In che stato è la democrazia?

In che stato è la democrazia? Book Cover In che stato è la democrazia?
Eric Hazan (a cura di)
Nottempo
2010
9788874522354

Questo libro nasce da una domanda: “Ha senso dirsi  'democratico'? Se no, perché? E se sì, rispetto a quale interpretazione del termine?” - a rispondere, sono filosofi e intellettuali di diverso orientamento politico: Giorgio Agamben, Alain Badiou, Jacques Rancière, Kristin Ross, Daniel Bensaïd, Wendy Brown, Jean-Luc Nancy e il pesantissimo Slavoj Žižek. Le risposte, come spiega il curatore Eric Hazan, sono “differenti e a volte contraddittorie, cosa che era prevista e persino auspicata”. Niente definizioni né istruzioni per l'uso.

Potremmo adottare come ouverture della questione, tuttavia, l'incipit del saggio (“Democrazia finita e infinita”) di Jean-Luc Nancy. Il filosofo francese si chiede: “Ha senso dirsi 'democratici'? Chiaro che si può e si deve rispondere sia: 'No, non ha più il benché minimo senso, poiché non è più possibile dirsi altro', sia: 'Sì, certamente, visto che ovunque l'uguaglianza, la giustizia e la libertà sono minacciate: dalle plutocrazie, dalle tecnocrazie, dalle mafiocrazie'. La parola 'democrazia' è diventata un caso esemplare di insignificanza: a forza di rappresentare il tutto della politica virtuosa e l'unico modo di assicurare il bene comune, ha finito per assorbire e in parte dissolvere ogni carattere problematico, ogni possibilità di interrogazione o di messa in discussione […] Insomma, democrazia vuol dire tutto – politica, etica, diritto, civilizzazione – e quindi non vuol dire niente” (p. 95). Nel suo ispirato scritto, Nancy conclude, lirico, che democrazia è il nome “mal significante” di un'umanità che “si trova esposta all'assenza di ogni fine dato – di ogni cielo, di ogni futuro, ma non di ogni infinito. Esposta, esistente” (p. 117).

Badiou (“L'emblema democratico”) ritiene che il termine democrazia sia un emblema, ossia il cuore intoccabile di un sistema simbolico. In particolare, la democrazia è l'“emblema dominante della società politica contemporanea”. Per parlarne, l'emblema va destituito. E allora Badiou scopre subito, partigiano, che “a un democratico piacciono solo i democratici” (p. 16). Il filosofo è piuttosto caustico: considera la democrazia una “oligarchia conservatrice il cui unico compito, spesso militare, è il mantenimento […] di quello che è solamente il territorio della sua vita animale”, fondata sul valore del denaro. In altre parole, fa coincidere la democrazia direttamente col capitalismo.

Badiou è convinto che la democrazia non salverà l'occidente, così come a suo tempo non seppe salvare la Grecia, e che l'unico sentiero sensato sarà “reinventare” il comunismo. Come no: dimenticando qualche milione di morti, con negligenza tutta francese, vagheggiando forse un nuovo, più efficiente arcipelago Gulag.

Wendy Brown (“Oggi siamo tutti democratici”) osserva che “la democrazia non è mai stata così concettualmente evanescente o vuota nella sostanza” come in questo momento storico, a dispetto della straordinaria popolarità del termine: è come se il suo “gemello eterozigote”, il capitalismo, sia riuscito a ridurla allo status di brand. E come insegna Patrick Ruffini, certi brand “evocano sentimenti che non hanno virtualmente niente a che vedere con gli attributi e le caratteristiche specifiche di un prodotto” (cfr. nota 1, p. 92).

