Goccie d’inchiostro

Goccie d'inchiostro Book Cover Goccie d'inchiostro
Carlo Dossi
Salerno
2009
9788884026477

1880: prima edizione del libro: 31 prose brevi. 1910: nelle “Opere” di Dossi (Treves) appariva per la prima volta la versione definitiva di questi racconti e scritti minori (“briciole”) di Carlo Dossi, provenienti – apprendiamo dall'introduzione, firmata da Francesco Lioce – dalle lettere, dal romanzo “Vita di Alberto Pisani” (1870) e da testi apparsi tra 1868 e 1869 nella rivista “La palestra letteraria”. Si tratta di quattordici testi. 1979: Dante Isella cura per Adelphi una riedizione dell'operetta, tornando alla prima stesura (struttura) autoriale. 2009: Lioce cura per Salerno una nuova edizione, fedele a quella del 1910: va considerata, quindi, la prima ristampa della redazione definitiva del libro. Queste, in estrema e necessaria sintesi, le turbolente vicende editoriali di questo innocuo e snob libretto di prose, disponibile, oggi, in due differenti versioni, una adelphiana e l'altra salernide, per la gioia dei filologi e degli studiosi di storia della Letteratura Italiana.

Lettori! Cosa troverete in questo discusso librino? Lioce spiega: “Le quattordici prose formano un preciso 4 + 3 + 7: alle prime quattro, incentrate sui rapporti uomo-donna, e alle successive tre, dedicate all'infanzia, seguono le sette di chiara matrice satirica” (pp. 13-14). Tutto chiaro? Avanziamo.

Dossi è iperdescrittivo, e va mostrando smania di precisione da pittore per raccontarci i suoi personaggi: storie non ne hanno, capita di rado, e profondità nemmeno. Si rimane sempre sulla superficie profonda, e si va a graffiarla con disperazione; o con studiata negligenza. Già nel primo racconto, “Valichi di montagne”, sentite come ci presenta il conte: “Il conte, col suo corpo svelto e nervoso, colla sua faccia affilata, brunetta, dal naso fortemente aquilino, dai baffi, come i capelli, nerissimi, con due occhi che lucicàvano a guisa di pugnali, palesava come in lui brillasse dell'àrabo sangue, di quella razza a grandi contrasti, ora inerte, estatica nelle più misteriose contemplazioni, ora guizzante, in febbre, sotto passioni roventi come il sole di Africa; oggi di una folle generosità; dimani, con sottigliezza, vendicativa” (p. 62).

Cosa possiamo osservare? Che per descrivere un tizio segaligno e scuro di carnagione, Dossi strapiomba in una digressione sul sangue e sulla razza araba, destinata a ribadire passionalità e violenza di un'intera etnia – senza distinzioni, alè. E per descrivere una boscaglia, cosa mai combinerà?

“Ivi, da una banda e l'altra della strada, si rizzàvano altissimi gli abeti, dalla corteccia grigiastra qua e là macchiata, ora dai pallidi licheni, ora dal tetro musco, e che, dopo di essersi strettamente abbracciati a fior di terra nelle radici contorte a mo' di serpenti, in alto rintrecciavano i frondosi rami sì da foggiare sui viatori un'incantevole pergolato, negli squarci del quale splendeva un ciel di zaffiro e di cui, al basso, disegnata dai raggi del sole, tremolava la ombria” (p. 66).

Naturalmente non finisce qui, anzi: Dossi va avanti per un'altra pagina e mezza, senza dire niente. Ma dice niente in un modo favoloso, tutto artefatto e morboso, ossessivo, assolutamente alienato: un po' come il nostro contemporaneo Vasta, che riesce a descrivere anche le strategie di volo di un'ape in un bagno, attorno al glande del suo narratore, aggettivando e proliferando da vero virtuoso. Cosa è successo? Niente. Il gioco è che dovreste appassionarvi a questi arabeschi. Dossi, come il nostro Vasta, fa parte di quei narratori – ogni secolo ne ha – che potendo descriverebbero tutte le venatura di una foglia caduta sotto casa, cercando di renderla più bella e più vera con una precisione maniacale, senza risparmiare nessun aggettivo.

