I morti del Carso

I morti del Carso Book Cover I morti del Carso
Veit Heinichen
e/o
2011
9788876419966

Veit Heinichen, classe 1957, è un giornalista e uno scrittore tedesco, triestino d’adozione. Vive nella città giuliana da diversi anni, e là ha ambientato le indagini del suo ispettore, Proteo Laurenti. Veit Heinichen è diventato – mi sembra di capire – una sorta di nuovo ambasciatore di Trieste nell’area mitteleuropea di lingua tedesca; dai libri del suo ispettore Laurenti sono derivati dei film tv, non ancora tradotti da queste parti. Senza dubbio, così la bella Triest può tornare a essere guardata con languore e malinconia: del resto, per sei secoli è stata il porto sull’Adriatico dell’Austria. Non pochi.

La ragione della mancata traduzione in italiano dei film tv potrebbe essere semplice: Trieste, grazie al cielo, è una città particolarmente (o almeno: abbastanza) civile e piuttosto estranea alla cronaca nera. Sondate la vostra memoria: ricordate fatti di sangue emersi a livello nazionale, negli ultimi trent’anni? La risposta è no. Addirittura, nel nordest il serial killer s’accontenta – per così dire – di mutilare e spaventare, senza uccidere: Unabomber, peraltro, a Trieste manco arriva. Tra le particolarità della urbs fidelissima degli Absburgo, c’è quello d’aver mantenuto un certo grado di civiltà e vivibilità. Leggere, per un triestino, d’un attentato dinamitardo a Contovello, con tanto di casa esplosa e famiglia cancellata, suona equivalente alla notizia d’una visita dell’anziano Papa di turno con bagno – e “clanfa” (tuffo) a volo d’angelo – al Molo Audace. Heinichen dovrebbe saperlo, ma i suoi connazionali probabilmente no. L’Italia è patria di commissari letterari, sempre invischiati – quale che sia la Regione, quale che sia la cultura – in atroci fatti di cronaca nera, clamorose indagini, complesse e contorte vicende plurigenerazionali. Heinichen ci gioca, dà una robusta spruzzata di politica (naturalmente, schierata e faziosa) e il gioco è fatto. Bora nera! Che suono.

Non sono appassionato di noir, sono un letterato e amo la letteratura pura. Non mi interessa la narrativa di genere, non credo nella ripetizione di schemi, cliché, intrecci – unica variante, l’ambientazione. Perché sono arrivato a questo libro di Heinichen? Perché, con buona pace di quanto afferma nel suo libro, la mia è una di quelle famiglie che a Trieste appartiene, e da secoli. Non siamo “immigrati”, siamo piuttosto stati costretti a “emigrare” a Roma nella seconda metà del Novecento. Ma a Trieste torniamo, e guardiamo sempre con amore e preoccupazione, e nostalgia. Sono arrivato a questo libro perché si parlava di casa mia, e qualcuno scriveva di questa città integrandosi quindi in una letteratura caratteristica (a partire almeno da Scipio Slataper e da Weiss) e unica nella Storia della Letteratura Italiana: la città di Saba, Svevo, Magris, Stuparich, Rosso, Karlsen, Nacci, Tomizza (d’adozione), Covacich e via dicendo è una città letteraria per antonomasia, con un proprio ricco e contrastato dna, e diversi interpreti. S’aggiunge Heinichen.

Detto del suo talento di potenziale assessore del turismo, con particolare sensibilità per i germanofoni, ammesso il nullo interesse per l’intreccio della sua storia di bombe a Contovello, popolose foibe e contrabbando, riconosciute quindi e in primis le attitudini editoriali e commerciali e non letterarie dell’opera, passo a quel che m’ha interessato. Ossia, le apparizioni di Trieste, la sua lettura in salsa Heinichen, l’immagine della città e le incursioni nella sua storia.

Partiamo dagli scorci. Heinichen è molto esperto dei bar e dei caffè della città: questo è un buon segno, perché quel che scrive del Tommaseo, del San Marco e dell’Illy corrisponde al vero. Sono tre punti di riferimento con storie diversissime (l’assessore Heinichen non dimentica che Illy è il miglior caffè del mondo), popolati e frequentati diversamente dai cittadini e salutati comunque come micro-istituzioni cittadine. Heinichen è stato un buon osservatore dello sviluppo della città: le annotazioni sull’invasione cinese sono un subplot interessante, e presto accantonato. L’autore ha appuntato diverse dinamiche notevoli: dalla tecnica d’acquisto dei negozi, con banconote fruscianti e convincenti piazzate sui banconi, al mistero dei funerali (sembra che i cinesi non muoiano), dalla facile circolazione di documenti falsi (alla frontiera, tutti i cinesi sono uguali) sino al mistero sulle reali fonti di reddito degli invasori del Borgo Teresiano, oggi Chinatown. Il suo Laurenti parla di estorsione, lavoro nero, riciclaggio, documenti falsi, bische clandestine.

