Gli interessi in comune

Gli interessi in comune Book Cover Gli interessi in comune
Vanni Santoni
Feltrinelli
2008
9788807017629

Sono stato fortunato, perché ho potuto ascoltare questo romanzo, prima di leggerlo; ho potuto ascoltare qualche frammento letto dal vivo, nel corso della rassegna “Passaggi per il bosco”, Cagliari, 2009. Così, sfogliandolo, a distanza di qualche giorno, ho avuto la sensazione che Santoni stesse leggendomi il libro. Con la sua voce, e con la sua mimica. Ghignavo. L'opera, lì per lì, ne ha guadagnato; “Gli interessi in comune” sembra scritto per essere performato, e le circa sessanta presentazioni tenute dallo scorso anno all'altroieri, 26 luglio, ne sono credibile prova. Ma qualcosa ha perduto, l'opera seconda di questo scrittore toscano classe '78, mentre mi inventavo (ricostruivo?) la voce viva dell'autore, pagina per pagina. Ha perduto la tremenda disperazione che si respira leggendo le storie dei suoi protagonisti, esasperando invece gli aspetti farseschi, comici, tragicomici; ha perduto la (bella) lingua letteraria di un autore che ha raccontato la provincia viziosa e alienata dei giorni nostri, e le vicende di una generazione accomunata dalle sperimentazioni di qualsiasi droga – e da questo soltanto, si direbbe, assieme a un generico cameratismo; ha perduto, naturalmente, il respiro della sua durata (decennale), concentrandosi su episodi minimi. E così, faticosamente ho cancellato dalla memoria l'impressione di freschezza e di gran cazzeggio maturata a Cagliari, restituendo Vanni Santoni al silenzio, e concentrandomi in toto sul libro.

Ne sono uscito fuori con le ossa rotte, nel senso che ho sentito davvero un profondo dispiacere per tutto quel che stavo leggendo. Mi chiedevo: possibile che la vita in provincia sia davvero così ripetitiva e mostruosa da costringere i ragazzi a sperimentare droghe a tutto spiano per sentirsi vivi? Possibile che tutto il resto – donne, libri, film, musica, calcio, tutto – passi in subordine, e che lo svago alternativo di questi ragazzi sia un gioco di carte decisamente sfortunato come “Magic”? Possibile che mi si stia parando di fronte una sequenza di vicende di fattanza e di fattoni e che non ci sia rimedio diverso dalla fuga (non immersione: interessante) nella realtà lavorativa, per ognuno di loro? Possibile che la serenità figlia della stabilità economica abbia spinto questi personaggi tutti nella stessa direzione, nella relativa tolleranza (sopportazione) delle famiglie? Mi chiedevo: siamo stati bravi noi, a restare confinati nelle droghe legali, cercando di autocontrollarci e di non fare danni né a noi stessi né agli altri, o hanno capito tutto quanto questi qui, che si sono sfondati senza scrupolo, trovando pace e soddisfazione soltanto nello sfascio metodico e nelle imprese deliranti da raccontare al bar? Mi chiedevo: siamo stati così bravi noi, perché abitavamo in città – in una grande città – e in effetti noia proprio non poteva esistere, oppure lo spaccato provinciale, decadente, goliardico e tossico, descritto da Santoni è qualcosa di più comune di quanto potremmo credere?

A un certo punto uno dei personaggi di Santoni scrive una cosa abbastanza enorme. Prima la condivido, poi la commento:

“Forse, pensa Mimmo, se tutti dicessino questo ai nostri genitori, se tutti prendessero atto della vera quantità di droghe in giro, del fatto che si fuma tanta erba quanto si beve birra e vino, che ogni notte a Milano, Firenze e Roma vengono sniffati quintali di cocaina da gente di tutti i tipi, per nulla emarginata, che i pochi al mondo che ancora fanno ricerca spirituale la fanno violando la legge, con funghi allucinogeni e acido lisergico, magari oggi vivremmo in una società razionalmente antiproibizionista, con una mafia molto meno ricca, una gioventù molto meno dedita alle sostanze, e di certo servizi sociali, psicologi e SERT infinitamente più efficienti” (p. 58).

