Il sergente nella neve

Il sergente nella neve Book Cover Il sergente nella neve
Mario Rigoni Stern
Einaudi
2014
9788806219666

Quando, due anni e mezzo fa, morì il vecchio Mario Rigoni Stern, il suo amico e sodale Ferdinando Camon commentò, su “Repubblica”: “Era uno scrittore grandissimo. Aveva la grandezza che hanno i solitari. Quando sono stato presidente del Pen Club italiano è stato il primo italiano che ho candidato al Nobel: era uno scrittore classico, dalla visione lucida e dalla scrittura semplice ma potente; aveva carisma anche come uomo. Aveva un carattere buono e mite. Se ne fregava dei convegni e delle società letterarie”.

Era uno scrittore che aveva esordito sotto la tutela di Elio Vittorini, per Einaudi, nel 1953: aveva esordito con questo “Sergente nella neve”, considerato dall'intellettuale isolano “una piccola Anabasi dialettale nella quale Rigoni non testimonia per rendersi utile a una causa o a un’altra, ma per il semplice gusto che prova, in comune coi poeti, a testimoniare”. Vittorini non sembrava convinto di avere scoperto un artista. Sembrava, piuttosto, persuaso d'aver indovinato un buon mestierante, con un discreto orecchio per i dialetti, autore d'un buon memoir. Sessant'anni più tardi, ci accorgiamo invece che “Il sergente nella neve” è diventato un piccolo classico: e questo a dispetto del fatto che abbia meno respiro, meno intensità e meno vividezza dell'imponente “Centomila gavette di ghiaccio” del sottovalutato Giulio Bedeschi, sacro agli alpini e ai lettori forti, ma misconosciuto dalle masse. Eppure, l'argomento è lo stesso: la drammatica vicenda della ritirata degli italiani dalla Russia, dopo il disastroso esito dell'aggressione militare ai bolscevichi e al popolo russo, raccontata da chi ha vissuto giorno dopo giorno la disfatta, ha assistito al martirio dei propri compagni, ha combattuto contro soldati nemici che non aveva nessuna ragione di detestare o di odiare, ha masticato amaro ripetendosi le balle della propaganda patriottarda del regime, ha camminato mano per mano con la morte per miglia e miglia. Forse Rigoni ha avuto più fortuna di Bedeschi semplicemente perché ha saputo essere più sintetico, o perché a livello editoriale ha avuto fortuna da subito: il libro di Bedeschi è passato per sedici anni di rifiuti, prima di vedere la luce (1963). Questioni politiche, si dice. Congettura plausibile.

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“Il sergente nella neve” è un libro che in tanti hanno almeno sfogliato, negli anni della scuola. E stando a quanto testimonia un professore-scrittore romano come Eraldo Affinati, nella postfazione di questa edizione Einaudi (2008), è un libro che è riuscito e continua a riuscire a parlare anche a studenti poco più che alfabetizzati, finendo per colpirli nel vivo – per dialogare col loro immaginario, stabilendo un contatto che sembrava altrimenti improbabile con la loro angosciante, grigia e televisiva normalità. Impresa non da poco, già.

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Come nasce un piccolo classico? Come niente fosse. È come se fosse preesistito: semplicemente, a un tratto, appare e viene riconosciuto per ciò che è. Un piccolo classico è in ogni caso sempre estraneo a una certa retorica. Un piccolo classico parla semplice e dice cose in cui si sanno riconoscere tutti. Come queste: “C'era la guerra, proprio la guerra più vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che erano più vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose”.

O come queste: come le parole che raccontano la disperazione della solitudine, dell'abbandono, della sconfitta: “Ed erano vuote le tane, vuote, vuote di tutto e io ero come le tane. Ero solo sulla trincea e guardavo nella notte buia. Non pensavo a nulla. Stringevo forte il mitragliatore. Premetti il grilletto, sparai tutto un caricatore; ne sparai un altro e piangevo mentre sparavo”. Probabilmente, a così pochi anni di distanza dalla fine della guerra, e di certa trombonesca retorica militarista patita dalla maggioranza assoluta della popolazione per tanti anni, parole come queste suonavano, nella loro graziosa semplicità e nella loro umiltà, più potenti, più incisive, più credibili. Era il 1953, e per noi italiani la Seconda Guerra Mondiale non era ancora finita. Sarebbe finita un anno più tardi, con la decisione finale (ma finale non doveva essere, vale la pena ricordarlo) degli Alleati sulle sorti della nostra amata Trieste, e delle nostre perdute città di Pirano, Capodistria, Pola. Ottobre 1954.

