostra però che alla fine, purtroppo, il tempo esiste, e vince sempre lui. Quando sarò una celebrità, che mi studieranno all’università (e a chi dice sotto spirito gli venga una colica!), ed avrò milioni di lettori in tutti i mondi, vorrei che fossero tutti tanti piccoli Gianfranchi Franchi. Grazie di tutto, Carlo Trotta» (Novembre del 2004)

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Carlo Trotta (Sardegna, agosto 1978), romanziere e poeta italiano. È fondatore e direttore editoriale del sito www.nuoviautori.org, nato nel 2002.

Carlo Trotta, “La cena di Henry”, Michele Di Salvo Editore, Napoli 2003. Prefazione di Jimmy il Pazzo. Disegno in copertina di Gabriele Cisilotto.

Gianfranco Franchi, novembre 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.