Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre

Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre Book Cover Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre
Martin Pollack
Bollati Boringhieri
2007
9788833917481

Magris ha scritto che questo romanzo è un piccolo gioiello che può appassionare lettori molto diversi tra loro: lo studioso che va a scoprire la storia degli attriti nazionalistici tra sloveni e austriaci nella Krajna, e del successivo ingiusto esilio degli austriaci, e il profano che va ad appassionarsi alla storia della famiglia dell'autore e a tutti i suoi intrecci storico-politici, come se si trattasse d'un giallo. “Il morto nel bunker” è effettivamente un romanzo stratificato: da un lato parla alle coscienze di tutti gli europei, raccontando la tragedia d'un figlio che torna sulle orme del padre e della sua carriera da ufficiale nazista, macchiata da responsabilità atroci e incancellabili; dall'altro parla alle coscienze di tutti gli europei democratici e sensibili, estranei alle ideologie totalitarie, disposti a riconoscere la pulizia etnica e la costrizione all'esodo delle popolazioni autoctone, per mano partigiana socialista, non soltanto nell'Istria Costiera, a Fiume e a Zara, ma anche in quelle cittadine storicamente tedesche, come Marburg (oggi Maribor) la cui storia è stata spazzata via con crudeltà non diversa da quella nazista. Per questo, “Il morto nel bunker” è un romanzo fondamentale: soprattutto per quanti, in Italia, dubitano ancora delle efferatezze compiute dai titini in quella che sarebbe divenuta – per poco tempo – la “Jugoslavia”. Una nazione nata nella menzogna, e collassata in quella stessa menzogna, qualche decennio più tardi, insanguinando l'Europa.

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2003. Lo scrittore austriaco Martin Pollack, classe 1944, parte insieme a sua moglie per un viaggio nel Sudtirolo. Non si tratta di turismo. Partono per cercare il bunker in cui il padre dell'artista era stato ritrovato ucciso nel 1947, due anni dopo la fine della guerra. Pollack aveva soltanto tre anni. Suo padre si chiamava Gerhard Bast, era un ufficiale delle SS sin dal 1932. Era nato nell'antica cittadina tedesca di Gottschee (oggi “Kočevje”, Slovenia), tremila abitanti, dodicimila in tutto nella provincia, etnicamente ripulita dai partigiani titini nel 1945, prima coi massacri poi con la classica costrizione all'esodo.

Bast, giurista, era stato a capo della Gestapo di Linz. Bast era uno di quelli che eseguiva con cinismo e con freddezza qualsiasi ordine; non importava quanto fosse spietato o omicida. Importava fosse portato a termine. Questo fa soffrire infinitamente suo figlio, che indaga sulla condotta paterna con onestà e rigore, e con un malessere attenuato soltanto dalla sua enorme dignità di cittadino libero e democratico. Ma intanto Pollack racconta la storia di Gottschee, paese tedesco in cui si parlava un dialetto molto antico, incomprensibile addirittura per chi veniva da Laibach-Lubiana: appena sessanta chilometri di distanza, una buona minoranza tedesca anche da quelle parti. A Gottschee erano orgogliosi di parlare solo in tedesco, e mai in sloveno. Dopo il 1941, fu ceduta dai conquistatori hitleriani all'Italia, assieme a Lubiana: gli abitanti però non se ne andarono. Se ne sarebbero dovuti andare qualche anno più tardi, drammaticamente. E senza consolazione, e senza promessa di ritorno. E senza commozione da parte del mondo. Non era più lecito, quel dolore. Doveva sbiadire. E poi sparire. Pollack racconta che solo pochi decenni prima, fine Ottocento, primi Novento, “quando gli sloveni ribadivano per la propria lingua il diritto alla parificazione e richiedevano a Cilli (“Celije”) e Marburg (“Maribor”), le due più grandi città della Stiria, cartelli stradali bilingue, venivano ingiurati come sobillatori sorabi o pervaken, un termine preso in prestito dal dibattito interno tra sloveni – prvaki erano chiamati ironicamente dai liberali sloveni i conservatori, perché volentieri si atteggiavano a primi, prvi, e a leader” (p. 26). A quei tempi si guardava alla Germania pieni di speranza: Guglielmo di Prussia, a differenza di Franz Joseph, non era “traditore”, “amico degli slavi, dei cechi e degli sloveni” (p. 29). Finita la Prima Guerra Mondiale, tuttavia, a Marburg accadde quel che sarebbe successo a Pola, trent'anni dopo: la popolazione tedesca manifestò, di fronte alla delegazione americana, per dimostrare che la città era austriaca, per gridare che mai sarebbero potuti essere slavi. Gli slavi spararono sulla folla, per ostentare la loro forza. Tredici morti, per mano slovena. Era il 27 gennaio 1919, “giornata di sangue a Marburg”. Oggi in pochi sanno che Maribor non era niente affatto slovena, e non aveva nessuna intenzione di diventarla. La storia creativa (in salsa rossa) ha cancellato la verità.

