Il segno del toro

Il segno del Toro Book Cover Il segno del Toro
Renzo Rosso
Mondadori
1980

Quinto libro di narrativa di Renzo Rosso, apparso a sei anni di distanza dalla raccolta di racconti “Gli uomini chiari” [Einaudi, 1974] e otto anni prima del velleitario e debole “Le donne divine” [Garzanti, 1988], “Il segno del toro” [Mondadori, 1980] è un romanzo allegorico e satirico, pretenzioso, apocalittico e fumoso. Commentava allora Giovanni Raboni: “[...] è in effetti una sorta di poliziesco, ma un poliziesco nel quale, al posto dell'enigma da risolvere, del colpevole da identificare, del meccanismo delittuoso da mettere in luce, ci sono presenze oscure e massicce, arcane e tangibili come figurazioni medioevali, i grandi miti e personaggi dell'inconscio individuale e collettivo”.

Qualche cenno alla trama. Da qualche parte, a nordest, c'è la cittadina di Reviago. Reviago è una cittadina con una storia singolare: laterale rispetto al resto della nazione, e alle “grandi valli delle transumanze umane”, è stata sempre estranea alle grandi proprietà, e alla servitù della gleba. Ha un suo peculiare equilibrio etnico, unico in Italia. Parecchi cognomi esistono soltanto da quelle parti – sono antichi patronomici, rarissimi. Celtici, forse. Chissà.

Il fiume Pleris ha straripato, e la cittadina di Reviago è stata sconquassata e ferita dall'acqua. Qualche morto – ma niente di catastrofico, non a livello di certi disastri italioti, figli di cemento selvaggio. Qualche morto e diversi danni. Quanto basta per richiamare indietro uno dei suoi figli, partito da un pezzo.

Massimo Noas, ventinovenne, aveva lasciato il suo paese da una decina d'anni, dopo la morte del padre. Nel frattempo aveva trovato ospitalità, lavoro e fortuna a Roma, in Rai, e da Roma aveva finito per viaggiare parecchio, come cineoperatore. A Reviago era tornato una volta sola, per un giorno soltanto, in tutto quel tempo. Come in un sogno. E adesso ritornava, richiamato dalla disgrazia, richiamato dalla sofferenza della sua città. Tornava, ed era un mistero per lui stesso perché avesse preso quella decisione così istantaneamente. Sembrava qualcosa di inevitabile. Massimo agiva come un predestinato.

“Capirsi non è che sia difficile; per me è praticamente impossibile, e ciò prima e dopo, senza o con equilibrio, ammesso che sia un problema. La lingua non serve, e il pensiero ha una taglia sproporzionata. […] Possedere una sensazione di sé: questo forse. Possederla? È semplicemente l'ombra di ciò che succede nella testa e attorno al corpo, quando funzionano da fermo e quando agisci; una specie di strascico” - avrebbe commentato, altrove, nel suo diario.

A Reviago, dopo l'alluvione, non erano finiti i guai. C'era, adesso, un vecchio toro rabbioso, malato d'una malattia misteriosa e nervosa, che seminava danni, e ammazzava persone; e c'era una nebbia fitta che tutto aveva coperto, velato e nascosto, agevolando le sue incursioni e la sua imprevedibilità. Secondo Domenico Porzio, quella nebbia simbolicamente “[...] è il labirinto della paura, un labirinto nei cui segreti camminamenti il toro conduce alla bellissima Cristiana, maga della foresta, diabolico 'centro della rete e del vizio'”.

Rosso architetta una fosca fantasia del ritorno, puntinata da un simbolismo malaticcio e stantio; “Il segno del toro” è un libro che si perde man mano che sprofonda nella pretesa rappresentazione dell'inconscio del protagonista, e dei suoi contrasti e dei suoi rimpianti e dei suoi rimorsi, per ripetute epifanie del male – nell'intento di plasmare una sorta di sentiero iniziatico che tuttavia non convince e non seduce, rivelandosi piuttosto lento e incresciosamente cerebrale. Siamo ben distanti dalle notevoli prove d'inizio carriera, quelle che lasciavano presagire un ben diverso futuro per Renzo Rosso: chi ha amato “L'adescamento” e “La dura spina” e apprezzato almeno l'intensità e l'oscurità di certi racconti degli “Uomini chiari”, finisce in questo frangente per restare abbastanza deluso da un risultato come questo – fenomeno destinato a ripetersi, purtroppo, per larga parte della successiva e rimanente produzione rossiana, con pochissime e vaghe eccezioni (come la derivativa “L'adolescenza del tempo”, 1991).

La sensazione è che, perduta Trieste, optato per Roma, Renzo Rosso abbia perduto non soltanto l'ispirazione, ma la consapevolezza del suo ruolo di letterato e di scrittore e della funzione della sua scrittura. E più è aumentata la distanza temporale da casa, più è diventata polverosa, pretenziosa e secca la sua letteratura. La scrittura è rimasta buona, o almeno dignitosa: ma è diventata come il tronco robusto e secco d'una pianta che non da più frutti, e di foglie ne mostra pochine, e fragilotte e leziose e giallicce – e quando uno si ritrova a guardarla pensa che le manchi l'acqua, o che le manchi il sole. In altre parole, pensa che sia sbagliata la posizione.

In questo libro è possibile pizzicare, senza forzare la mano, tutte le ombre figlie del rimorso di uno che aveva finito per vivere serenamente altrove, d'un lavoro abbastanza diverso da quello del romanziere, e che di casa, del suo microcosmo originario, della sua patria, beh – s'era come dimenticato: fino a confonderla nel sogno, fino a tingerla di sogno. Fino a coprirla di nebbia. E via dicendo. Ho come la sensazione che se Rosso fosse rimasto a casa la sua storia di letterato e di artista sarebbe stata ben diversa: basta leggere la storia dei suoi polverosi 36 anni in Rai (“Un passato intenso”, Azimut) per avere conferma che la nostalgia spesso bussava alla porta della sua anima. Invano, purtroppo.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Renzo Rosso (Trieste, 1926 – Tivoli, 2009), scrittore e drammaturgo triestino. Laureato in Filosofia con tesi su Antihegel e Hegel in Kierkegaard, fu dirigente RAI. Esordì pubblicando “L'adescamento” nel 1959.

Renzo Rosso, “Il segno del toro”, Mondadori, Milano 1980.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, agosto 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Romanzo allegorico e satirico, pretenzioso, apocalittico e fumoso.