Al contempo, la Brown osserva, non senza perplessità: “Berlusconi e Bush, Derrida e Balibar, comunisti italiani e Hamas: oggi siamo tutti democratici. Ma cosa resta della democrazia?” - si chiede la studiosa americana. Poco, parrebbe. Buone le argomentazioni: ad esempio, una che noi italiani possiamo perfettamente condividere e comprendere è questa... il potere economico ha cessato d'essere subalterno al potere statale, mostrando piuttosto capacità abnormi di corroderlo, corromperlo, comperarlo. Come se non bastasse, le elezioni sono diventate un “circo governato dal marketing e dal management”, e la vita politica s'è ridotta a una “questione di successo mediatico e di commercializzazione” (p. 75). In più, il neoliberismo ha alterato l'immagine dello Stato costituzionale, tramutandolo in un'impresa: così facendo, ha “sostituito nella sfera politica i principi democratici con i critici imprenditoriali”. Sembra proprio famigliare, eh?

Consoliamoci: nel suo saggio, Kristin Ross (“Democrazia in vendita”) ci ricorda che già secondo Auguste Blanqui, nel 1852, democrazia era “una parola priva di significato”. Blanqui: “Che significherà mai essere un democratico? È un termine vago, banale, senza un'accezione precisa, una parola di caucciù” (p. 127). Cos'era accaduto? Il regime era riuscito ad appropriarsi della parola magica per definire se stesso. Un bonapartista poteva spacciarsi per un “difensore della democrazia”. Allora, ciò ci insegna, secondo la Ross, che “se continuiamo a concepire la democrazia semplicemente come forma di governo, non ci resta altra scelta che abbandonare la parola nelle mani del nemico che se ne è impadronito. Proprio perché non è una forma di governo, non è un tipo di costituzione o di istituzione, la democrazia, intensa come il potere di chiunque di occuparsi degli affari comuni, diventa allora un altro nome per designare la specificità della politica in quanto tale […]. Più che una forma, è un momento” (p. 151).

Bensaid (“Lo scandalo permanente”) ritiene che per i liberali il termine “democrazia” sia la maschera del dispotismo di mercato e della sua “concorrenza non falsata” (p. 30). Esclude che la “responsabilità esclusiva del pericolo burocratico e delle miserie del secolo” possa essere ascritta alla forma-partito, in polemica con la Weil (cfr. “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”). Medita, sulla scia della battuta di Rancière (“scandalo democratico”) sulla scandalosità della democrazia, spiegando ch'essa per sopravvivere deve “trasgredire in permanenza le sue forme istituite” o “mettere l'uguaglianza alla prova della libertà”, ritrovandosi costretta a progressive mutazioni pur di poter “estendere in modo permanente e in tutti gli ambiti l'accesso all'uguaglianza e alla cittadinanza” (p. 66).

Jacques Rancière, intervistato da Eric Hazan (“I democratici contro la democrazia”), è convinto che la democrazia è la base stessa di ciò che rende pensabile la politica: il potere del popolo, ossia il potere di quanti non hanno alcun titolo particolare per esercitare il potere. Osserva che terminata la guerra fredda il consenso sul significato della “democrazia” e sul suo valore è caduto: è venuto a mancare il suo grande rivale, il totalitarismo. Il filosofo parigino ricorda che sin dai suoi albori (Platone, Aristotele) la democrazia è stata un'idea molto contrastata e combattuta. Per Platone, la democrazia non era una forma di governo, ma soltanto l'arbitrio assoluto di persone che hanno voglia di comportarsi come credono: per Aristotele, la democrazia era un bene, a condizione di impedire ai democratici di esercitarla. Oggi stiamo tornando all'origine, insomma. Tornare all'origine non è mai stato così affascinante. C'è qualcosa di eccezionalmente fertile in questo dibattito sul senso e sulla natura della democrazia: è l'annuncio d'una sua prossima evoluzione solare. Crediamoci.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Aa vv., “In che stato è la democrazia?”, Nottetempo, Roma 2010. Traduzioni di Andrea Aureli e Carlo Milani. Collana “Figure”.

Prima edizione: “Démocratie, dans quel état?”, La Fabrique, 2009. In appendice, note biobibliografiche sugli autori.

Gianfranco Franchi, ottobre 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.