Peccato, non ci piove, che quando i nazisti occuparono la Stiria inferiore (1941), “decine di migliaia di sloveni vennero evacuati, chi si opponeva finiva nei campi di concentramento e poi giustiziato” (p. 35): questo costituì il precedente, questa fu la giustificazione delle future violenze slave. Già, non fu l'unico massacro. Sicuramente non il peggiore. I partigiani di Tito erano, come noi italiani ben sappiamo, mostri d'odio. In nome del socialismo nascondevano smania di pulizia etnica e ideologica. A un tratto, Pollack ci accompagna dalle parti del Sepolcro di Kren, una dolina della foresta di Gottschee. Una tomba di massa, in pieno stile socialista balcanico: “In questo luogo giacciono migliaia di soldati dell'esercito nazionale sloveno, che vennero qui uccisi dai comunisti nei primi giorni di giugno del 1945 (…). Quando nella primavera del 1945 davanti ai partigiani di Tito i soldati della Wehrmacht fuggirono dai territori sloveni verso la Carniola, tra alleati locali e nemici dei comunisti si unirono a loro decine di migliaia di cetnici serbi, ustascia croati, domobranci sloveni, molti con la famiglia. I partigiani li uccisero senza alcuna pietà, indifferenti al fatto che si fossero macchiati o meno di sangue” (p. 45). Tito festeggiò: “Solo una piccola parte dei traditori è riuscita a scappare dalla 'nostra' terra”. Si trattava, ribadisce Pollack, di una “sanguinosa campagna vendicativa”.

Nessuno sa quante persone siano state uccise. Secondo il poeta sloveno Drago Jancar, soltanto a Kocevksi Rog i comunisti infoibarono 14mila persone: donne e bambini inclusi. Che aspettiamo ad aggiornare i libri di storia? Che aspettiamo a scrivere a chiare lettere che Tito è un criminale proprio come Stalin? Che aspettiamo ad ammettere che è vergognoso che i nostri partigiani si siano alleati con quell'assassino? Che aspettiamo a riconoscere che sul confine orientale non s'è combattuta la Resistenza in nome dell'Italia, ma in nome del socialismo, in nome di Mosca e di Belgrado? A chi è scomoda, questa verità? A che serve ancora nasconderla, sessantacinque anni dopo?

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Immagino quanto sia stato doloroso per Pollack, grande esperto di slavistica e di storia della cultura dell'Europa Orientale, dover tornare alle proprie origini – come un salmone – e mettere ordine e dare luce a tutte le verità. Sono tutte verità scomode. È scomodo e orribile pensare al proprio genitore come a un ufficiale nazista sporco di crimini contro l'umanità; è scomodo e triste sapere che la storia della propria famiglia venga da una terra che è stata perduta con vergogna durante lo scorso secolo. È scomodo e triste che di questa storia non sappia niente nessuno, perché è faticoso dover raccontare la verità quando per decenni certa cultura egemone e certa propaganda ha spacciato menzogne per verità. È scomodo essere artista ed essere figlio d'un nazista. È scomodo essere democratici e dover riconoscere le atrocità dei partigiani. È scomodo ancor più quando hanno disgregato la storia e le case dei propri avi.

È servita una forza interiore e una carica emotiva impressionante, oltre a una robusta documentazione, per sprofondare nel passato e riemergerne vivi. Come lettori siamo riconoscenti, come letterati siamo pieni d'ammirazione.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Martin Pollack (Bad Hall, 1944), scrittore austriaco, vive a Vienna. È considerato un grande esperto di slavistica e storia della cultura dell'Europa Orientale. Ha collaborato con “Der Spiegel”.

Martin Pollack, “Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre”, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Traduzione di Luca Vitali. Quarta di Claudio Magris. Collana “Varianti”.

Prima edizione: “Der Tote im Bunker”, 2004.

Gianfranco Franchi, febbraio 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.