Il pugile a riposo

Il pugile a riposo Book Cover Il pugile a riposo
Thom Jones
Minimum Fax
2001
9788887765380

L’esordio di Thom Jones, scrittore salutato in patria e altrove come erede di Raymond Carver, è una raccolta di racconti che si contraddistingue, fondamentalmente, per tre elementi: una naturale vocazione alla rappresentazione della violenza e d’una animalesca aggressività; una tendenza a normalizzare l’assunzione di farmaci e a quotidianizzarne e universalizzarne l’uso; una propensione a radiografare la miseria dell’umanità – colta più felicemente, per così dire, nel disfacimento fisico e nella descrizione degli umori e delle viscere.

Il pugile a riposo”, opera prima dell’ex marine, ex pugile, ex bidello ed ex copywriter americano, è testo nutrito dalla scoperta trasfigurazione delle esperienze biografiche dell’autore; che – a conferma di un citazionismo non sempre gradevole e talvolta piuttosto grossolano (da Dostoevskij a Kant a Schopenhauer, integrati con una disinvoltura da Reader’s Digest nel tessuto della narrazione), non mostra nessuna vocazione alla letterarietà; esibendo e anzi ostentando una lingua intrisa di precipitose cadute nel parlato, nella volgarità, nella trivialità. È uno stile grezzo e rude: sboccato fino alla coprolalia, e evidentemente compiaciuto della propria medianità, o della propria sciatteria. Medianità e sciatteria che – nel gusto di larghissima parte della critica occidentale – vanno costituendo un elemento di merito: si leggono, senza troppo faticare, elogi d’uno stile crudo e virile (or something like that), da “porto d’armi” e via discorrendo. Questione di sensibilità estetica o di maggior gradimento nei confronti di ciò che risulta più accessibile – questione di codice genetico d’una scrittura adatta, strutturata in rapidi racconti com’è, alla brutale frenesia del nostro tempo; che va precludendo e pregiudicando l’esistenza d’altra, più ampia e ricercata narrazione, regalando pagine pop dalla rapida interiorizzazione.

Bisogna tuttavia ammettere che in questa opera prima due racconti meritano – al di là della trasandatezza e della fastidiosa negligenza formale – d’esser segnalati. “Le luci nere”, terzo e ultimo racconto della prima parte, narra del ricovero in una struttura neuropsichiatrica del narratore, ferito in un incontro semiufficiale del corpo dei marines. Una lesione al lobo temporale ha fatto vedere, per la prima volta nella sua carriera, le luci nere al boxeur.

Il testo si distende con grande efficacia, per allucinazioni e crolli verticali del narratore in una realtà esistente soltanto nella sua mente; il racconto dell’abisso della malattia mentale è obiettivamente eccellente. Memorabili le righe dedicate all’apparizione d’un inesistente coniglio, ai piedi della branda del ricoverato; e apprezzabili le descrizioni dell’ambiente, e del malessere degli altri degenti. È una prosa claustrofobica e nervosa, solcata da inattese scintille di lucidità e da piacevoli rallentamenti.

Il racconto destinato a rimanere impresso nella memoria del lettore è probabilmente “Voglio vivere!”. È la storia massacrante della morte in vita d’una malata di tumore, e della sua discesa nel niente: tra riflessioni sul suicidio, sul disfacimento della propria esteriorità e improvvise reminiscenze dell’adolescenza e della giovinezza. È un testo scritto negando perifrasi ed eufemismi, speranza e fede: è il diario della fine atroce d’un essere umano, passo dopo passo.

Quel che turba, in Jones, è il distacco che si percepisce nell’osservazione del declino e della decadenza d’un corpo: e quando si riconosce che la stessa, glaciale e cinica misura stabilisce, altrove, la contemplazione delle piattole annegate nella tazza di un bagno, si rimane piuttosto interdetti. Narrare la morte d’un uomo e l’epilogo della parabola d’una piattola pretende diverso atteggiamento: ma la valutazione, qui, è in prima battuta etica; proprio perché si auspica che non sia esistito artificio nella descrizione d’un dramma assurdo che ha distrutto le esistenze di tante persone. Jones ha questa freddezza da killer – della scrittura, per carità –, da uomo che ha visto e compreso cose che il resto della specie non intenderà mai, e s’esprime con la crudezza del vecchio soldato segnato da un numero eccessivo di orrori, e un numero meno significativo di letture.

