Terrarossa
2019
9788894845075
Elegante e frastornato, inquieto come un ragazzino, espressione di suprema letterarietà, prevedibilmente estraneo ai giochi di ruolo e ai balletti sgraziati della società, Sinigaglia ha uno stile cristallino, poliedrico e sinuoso che non si può equivocare; gronda reminiscenze e consapevolezza, è come uno scacchista che sfida contemporaneamente tre avversari su tre tavoli differenti, divertendosi a soverchiarli con tre strategie diverse; esordì pubblicando un quaderno pirotecnico, l'anfibio "Pantarèi" [SPS, 1985], parte trattato d'estetica, parte memoir del disagio di un uomo di lettere, trentenne, parte cronaca di un deragliamento matrimoniale (sentimentale, in genere), forte dell'ambizione di dimostrare, nel romanzo, che il romanzo non era morto ("la cosa mi seccava"), come da più parti si andava ripetendo.
Il libro – completato nel 1980 – era stato per tre anni in cerca di editore: in quel periodo "fu letto, apprezzato, lodato e respinto da – praticamente – tutti gli editori del tempo, che era in Italia un tempo di case editrici numerose, grandi, medio-grandi e medie. Le ragioni degli elogi erano chiarissime, quelle dei rifiuti vaghe o, quando precise, insensate. Ragioni irragionevoli, insomma", ha raccontato Sinigaglia in un'intervista di pochi anni fa a Giovanni Turi: infine s'era accasato col piccolo e misconosciuto SPS.
A 34 anni di distanza, "Il pantarèi" è tornato a disposizione del pubblico, ripulito da "qualche errore materiale, qualche sbavatura grammaticale, qualche leggerezza lessicale”, la punteggiatura, qua e là, razionalizzata [Terrarossa, 2019; euro 15,50, pp. 316; collana "Fondanti"]; Alessandro Beretta ha apprezzato "l'affascinante esercizio proustiano di uno scrittore di prim'ordine"; Fulvio Panzeri l'ha definito "uno degli esiti migliori di quella stagione letteraria"; Giovanni Turi l'ha ospitato nella sua Terrarossa, nella collana dedicata ai recuperi (quarta uscita; sin qua, il più apprezzabile era stato "Il cadetto" di Cosimo Argentina, soprattutto per l'argomento, al limite tondelliano di "Pao pao"). "Il pantarèi" è tornato e – scrivendone nel 2019 – sappiamo che nel corso di questi 34 anni Ezio Sinigaglia [Milano, 1948], già redattore polivalente, traduttore [ufficialmente, Julien Green, Charles Perrault, Proust; ufficiosamente, "indicibile"] e fotocompositore, ha pubblicato soltanto un altro romanzo ("Eclissi", Nutrimenti, 2016) mentre parecchio altro è rimasto nei cassetti, incompiuto o giù di lì: "Se gli scrittori numerassero i loro lavori come sono soliti fare i musicisti e Il pantarèi fosse il mio opus 1 (con conseguente damnatiomemoriae degli insulsi scritti giovanili), Eclissi sarebbe come minimo l’opus 10, trascurando una notevole massa di opere incompiute e un paio di lavori in corso. Non è forse moltissimo, e sarebbe stato sicuramente di più se non avessi dovuto scrivere tante altre cose per sbarcare il lunario, ma a conti fatti non è neppure poco. Non ho ragione di lamentarmene, e ormai ho smesso di rammaricarmi anche della sfortunata sorte toccata al Pantarèi, che certo meritava qualcosa di più dei venticinque lettori che ha avuto”, ha riferito l'artista. I filologi, negli anni a venire, avranno il loro bel daffare.