Ecco, non so. Leggendo questo ho provato a pensare a tutte le persone che conosco, città per città, pensando a quanto ne so davvero e a quanto potrei scoprire in questo senso. La sensazione è che la popolarità di canne e cocaina non sia così straordinaria, e che la frequenza di consumo non raggiunga certe straordinarie vette. Vero è pure che non ispiro confidenze del genere “tiriamo una striscia?” per varie ragioni, e quindi potrei essere un po' penalizzato. In ogni caso, questa normalità dei funghi, degli acidi e della coca non la vedo, né sento particolare smania di antiproibizionismo; prima di conquistarlo, servirebbe creare una cultura autentica della droga – e ci includo anche quelle leggere e legali. Considerando i morti che l'alcol ha lasciato e lascia sulla strada, giorno dopo giorno, non credo che la situazione potrebbe migliorare invitando tutti a consumare, per divertimento, tutto il resto. È un popolo irresponsabile, il nostro, e tendenzialmente prepotente ed egoista. Basta che certi individui si divertano e tutto il resto scompare. Non so, ma leggendo quelle parole ho pensato a una cosa che avevo notato una dozzina abbondante di anni fa, ai tempi del Liceo: quelli che fumavano tante canne avevano questo cazzo di aggettivo sempre in bocca, “tranquillo”, “è una cosa tranquilla”, e tendevano a spenderlo dappertutto. E a sentir loro tutti fumavano canne. Ecco, forse è un vezzo della psiche, non so: io stesso tendo a vedere grandi lettori e grandi innamorati dei libri dappertutto, e poi mi rendo conto che siamo una minoranza rabbiosa e abbandonata. Forse ci piace condividere le passioni, e saperle massificate ci conforta, ci fa sentire meno soli, meno isolati. Non intendo paragonare i libri alle droghe, ma insomma – ci siamo capiti.

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Leggi questo romanzo, sorridi e poi ti si stringe il cuore. E pensi “basta”, hai paura che ai personaggi succeda qualcosa di tremendo – quando uno si suicida nemmeno si capisce perché: bene fa Santoni a lasciare la questione aperta – e poi ti viene da ridere leggendo di come s'accasciano per prendere sonno, e di quanto si divertono a sperimentare questo e quello (i titoli dei capitoli aiutano a farsi un'idea di quel che potrà avvenire). È un riso simile a quello di “Trainspotting”: pure là c'erano fattoni e fattanza che faceva ridere. Anche. Ecco, questo è un “Trainspotting” toscano. Ma senza eroina; l'eroina appare in pasticche, con tanto di memorie di quando la Bayer l'aveva legalizzata, considerandola innocua, come farmaco contro la tosse: cent'anni fa, non credete. È un libro di allucinati e di storie allucinanti, ma non è niente affatto allucinato. È lucido, consapevole, ben calibrato, assemblato come fosse una raccolta di racconti, di memorie, di episodi: di sketch; e allineato come un romanzo, con intervalli abnormi, personaggi che si dissolvono nel nulla (come Il Mella) lasciandoti con l'amaro in bocca (ma la vita è così. C'è gente che ti vive accanto per un pezzo, poi si rompe qualcosa e non si ripara. Possibile? Possibile. Ti rivedi per sbaglio e non hai più niente da dire. Santoni lo spiega bene).

In mezzo a tante droghe c'è la memoria di qualche ex (per Iacopo), la descrizione della vita da debosciato di più di qualcuno dei ragazzi (diventano grandi, intanto: dai sedici ai ventisei, a occhio e croce, ne passa di tempo) – merita una lettura ripetuta quella di Paride, cfr. p. 107 – una divertente reminiscenza biografica di Baudelaire (p. 72), qualche boutade sull'autolesionismo (p. 51) e molte, potenti descrizioni dell'incomunicabilità, cfr. almeno la vicenda di Sasso e Mella, p. 140.