Quando uscì il libro di Rigoni Stern, insomma, le ferite erano ancora aperte, altro che fresche. Aperte, e belle sanguinanti. Era il 1953. Contestualizza Eraldo Affinati, nella postfazione: “Il sergente nella neve uscì nel 1953, sedicesimo dei 'Gettoni' di Elio Vittorini, con un sottotitolo dal fascino ottocentesco: 'Ricordi della ritirata in Russia'. Mario Rigoni Stern, fatto prigioniero dai tedeschi dopo l'otto settembre 1943, aveva scritto la prima stesura del suo diario bellico nel Lager IB, in Masuria, Prussia Orientale, non molto distante dall'odierna Kaliningrad. Quando andò in stampa, il lungo racconto avrebbe potuto essere considerato uno dei numerosi testi di memorialistica che in quegli anni occupavano gli scaffali delle librerie”. E così sembrava dovesse essere, e forse per questo era nato. La storia è andata diversamente.

Quando uscì il libro di Rigoni Stern, ci ritrovammo tutti tra i nostri alpini, in un posto misterioso, che non avremmo visto mai. In riva al Don, in un villaggio di pescatori. E subito ci chiedemmo: ma noi italiani, in riva al Don, in un villaggio di pescatori, ma cosa cazzo c'eravamo andati a fare? Ma la guerra, amici miei. L'infame guerra assurda che ci ha scaraventati nella vergogna e nel ridicolo e nel vassallaggio, che ancora oggi non ha avuto termine. E allora ci ritrovammo a leggere la storia di questi alpini. I nostri soldati italiani non sapevano nemmeno il nome del villaggio in cui si trovavano. Sapevano soltanto che il fiume di fronte al loro caposaldo era il Don, sapevano che per tornare a casa bisognava macinare mille o diecimila chilometri, qualcosa del genere. Sapevano, quando c'era abbastanza luce, da che parte stava l'est e da che parte stava l'ovest. Il resto, niente. Niente. Buio pesto.

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L'incipit di Rigoni faceva male nel 1953, ma fa male ancora adesso. È incredibilmente vivido. “Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò su le sue settantadue bombarde. Prima che i russi attaccassero e pochi giorni dopo che si era arrivati si stava bene nel nostro caposaldo”.

Secondo Affinati è “realismo integrale, non cronachistico, né stemperato in una cosmesi elegiaca”. E la lettura mi sembra decisamente indovinata, e condivisibile. Basti pensare, ad esempio, al ritratto del soldato piemontese Tourn, che si fumava la posta. La posta: parole scritte per dare speranza, senso e significato a ciò che non ne aveva più da un pezzo. La guerra. “Tourn, infatti, raccoglieva tutte le cicche, ne levava il tabacco e con le lettere che riceveva da casa 'per via aerea' faceva cartine. Lui così fumava sempre e faceva in modo che da casa gli scrivessero sempre 'per via aerea', per avere carta sottile”.

Rigoni Stern racconta ciò che leggeva nello sguardo dei suoi fratelli alpini: “vedevo la loro incertezza e il dubbio di essere abbandonati nella steppa: non sentivamo più i comandi, i collegamenti, i magazzini, le retrovie, ma soltanto l'immensa distanza che ci separava da casa, e la sola realtà, in quel deserto di neve, erano i russi che stavano lì davanti a noi, pronti ad attaccarci”.

Non ho mai visto un deserto di neve, forse in qualche film. Ma posso soltanto sperare che non ci siano più eserciti che vanno a sprofondare nei deserti di neve, perché qualche governo ha deciso di spedirli a conquistare la terra di popoli stranieri diventati nemici, millantando bugie cementate su falsi miti di grandezza, e alterando la realtà. È una speranza debole, bambinesca e ridicola, ma è ciò che mi rimane, ciò che è mi è rimasto di questa lettura. Assieme allo sdegno, e allo sconforto, e al freddo.

Il freddo non se n'è andato via mai, da queste pagine. Come da quelle del gran libro di Bedeschi. Freddo. E sangue.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Mario Rigoni Stern (Asiago, 1921 – Asiago, 2008), scrittore italiano, alpino durante la Seconda Guerra Mondiale. Esordì pubblicando “Il sergente nella neve” nel 1953.

Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve”, Einaudi, Torino 2008. Con uno scritto di Eraldo Affinati. 9788806193041

Prima edizione: Einaudi, 1953.

Gianfranco Franchi, febbraio 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.