Heinichen è affascinato dai contrasti in seno alla città. L’ispettore reputa – bontà sua – AN un partito fascista, e giudica l’italianità di Trieste un falso mito, dannoso per l’equilibrio e lo spirito della città. Non di rado ridicolizza e bastona chi s’oppone al bilinguismo, chi saluta a braccio teso la patria e via discorrendo. Qui il discorso si complica molto. Per prima cosa, l’unicità – se preferite, l’atipicità – di Trieste, non solo per la particolare posizione geografica ma per la sua storia, in particolare quella contemporanea, s’esprime in una situazione politica locale che al nostro sguardo suona estrema, grottesca, indecifrabile o poco realistica. Non stupisce che Heinichen veda fascisti ovunque, perché probabilmente qualche fascista c’è. Anche laddove crediamo e sappiamo non ne esistano più da un pezzo, ossia in un partito filo-berlusconiano e quindi filo-socialista, e addirittura filo-angloamericano. Altro che fascista: liberista e capitalista e americano. Heinichen insiste su questi “fascisti” e noi che non viviamo a Trieste non dobbiamo sorridere: probabilmente, a certi livelli, può essere così. Laddove si facciano coincidere – meglio: si vogliano far coincidere – “fascismo” e “rivendicazione dell’italianità”, allora le categorie di Heinichen sono vincenti. Naturalmente sono semplificazioni incresciose, antistoriche; ben altra era la tradizione liberale e patriottica, cfr. Spadaro-Karlsen, proprio tra 1945 e 1953: tutt’altro che fascista. Ma questo il nostro nuovo assessore al turismo in pectore forse non ha voluto raccontarlo. E sia. Tanto parla in primis ai tedeschi… e quando parla agli italiani, può andar certo che parla a un branco di ignoranti. Figuriamoci. Andiamo addirittura ancora a votare… Curiosamente, non si percepisce distanza eccessiva tra i partiti AN e Forza Nuova, nelle letture di Laurenti. Sembra solo che Forza Nuova sia un po’ più radicale, perché contatta Irving per un convegno che non avverrà mai.

Le foibe sono un dramma che va raccontato per bene – con la scusa dell’intreccio del noir. Heinichen dapprima si premura e si cautela: non solo italiani innocenti, colpevoli solo dell’italianità, sono stati lanciati in quei luoghi. Era una buona abitudine, partigiana, fascista, nazista, titina, della prima guerra mondiale, addirittura degli omicidi tra concittadini, magari per ragioni occasionali. A sentire Heinichen, da quelle parti ci piace infoibare il nemico, da sempre. E chiunque passa da quelle parti approva il costume locale, meglio se in epoca di guerra. Ammetto di non avere chiara memoria, nemmeno genetica, di questo uso generalizzato e secolare, triestino e istriano, civile e militare: ma non escludo che le fonti dell’autore possano illuminarmi in proposito.

Fermo restando la questione dell’esodo dei 300mila e delle migliaia di infoibati, che Heinichen comunque non smentisce, l’autore – con intelligenza – ci ricorda che tanta violenza non nasceva per caso. Ricorda l’incendio della casa della cultura slovena, il Narodni Dom, nel 1920; e la pronta emulazione in quel di Pola. Ricorda cosa avvenne quando Mussolini proclamò la provincia di Lubiana: “I fascisti vietarono di parlare in sloveno e in croato, scuole, banche e imprese slovene furono chiuse. Con inflessibile durezza tutti i nomi slavi vennero italianizzati e la messa in sloveno fu proibita, dopo che il Vaticano ebbe sostituito i vescovi slavi con quelli italiani. Ogni uso di queste lingue nella sfera pubblica era passibile di pena, bisognava tenere in italiano perfino le conversazioni private” (p. 91).

Poco oltre, ricorda che sì, in effetti gli italiani erano maggioranza assoluta in città e nelle coste, ma nelle campagne la situazione era diversa. “Il momento giusto per vendicarsi del torto subito si avvicinava” (p. 91). Seguono notizie su delazioni, massacri, stupri, omicidi (anche di sloveni e croati), etc.

