Il compagno

Il compagno Book Cover Il compagno
Cesare Pavese
Einaudi
1947
9788806189273

Incontriamo Pablo, protagonista del romanzo, nel momento della rottura d’un equilibrio che giureremmo, altrimenti, sarebbe stato assai più duraturo: l’equilibrio di un’esistenza tanto anonima e lineare da risultare inquietante, quella di un ragazzo che, negli anni del regime fascista, viveva galleggiando, per così dire, sulla superficie profonda di giornate trascorse tra un negozio di tabaccheria, osterie e chitarra.

Pablo capisce che quella vita ha avuto termine quando il suo unico amico, Amelio, perde l’uso della gambe dopo un incidente in moto. Amelio era, e aveva, quella vita che Pablo contemplava e lasciava scorrere senza incidere mai: senza neppure il distacco di chi osserva la (le) realtà perché cosciente di non voler o non poter influire; semplicemente, Pablo respirava.

Amelio era l’uomo pieno di donne: Pablo quello che neppure ne sentiva bisogno. Amelio era la figura magnetica che tutti attraeva e divertiva: Pablo poco più d’una corda della sua stessa chitarra. Dalle descrizioni di Pablo, narratore in prima persona delle vicende, un dettaglio emerge con irrefutabile nitore, stagliandosi su diversi altri elementi: in compagnia, ovunque egli fosse, era semplicemente non “il chitarrista”, ma “la chitarra”. Neppure ornamento: strumento.

Se l’adesione di Pablo all’oggetto simbolico che lo rappresenta risulta addirittura simbiotica, nel caso di Amelio la situazione è differente: la moto è simbolo che evoca e rappresenta la sua straripante vitalità, la sua indipendenza, il suo fascino. Amelio perde l’autonomia e la libertà nel momento in cui aderisce simbioticamente all’oggetto simbolico: Pablo inizia ad avventurarsi sul faticoso sentiero della presa di coscienza di sé e dell’alterità nel momento in cui se ne allontana. Amelio interrompe il cammino della sua antica esistenza per diventare un altro uomo: Pablo, invece, sembra avviarsi alla vita con l’arroganza, l’incuria e l’incertezza di un adolescente.

Dalla notte dell’incidente, per qualche giorno smette di suonare: e sembra interrogarsi sul malessere che lo sta assillando, senza riuscirne a venire a capo. Va a trovare l’amico, in ospedale, non appena egli torna a riconoscere i compagni e le tante amanti. È allora che Pablo imbraccia la chitarra: non più per divertire una compagnia, non più per “incarnare uno strumento”; ma per sublimare il dolore dell’amico, per attestargli la sua vicinanza. Amelio si lascia crescere la barba, e si attacca spesso alle bottiglie. Tra le amanti di Amelio, c’è Linda. Linda era in moto con Amelio, quella notte. Uscivano assieme da un anno. Qualcuno diceva che si divertivano troppo, si spettegolava d’una debolezza per l’alcol che poteva diventare pericolosa. Pure, Linda era uscita senza neppure un graffio dall’incidente.

Linda sembra interessarsi molto a Pablo. Parlano di musica, di serate da passare assieme: e il clima giocoso non dura molto. Poco a poco, si ritrovano a ballare, fianco a fianco, a diradare qualche timido senso di colpa e a riconoscersi come simili. Amelio intuisce, e neppure pretende di sapere. Lascia che sia. Sembra aver maturato distanza dal passato: non in modo indolore, certamente. Ma lo sguardo, adesso, è rivolto altrove. Al cuore della società e del sistema italiano, corroso dall’infame potere d’un regime assassino.

Pablo è ancora rapito dalle schermaglie amorose con la ninfetta Linda, che sempre meno nasconde le sue frivole amicizie e nulla fa per evitare che si dubiti che volgari individui come l’avido Lubrani, losco e abietto traffichino, possano corteggiarla – o che abbiano già avuto successo nella (semplice) impresa. Il chitarrista decide di dare una svolta alla sua esistenza: va a lavorare nell’officina dell’ex capo di Amelio, rimanendo fedele al modello. La donna e il lavoro di Amelio adesso “appartengono” a Pablo. Da creatura in simbiosi con una chitarra a irrequieto replicante d’un modello sfortunato: sempre, apparentemente, per istinto. Del resto, nel corso di uno dei primi dialoghi, in ospedale (cap. II, pag. 15) questo s’erano detti Amelio e Pablo – l’uno a indottrinare, l’altro a farfugliare.

Non hai voglia di donne?”. “Non è stagione” – dissi – “Stai senza tu, posso star io”. “Quella specchiera, - disse – sembra di stare al cinema”. “Io vorrei che le donne mi cercassero loro, - dissi – starmene a letto come te. Lasciarle fare. Tanto è lo stesso”. Amelio si guardava lassù, senza rispondere. “Non lavori, non cerchi ragazze, – diceva – sei giovane. E hai la faccia contenta”.

In questo frangente mi sembra notevole l’apparizione della specchiera. In un dialogo che sembra una prima, sommaria trasmutazione di anime e di sentimenti, il malato, nell’atto di trasmettere “se stesso” all’amico, osserva lo specchio. Gli sembra di guardare la scena come al cinema: non ha nulla di reale. Perché non può parergli reale rinunciare a sé e “consegnare” la sua volontà e la sua vecchia vita al ragazzotto. Che forse neppure capisce: ma esegue, da perfetto emulatore.