E quando l'autore sembra esserne consapevole, per spiegarlo ci mette altre dieci righe: come nel terzo racconto, “Profumo di poesia”. Sentite qua: “Ma sostiamo. Non è indispensabile, vero? Ch'io dica tutto. Avessi pure lettori leggenti le sole parole, di que' lettori pei quali i puntini restano sempre puntini, abituati alle dande e non ancora svezzati, parmi ciò nondimeno ch'io possa, in questo unico caso, contare un pochetto, se non sulla fantasia loro, almeno sulla memoria. E però, pregandoli di essermi tacitamente collaboratori, tirerò via dritto saltando a ritrovare la nostra bionda inglesina, quando, soffusa di un pudico rossore e, diciamolo pure, col cuore più sollevato (o cuore, comodissimo nome) sta per riporre la mano sul catenaccio dell'uscio” (pp. 88-89).

Normalmente parleremmo di logorrea. Una logorrea intollerabile. In letteratura non possiamo spendere quel termine con troppa leggerezza. Certamente siamo di fronte a un periodare talmente barocco e artefatto, a una tanto certa consacrazione alle perifrasi, che non possiamo non domandarci che senso abbia, e che peso possa avere nella nostra narrativa. Savinio, per spendere il nome d'un maestro delle subordinate e della scrittura talmente ricercata che si confonde con la stravaganza, o col bizzarro, rispetto al Dossi dei primi racconti delle “Goccie” sembra, spesso, estremamente autocontrollato. Un po' di pace arriva nel bozzetto “La veste”, un mediocre esercizio di stile, puntato – che sia un caso? - tutto sul significato. Sulla sua falsariga, le successive brevissime prose; davvero briciole della letteratura del grande scapigliato, leziosette, curiosette, giocherellone. Autoironiche. Così: “Chi mi conosce, lo sa: di consueto, sono intrigato nel dire. Moltissime volte in cui ciò sarebbe stata opera d'oro – parte rispetti umani, parte coniglieria – tenni a casa o non potei metter fuori il pezzuolo: ora, al contrario, vero e giusto momento al tacere, la lingua mi si fece di una elasticità senza pari. Natura mia destavasi” (p. 105, “Illusioni”). Consapevolezza non ne mancava, a quanto pare.

**

Il secondo racconto, “Viaggio di nozze”, è molto musicale: Dossi sembra concentrato sul suono dei dialoghi, non sul senso o sui significati. I personaggi sembrano pettirossi che cantano sul bordo d'un davanzale, parlano per battute minime, per parole minute, brevissime; è tutto uno strappo, un richiamo al controcanto – qualcosa che ricorda più il libretto d'un'opera che un racconto. Ecco, questo mi rimane al termine del viaggio. Suono. Un po' di suono. E la sensazione d'aver sfogliato scritti minori di un letterato minore. Cosa c'è di più affascinante delle piccole miserie e degli esercizi di un laterale di lusso? Io impazzisco per queste cose, ci divento matto. Non servono a niente, ma colorano i miei studi di una patina di nonsense che non ha prezzo.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Carlo Alberto Pisani Dossi (Zenevredo, Pavia 1849 – Como, 1910), scrittore italiano. Fu tra i fondatori, nel 1867, dell’organo scapigliato “La Palestra letteraria artistica scientifica”.

Carlo Dossi, “Goccie d'inchiostro”, Salerno Editrice, Roma 2009. Collana “Faville”, 50. A cura di Francesco Lioce. Contiene un'introduzione, una nota biografica e una biobibliografica. In appendice, frammento “Dalla vita di Carlo Dossi scritta da Alberto Pisani” e una Nota ai testi.

Prima edizione: Stabilimento Tipografo Italiano, 1880.

Gianfranco Franchi, luglio 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

1880: prima edizione del libro: 31 prose brevi. 1910: nelle “Opere” di Dossi (Treves) appariva per la prima volta la versione definitiva di questi racconti e scritti minori (“briciole”) di Carlo Dossi, provenienti – apprendiamo dall’introduzione, firmata da Francesco Lioce – dalle lettere, dal romanzo “Vita di Alberto Pisani” (1870) e da testi apparsi tra 1868 e 1869 nella rivista “La palestra letteraria”. Si tratta di quattordici testi…