I hate music. Il rumore e il suono dei Settanta

I hate music. Il rumore e il suono dei Settanta Book Cover I hate music. Il rumore e il suono dei Settanta
Duka
Meridiano Zero
2008
9788882371722

I Hate Music” è un’aggressiva e divertente raccolta di articoli di Marco “Duka” Anastasi, giornalista di “Liberazione”, illustrata da Valerio Bindi e Maria Pia Cinque. L’opera, corredata da una selezione delle copertine degli album di riferimento, è stata pubblicata nella collana “Primo parallelo” di Meridiano Zero in un formato atipico. Sintetizza le esperienze, la sensibilità estetica, la carica ideologica e la visione d’insieme di un ascoltatore che “ama il rumore e odia la musica” (p. 39) e si diverte a stuzzicare il lettore: rileggendo quindici anni che hanno cambiato la storia del pop, puntinandoli di osservazioni quando satiriche, quando sociologiche, quando politiche; infine, imponendo precise scelte. Per intenderci, non si parla degli Who, si parla più di Iggy Pop (in epoca Stooges, è chiaro) che di David Bowie, si scarnifica la prog rock e ci si prende gioco di quanti non erano altro che chitarristi virtuosi. Come Eric Clapton. Naturalmente con nome e cognome: è un libro da battaglia, niente allusioni.

Provocazioni. Aggressioni. Scontri frontali. Cariche. Senza paura. Si parte dagli ultimi giorni del World Psychedelic Centre, 1966, a un passo dal debutto dei Pink Floyd di Barrett e da “Sgt. Pepper” e “Are You Experienced”, e si conclude il viaggio all’altezza del suicidio di Ian Curtis, 1980, evidenziando che la sua è la morte da piangere e non quella di Lennon, nello stesso anno.

C’è spazio per un amarcord micidiale, che va dai primi incerti passi dei Velvet Underground di Cale e Reed sino al loro fortunoso incontro con Andy Warhol e all’integrazione di Nico, che iniziò al cunnilingus l’Iguana; si parla dei giorni dei Grandi Raduni, dell’atroce massacro di Bel Air – Manson, pusher e musicista mediocre, collaboratore episodico dei Beach Boys, incide sulle pareti i titoli di due pezzi del “White Album” dei Beatles – alla misteriosa morte del geniale Brian Jones; dall’ultimo momento di gloria degli Stooges, raccontati all’altezza del work in progress per “Raw Power”, sino al glam – Bowie, Eno, T.Rex – e al glitter, soltanto per farne elementi prodromici della rabbia punk del Settantasette. Notevoli i passi dedicati ai Kraftwerk e al significato dell’opera di Stockhausen nella Germania postnazista: l’elettronica tedesca nasce per prendere distanze dal colonialismo culturale yankee. Chiaramente, sulla falsariga di Cope, il kraut rock è ur-punk, protopunk.

Sulla scena italiana soltanto un nome: politico. Quello degli Skiantos di Freak Antoni, per chi vuole ricordare Bologna in quel periodo, e cosa significava per chi aderiva al movimento (contro il sistema, contro il partito, ma non contro il sogno).

Il registro, massimalista e apodittico, è classico di quelle anime rock che non hanno intenzione di essere smentite, perché molto hanno osservato e ascoltato e tutto hanno capito: pure quando si prendono gioco delle ultime due decadi dei Pink Floyd o di “Stairway to Heaven” (canzoncina per pippe adolescenziali, p. 33) o si rivolgono direttamente a Mick Jagger e Keith Richards rimarcando trent’anni pieni di mediocrità: “Perché non vi siete sciolti come i Beatles nel 1970? Anzi prima il 7 dicembre del ’69, il giorno dopo Altamont. Potevate essere la più grande rock and roll band mai esistita, invece siete rimasti delle merde” (p. 28). Ecco.

C’è una sconfinata nostalgia di un periodo in cui si credeva di poter rovesciare tutto: il trittico sesso droga rock and roll è rivendicato e rigenerato, almeno nel ricordo, restituendo l’energia vibrante dell’epoca, la carica rabbiosa e rivoluzionaria di certi dischi, il loro impatto sulla società. Duka non vuole che i Settanta rimangano vivi, non vuole che piombino cadaverici in un museo delle cere (p. 92): sembra dire che vuole che siano serviti a qualcosa. Vuole condividere quel che è rimasto di buono. La lezione di rottura, di aggressione, di creatività e di onestà. Almeno: estetica.

Inevitabilmente al frastuono ludico, autodistruttivo e kitsch dei Sex Pistols viene tributato l’omaggio dell’antico fan, senza dimenticare di registrare le loro prevedibili traversie discografie e certe stravaganze da drogati narcisisti. Londra bruciava, ma di quell’incendio preferiremmo restassero i Clash. Per dire. Inattesa invece l’assenza di un pestaggio alla scelta dei fu Joy Division, New Order, di virare nella dance e nell’elettronica; mi sarei aspettato, pure nel rispetto di Peter Hook e compagni e del loro santo patrono Anthony Wilson, qualche rilievo diverso dalle annotazioni scolastiche su Manchester e sulla new wave. Secondo Duka, in ogni caso, i Joy Division definiscono “stilisticamente” l’allora nascente dark, assieme ai Cure 1980-1982, Siouxsie e Bauhaus. Magari qualcuno non è d’accordo, ma l’autore è così, netto, predica, divide et impera. Stateci. E quando pizzicate il nome di qualche disco che vi manca, prendete nota e rimediate. Oppure, se avete dimenticato, recuperate vinile e Cd e andate ad ascoltare daccapo. Non mancano segnalazioni notevoli, e anche per questo “I hate music” non verrà infilato negli scaffali per riposare e prendere polvere, tra Dossi ed Eco – scherzi dell’ordine alfabetico. Una volta che avrete oltrepassato il fuoco di questa sporca dozzina di articoli rimarranno ceneri di nomi di grandi band e di artisti meno fortunati che meritano di (soprav)vivere a differenza dei replicanti che ci stiamo sorbendo, con poche eccezioni, da quindici anni pieni a questa parte. È tutto morto, ma non invano.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Marco “Duka” Anastasi (?, 19**?), giornalista e scrittore (romano?). Scrive di libri e musica su “Liberazione” e ha pubblicato, con Marco Philopat, il romanzo “Roma K.O. Amore, droga e odio di classe” (Agenzia X, 2008).

Duka, “I Hate Music”, Meridiano Zero, Padova 2008. Illustrazioni di Valerio Bindi e Maria Pia Cinque (MP5). Design: Giovanni Binel, Mekkanografici Associati.

Gianfranco Franchi, giugno 2008.

Prima pubblicazione: Lankelot.