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Prologo. Daniele Stern, dignitoso poligrafo inoccupato, nemmeno trentenne, sale al Tempio della Sapienza, nella Fabbrica instancabile di Cultura. È atteso dalla redattrice Ghiotti; balla, forse, una correzione di bozze, o al limite qualche revisione specialistica. Stupore, stavolta si tratta di qualcosa di meglio: c'è il settimo volume di un'enciclopedia della donna che deve andare in composizione, entro sette giorni, no?, ecco: c'è un intero capitolo, quello dedicato alla letteratura, che va riscritto, e prima possibile ("sono solo quaranta pagine") limitandosi (si fa per dire) al Novecento e al romanzo. C'è addirittura una scaletta. Facile, dai. "Accetto, pensava Stern, accetto tutto". Mezzo milione di lire in tasca (e può andarsi a comprare le sigarette, sbarazzino, e le Clark; cammina con le scarpe nuove e trova una nuova andatura), e una scaletta. Teoricamente, da tenere ben presente, come un portolano. Una scaletta. La questione diventa subito cosa cambiare: va tolto Thomas Mann, per antipatia, mantenuto il dottor Céline ("non per il cosa, per il come"), Proust come pietra angolare, Faulkner come diversivo, e niente: ragionare, stabilire un respiro, con spietatezza euclidea procedere alla dimostrazione dell'assunto. "Ogni cosa procederà dalla precedente procedevolmente. Immancabile come la nota risolutiva che placa la tensione della sensibile. Tutto sarà così necessario e logico che a chiunque parrà di averlo saputo da prima. Bacco e Tabacco scioglieranno le dita di Stern. Venere, ahimè, non è propizia". Alè: i tasti della macchina da scrivere, docili, picchiettano. Sulla psicanalisi come additivo di certi romanzieri. Sulla frantumazione dell'ordine cronologico degli avvenimenti. Sulla sparizione dell'autore onnisciente. Sulle spericolate (fino al nonsense) invenzioni linguistiche di Joyce, sulla coscienza malata e borghesona di Zeno. È un lavoro come un altro, in apparenza, nonostante la suprema presunzione richiesta – e non è male. E tuttavia Stern è incandescente di letterarietà – a un tratto può sentire nausea di quella scrittura e di quella giostra, perché deve sprofondare in un romanzo, forse paradossalmente: non sa da dove cominciare e tuttavia forse il cammino è già intrapreso. Serve stare attenti a dove si cammina, a come si cammina.
Anna dice che è un vigliacco – che vive evitando le responsabilità. Un giorno s'è stufata e si sono separati. Stern aveva gusti versatili – era sregolato. Adesso Anna ha un amante. Daniele anche, volendo, prima uno poi un'altra – tuttavia sembra preferire nutrirsi di solitudine; cede all'amara mistica dell'abbandono, più volte si tinge di crepuscolarismo. Ogni tanto, volutamente, sogna. Fermiamoci qua, scrivo troppo a ridosso dall'uscita.
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In copertina, un'illustrazione di Francesco Dezio – una vecchia macchina da scrivere. Non è una scelta oziosa né didascalica: quell'immagine serve a ricordarci in che epoca è stato scritto questo libro (tecnologicamente parlando, letteralmente un altro mondo: quello nel quale è nato anche chi scrive questo pezzo), quanto diverso fosse scrivere in quel modo (quanto più faticoso, fisicamente e non solo, quanto più costoso, in genere, quanto rumoroso, in assoluto), quanto diverso raziocinio imponesse (agli articoli: alla narrativa: alla saggistica). Naturalmente, c'è più di qualche scena nel romanzo oggi impensabile proprio per via della sostituzione (collettiva) delle macchine da scrivere; una notturna e gustosa, in particolare; ciò costituisce una ragione di ulteriore valore storico-documentaristico. "Il pantarèi" va, nelle vostre biblioteche, a dare lustro agli artisti laterali, fraintesi e tuttavia potenzialmente seminali del Novecento italiano: editorialmente, sarebbe stato divinamente nella vecchia "Novecento italiano" di Davico Bonino, in ISBN, e - ça va sans dire – in Adelphi, con sofisticata bandella di sua maestà C., a giustificare l'occasione perduta 34 anni fa (e adesso, forse, di nuovo, per la seconda volta: vai a sapere). Plauso alla sensibilità estetica e al gusto di Giovanni Turi, che ha forse trovato il portabandiera per la sua collana "Fondanti".
Gianfranco Franchi, febbraio 2019.
Per approfondire: rassegna stampa / giovanni turi [dietro le quinte] / crapula [intervista con girimonti greco]
EAN: 9788894845075
A Giuseppe, grato
A 34 anni di distanza, “Il pantarèi” è tornato a disposizione del pubblico, ripulito da “qualche errore materiale, qualche sbavatura grammaticale, qualche leggerezza lessicale”, la punteggiatura, qua e là, razionalizzata [Terrarossa, 2019; euro 15,50, pp. 316; collana “Fondanti”]; Alessandro Beretta ha apprezzato “l’affascinante esercizio proustiano di uno scrittore di prim’ordine”; Fulvio Panzeri l’ha definito “uno degli esiti migliori di quella stagione letteraria”…
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