La liaison tra Linda e Pablo ha il sapore della ricerca d’uno spettro d’un amore perduto negli occhi di lei, e l’aspetto della prima intossicante e meravigliosa cotta per lui. Lei gioca e presto s’annoierà. Pablo s’affida all’emozione della scoperta della femminilità, e fatalmente si scotta. Efficace questa immagine, colta altrove (cap. X, p. 70): “Avevo un gatto dentro il sangue, che graffiava”. È semplicemente il primo solletico della vita. Amelio, ad un punto, scompare: si trasferisce coi suoi, “pianterreno e negozio chi sa dove”. Linda, inaspettatamente, molla Pablo per Lubrani. Che è figuro astuto e pronto a tutto, per ambizione. Pablo s’ubriaca per un mese di fila. “C’era un piacere di sentirsi a terra, di esser come schiacciato e non cedere”, afferma (cap. XI, p. 77).

Così, accecato dall’inerzia e appena orecchiante dei moti rivoluzionari e antifascisti, senza troppo riflettere parte per Roma, convinto da chi gli insegna che “Roma è tutta osteria, e ci fa sempre sereno”. (cap. XI, p. 79). Giunto a Roma, conferma: “Così andavamo all’osteria, ed era vera la parola di Carletto che tutta Roma è un’osteria e ci si vive” (cap. XII, p. 84). Come chitarrista, crede. Non mancano osservazioni brillanti sulla città eterna. Appena s’accorge che gli stradini possono bollire il catrame, come nel suo avanzato Piemonte, afferma: “Anche Roma è un paese civile” (cap. XII, p. 81); ma l’acme lo raggiunge il suo amico Carletto, che osservando i muratori all’opera sbotta: “Anche a Roma lavorano” (cap. XII, p. 83). Queste constatazioni rivelano con discreta efficacia la disarmante ingenuità dell’ancora imberbe Pablo. Avrà riscatto?

Senza ombra di dubbio. E questo riscatto riesce a sollevarlo dal dispetto che ha fino a questo momento sollevato nel lettore. Scosso dalla quotidiana convivenza con antifascisti, risvegliato da discrete letture, inizia a pensare.

Tornando a casa ci pensavo, e cercavo di mettermi al posto di chi riceveva quei fogli. Che cosa avrei detto leggendo che tutti rubavano, che bisognava tener duro e non tradire gli italiani, che tutto il mondo ce l’aveva coi fascisti. C’era chi le scriveva e rischiava la pelle. I miei stradini le dicevano in bottega. Non capivo il bisogno di scriverle e farsi prendere. Non capivo che gusto Carletto ci provasse. Quando arrestavano qualcuno con quei fogli, eran felici. Lo diceva anche lui. Glieli leggevano sul muso, e poi botte. Valeva la pena?” (cap. XIII, p. 91).

C’è chi gli insegna che il marxismo è “vedere le cose, e provvedere” (XIX;p. 127): libri clandestini raccontano chi fossero in realtà i fascisti (XV, p. 103): per i vicoli e per le botteghe, i lavoratori organizzano la resistenza. Dopo qualche febbrile colloquio, nel corso dei primi contatti, Pablo si trova, senza neppure rendersene conto, incarcerato: è un ragazzo semplice. Orgoglioso di sentirsi compagno, però: ancora una volta, come dire, “spontaneamente”.

La vera soddisfazione la sente arrivare quando scopre che anche Amelio è stato imprigionato. Per altra via, ha realizzato una prima convergenza con il suo modello: senza che sia derivata da un’imitazione. Pablo esce dal carcere, firmando distrattamente qualche carta. Non è allora un caso che il libro si concluda con la parola “notte”.

Il compagno” fu pubblicato nel 1947. Inaugurò la collana “I coralli” delle edizioni Einaudi. Il manoscritto è datato 4 ottobre – 22 dicembre 1946. Il primo nucleo dell’opera si può probabilmente riconoscere nel racconto “Fedeltà”, composto nel 1938 e pubblicato postumo.

(…)L’autore (…) ha immaginato in questo libro un giovanotto piccolo borghese e incolto – qualcosa di peggio che un proletario – e l’ha messo di fronte a certe realtà. La vicenda non è esemplare, tutt’altro. Questo giovanotto ha le sue idee, i suoi privilegi, le sue libertà, suona persino la chitarra. Le sue avventure non dimostrano nulla. L’autore lo sa. Sono le avventure di Pablo. L’autore crede che un racconto non possa mai dare altro che le avventure di Pablo. Il mondo è pieno di Pabli, tutti diversi e tutti intenti a scoprire le cose. Che ciascun narratore ci dia conto di qualcuno di loro; quelli bravi ce ne allineino magari parecchi, in tanti bei racconti diversi. Penseranno poi i posteri a scegliere e decorare i più duraturi, e magari a trovare in uno solo di loro il campione del secolo” (Cesare Pavese – frammento tratto dalla “schedina” della seconda edizione del romanzo. 1949).

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino, 1950) scrittore italiano. Laureato in Lettere con una tesi “Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman”, all’attività di romanziere e poeta affiancò quella di saggista e traduttore e fu tra i fondatori della casa editrice Einaudi.

Cesare Pavese, “Il compagno”, Einaudi, Torino 1968.

Prima edizione: “Il compagno”, Einaudi, Torino, 1947.

Gianfranco Franchi, gennaio 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.