Proponiamo, per esemplificare, la riflessione di questo medico: “Secondo Darwin la specie vuole perpetuarsi, durare in eterno, all’infinito, ma noi la stiamo annacquando e degradando, lasciando sopravvivere i più deboli. Io sono più colpevole di chiunque altro, in questo. Ho pronunciato il giuramento di Ippocrate e ho fatto voto di rattoppare tossici, puttane e criminali violenti e di rispedirli per le strade a provocare ulteriore caos e distruzione nella vita loro e altrui. Cerco di non pensarci” (“Zanzare”, p. 119). Tra misantropia e barbarie, in uno stile non certo seducente: è il tono di chi cerca un altro pugile, meno “vissuto”, per scambiare qualche colpo e magari ritrovarsi finalmente al tappeto.

Vediamo invece come l’autore interpreta la psiche femminile, campionando questo frammento tratto da un monologo interiore d’una signora: “Che si fottano, quelle puttane maligne coi loro complotti, i sorrisetti e le scene di esasperazione. Una sola notte con Bocassio e il suo cazzo dritto all’azoto e si ritroverebbero a camminare sulle stampelle, con in faccia il sorriso rilassato e compiaciuto da vere figlie di puttana che segue una sana, bella scopata. Siamo animali, dopotutto, e scopare fa parte del gioco” (“Libera il mio cuore”, p. 131). Si poteva concludere con una bestemmia, magari articolata in due tempi, senza rovinare l’armonia del periodo. Non sembra d’ascoltare la voce d’una donna: si riconosce la forma mentis d’un pugile suonato. Piuttosto sgradevole, a lungo andare.

Non comprendo come si possa riconoscere grandezza a un autore del genere; né riesco a decifrare le cause che hanno spinto qualche critico a disturbare il nome di Hemingway. Però dico che, pur combattendo la nausea e l’irritazione, un libro almeno di Thom Jones va letto. Ed è probabilmente il libro che ho appena recensito. Questo perché è necessario prendere atto che c’è una legione di lettori e di letterati che riconosce bellezza, stile e intelligenza a una scrittura come questa: e se è vero che vi si resta intossicati, come è accaduto al sottoscritto, una ragione dovrà pur esserci. È uno scrittore velenoso e livoroso, nei confronti non dell’esistenza, ma dell’umanità tutta. I suoi personaggi non hanno luce, non hanno speranza, non hanno altra illusione che non sia quella di potersi godere qualche soddisfazione personale: sono creature che s’appagano di qualche furiosa scopata e di qualche farmaco – e non si comprende se il torpore delle loro esistenze derivi dal loro nichilismo, dalla loro resa incondizionata, o dalla loro irrimediabile sfiducia nei confronti dell’alterità.

Viviamo in un tempo estraneo all’eleganza stilistica; un tempo che non pretende conoscenza, rifiuta ogni ricercatezza, si mitridatizza alla bellezza e sporca d’ogni liquame l’umanità. La letteratura occidentale riflette un malessere esistenziale di una società che, stanca della decadenza, sembra domandare degrado e decomposizione. Questo tempo saturo di bruttezza e di cattivo gusto, di volgarità e di cinismo è ancora avido di merda e di animalità. Sogno che la letteratura non sia Cassandra. E che esista rimedio, e rinascenza. Intanto, rotoliamoci nel fango con Thom Jones, tra un uppercut e un jab.

La letteratura rappresentata da un pugile. Esecrabile, ma emblematico.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Thom Jones (Aurora, Illinois, 1945), scrittore americano.

Thom Jones, “Il pugile a riposo” Minimum Fax, Roma 2001. Traduzione di Martina Testa.

Prima edizione: “The Pugilist at Rest”, 1993.

Questo libro ospita tre racconti originariamente pubblicati sul “New Yorker”. È stato tradotto in quindici lingue.

Gianfranco Franchi, Luglio 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.