Interessante era la tecnica di chi infoibava: “Gli toglievano tutto. Nessuno doveva essere identificato. Faceva parte della tattica. In questo modo si impediva che fosse noto il recapito delle vittime, si impedivano vendette, rivendicazioni, spiegazioni […]. Inoltre avevano bisogno dei vestiti dei morti, era la fine della guerra, e si prendeva quel che si trovava, normalmente anche le mutande, a prescindere da quanto tempo uno le indossasse e quanto sudicie fossero” (p. 123).

È un noir, questo libro, eh? Proprio così. Una bella inchiesta, che sotto la confezione del romanzo di genere parla di ben altro… Tornando a Trieste, c’è un dottore (della “scientifica”, che in Italia mi sembra abbia un altro nome) anziano che racconta il suo ritorno in città. Ecco la lezione di storia: “Arrivai a Trieste con le truppe il 12 giugno del ’45. Al municipio erano appese cinque bandiere: Stars and Stripes, Union Jack, poi quella rossa, la jugoslava e l’italiana, in mezzo alla striscia bianca peraltro era cucita una stella rossa. Che significa poi Trieste: si chiamava ‘Territorio Libero Trieste’ finché nel 1954 gli alleati restituirono la città all’Italia” (p. 175) – vale la pena aggiungere, con un gran sorriso di soddisfazione e di mortificazione per chi sperava il contrario: senza stella rossa. Ricordatene, Heinichen.

Apprezzabili, invece, le osservazioni a-politiche. Come quella sui sei cimiteri (cattolico, british, greco-ortodosso, serbo-ortodosso, ebraico, protestante; non mancano musulmani). Falsa la storia sui “triestini puri”, vera quella sulla nostalgia degli esuli, vera quella di chi altrove ha cambiato quattro volte cittadinanza in un secolo, vera quella di una parte della popolazione slovena della città che s’ostina a non dirsi italiana. Falso che la nostalgia renda difficile la coesistenza. Servirebbe un’Europa “austriaca”. Questo io credo, e non sono il solo (cfr. scritti di Bettiza).

C’è anche la storia dei pacchi-care spediti, post-guerra, da chi era emigrato in America; non manca la tragedia grottesca delle ceneri dei morti scambiate per vitamine o aromi (p. 177). L’allegoria la decida ognuno di voi. Peccato, peccato e peccato ancora per passi come questo: “Un ex picchiatore di estrema destra, si diceva, che sedeva in parlamento con Alleanza Nazionale e per la stranezza dei suoi movimenti ricordava la creatura di Frankenstein, per quanto costoso fosse il vestito (…)” (p. 316). Perché è davvero esecrabile colpire a tutto spiano sotto la cintura, ogni tot pagine. Sarà che le corna, a Laurenti, le ha messe un elettore di AN, borghese e col macchinone. Magra consolazione.

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Heinichen è interessante, nel contesto della storia letteraria di Trieste, proprio per via di queste sue posizioni, di questi suoi errori, di questa sua capacità di ripetere storie raccolte qua e là. Ha compreso contrasti e traumi della città, non ha capito le ragioni. Sa che ci sono etnie e popoli in conflitto da molto: dovrebbe ricordare che non sempre è stato così, dovrebbe domandarsi cosa è cambiato. È un avventore di caffè e bar, mancano le osmize e le osterie: continui a interrogare tutti, anche l’architettura; confrontandola, ad esempio, con quella di Fiume. Qualcosa capirà, e magari aiuterà non solo il turismo, ma la storia letteraria d’una città di letterati, nel tempo in cui pochi o nessuno leggono. Le trame noir le lascio ai cultori del genere, dico che quelle di questo libro sono equilibrate e ben architettate. Ma m’interessava il dna, lo spirito, il senso: i significati veicolati. Qualcosa va registrato, a partire dalle prossime opere. A partire dalla memoria. “Proteo”, come spiega l’autore in un’intervista su Stradanove, non è un nome casuale. Spero che questa grossa lucertola riesca, un giorno, ad aprire gli occhi, là, nei sotterranei del Carso.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Veit Heinichen (Germania, 1957), giornalista, redattore e scrittore tedesco. Vive a Trieste.

Veit Heinichen, “I morti del Carso”, Edizioni e/o, Roma 2003. Traduzione Anita Raja.

Prima edizione: “Die Toten vom Karst”, Wien, 2002.

Niente cinema: l’unica traduzione è un (sembra pessimo) film tv: “Commissario Laurenti – Die Toten vom Karst” (2006).

Gianfranco Franchi, luglio 2007

Prima pubblicazione: Lankelot.