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E così, ho letto un romanzo Feltrinelli fresco di stampa, una vita dopo l'ultima volta, quando Pennac ha cominciato a prendere per il culo i suoi vecchi lettori, svariati anni fa. Ero stupito di avere sulla scrivania un Narratore Feltrinelli contemporaneo, mio coetaneo. Poi ho pensato a Vanni che legge e ride. A posto. Ho letto un romanzo di uno scrittore davvero promettente, consapevole e onesto: ha raccontato il suo territorio (Figline, Firenze) e la sua visione di una generazione anomala, piena di sicurezze economiche ma capace di farsi a pezzi con le sue stesse mani, forse per noia, forse per troppo amore delle emozioni – non so dirlo. Non capisco. Se questa è la normalità della mia generazione, io la rifiuto integralmente, limitandomi a sentirmi sempre più strano, sempre più avulso da tutto, dal lavoro borghese come dalla quotidianità della vita sociale. È un libro che dovrebbe fare spavento a tutti: sia per quello che racconta, sia per come è scritto – davvero bene, con lampi di enorme qualità nei dialoghi e descrizioni brillanti, incisive, efficaci.

Adesso, siccome ho sempre più voglia di non essere il solo a parlarvi di certi libri, infilo un po' di rassegna stampa selezionata in Rete; altri link ne trovate in calce. Fatevi un'idea, andate in libreria, comprate il libro, prendetevi cinque-sei giorni, preparatevi a qualche sano sganassone e a parecchie risate. Amare o meno che siano, ci saranno.

Secondo il giovane scrittore Gianluca Liguori, “Vanni Santoni, nel suo secondo romanzo, è capace di raccontare un decennio in un istante, una serie di fotogrammi di eterno presente in cui compaiono e scompaiono le vite dei personaggi in un bar di provincia, nel Valdarno. Dieci anni che hanno traghettato dall’adolescenza all’età adulta, senza che niente sia cambiato, nonostante tutto sia cambiato. Usi, costumi e consumi di una generazione stupefatta sono raccontati magistralmente dall’autore fiorentino d’adozione, capace di incollare il lettore alle pagine del suo libro divertente e malinconico allo stesso tempo” (fonte: Sito di Liguori).

Scrive Jacopo Nacci, esordiente qualche anno fa con “Tutti carini”, su “L'indice”: “Sul fondo, però, scorre un altro ritmo, come un fiume lento e fangoso. Perché qui non ci si nasconde che questi ragazzi, al di là dei suddetti interessi in comune, abbiano spesso ben poco da dirsi. E malgrado l'affetto reciproco, che c'è ed è forte, la sensazione è che di dirsi qualcosa non abbiano nemmeno troppa voglia. Della mancanza di una cultura o di un sentire condiviso sembrano peraltro pienamente coscienti: persino il loro manifesto generazionale – una miscellanea di tic verbali e mentali catalogati nell'arco di anni – non è che il manifesto dell'impossibilità di un manifesto”.

Chiudiamo con Carlotta Vissani, sul “Mangialibri”: “Un romanzo denso, pieno, carico di denuncia (forse), di documentazione (anche), di formazione educativa per il lettore quando si trova di fronte all’involuzione umana (certamente) e uno spaccato aberrante sulle generazioni moderne in un circolo eterno dove l’unica cosa che potrebbe spezzare la repetitio è la tremenda, seppur semplicissima, ammissione di avere una volontà propria, capace di dire no, no, no, basta, non voglio più essere un punto indistinto senza nome, né volto, né un domani in cui credere”. Personalmente, ripeto: rattristato ed entusiasta al contempo, applaudo e approvo. Consigliato.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Vanni Santoni (Montevarchi, 1978), giornalista e scrittore italiano, laureato in Scienze Politiche. Vive e lavora a Firenze. Ha collaborato o collabora col “Mucchio”, con “Repubblica”, “Il manifesto” e “Nazione Indiana”. Ha co-fondato il progetto SIC: scrittura industriale collettiva.

Vanni Santoni, “Gli interessi in comune”, Feltrinelli, Milano 2008. Collana “I Narratori”.

Approfondimento in rete: Blog di Vanni Santoni / WIKI It

Gianfranco Franchi, Luglio 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Primo passo di Vanni Santoni in Feltrinelli…