Fìdeg

Fìdeg Book Cover Fìdeg
Paolo Colagrande
Alet Edizioni
2007
9788875200343

Ho impiegato qualche mese per scrivere la prima stesura di questo articolo. Battevo come un pazzo, per intervalli di ispirazione, con la macchina da scrivere, la vecchia Olivetti, perché sentivo fosse necessario tornare ai vecchi dattiloscritti. Avevo voglia di ripristinare un rapporto fisico con la carta, non so. L’articolo era diventato un saggio breve sulla letteratura italiana contemporanea, con tanto di digressioni sulle realtà editoriali più interessanti. Il concetto era: per la prima volta, nella Storia della Letteratura Italiana, forse avremo bisogno di dedicare capitoli non ai movimenti letterari, ma alle case editrici, ai loro editor e agli autori di punta – con relativi epigoni e sodali. Perché a questo stiamo arrivando. All’autore mascherato, o multiplo. All’opera di ingegno, satirica e politica e letteraria: non più letteraria e basta, perché per prima cosa è editoriale.

Me lo portavo dietro dappertutto, tenuto su da una graffetta, nella mia cartellina. Magari ci appuntavo su qualcosa a penna, glossavo, correggevo. Era una copia unica, mai salvata e neanche scannerizzata. Ne ero molto orgoglioso. Qualche giorno fa ho lasciato quei fogli in camera, non so perché – forse perché stava diventando una coperta di Linus, qualcosa del genere. Ci tenevo come a un vecchio accendino d’argento regalato da qualcuno che adesso è morto. La domestica li ha trovati vicino alla pila dei quotidiani e delle riviste da buttare, ha pensato bene di non pensare e li ha strappati in quatto parti e infilati nel sacchetto della sma che uso al posto di quello della spazzatura. Me ne sono accorto quando era troppo tardi. Ho vagabondato per cassetti e cassetti nascosti, scaffali e mensole, sacchi della spazzatura di ogni ordine e grado ancora incompleti. Niente. A casa non c’era.

Dico: era un saggio fondamentale, la summa di cinque anni di comunicazione e critica letteraria. Mica poteva sparire così. E invece. Il giorno dopo, l’amara rivelazione. La rumena piagnucola, mi dà del saraco o qualcosa del genere (immagino significhi “poveraccio” nella loro lingua) e mi ripete “ne avevi copia no?” e io dico no. Così quel che state leggendo altro non è che la seconda stesura, frettolosa e meno cerebrale: una sintesi di quell’opera d’ingegno che sognavo fosse il lavoro della vita. Colagrande – e i lettori del suo esordio, recentemente premiato al Campiello come migliore opera prima del 2007 – avranno già capito che non vado preso alla lettera. Agli altri lascio il dubbio. Credo nella letteratura come menzogna consapevole di se stessa.

Il primo libro dello scrittore piacentino Colagrande, “Fìdeg” (il nome è un’esclamazione comprensibile solo a livello territoriale, come capirà chi ha letto l’atipico glossario in calce al testo; significa, genericamente, “Fegato”) è la dimostrazione che una parte della nuova letteratura italiana esiste per andare incontro direttamente ed esclusivamente ai lettori forti e agli addetti ai lavori. Questo libro non si sogna nemmeno di parlare ai cittadini interessati alla letteratura. Del resto, forse non esistono. Questo libro si rivolge alle colorite e stravaganti schiere degli scriventi e degli scrittori, dei redattori e degli stagisti orecchianti, degli uffici stampa appassionati di pettegolezzi letterari e di cattiverie più o meno edulcorate contro uno o due o tre totem (Eco, Veronesi, Calasso). È nel sistema ma sembra contro il sistema. Gran bel giocattolino.

Direi “divertissement” se non subodorassi una discreta presa per il culo, scritta volta per volta con eleganza e artificiosa trasandatezza. Paolo Colagrande è come quei vecchi letterati cari al Novecento, scoperti quando era quasi troppo tardi, uomini che hanno letto tutti i libri (dal barone Piccolo a Tomasi di Lampedusa) e dalle scritture capaci di concentrare un secolo di scritture, narrative o critiche, in due pagine. Rispetto ai due nominati, direi che le letture qui vengono dichiarate, esibite, ostentate: attutite appena da qualche bozzetto regionale, da qualche personaggio padano e stravagante, che impedisce loro d’essere zavorra totale e umanizza un po’ un libro giocato per cerebralità (abnorme) e sconnessioni (quanto pretese e quanto involontarie potrà spiegarcelo, chissà, Paolo Nori: padre putativo dell’autore. Colagrande – leggiamo – è un avvocato classe 1960, scrittore emiliano del gruppo di Paolo Nori, Ugo Cornia e Daniele Benati, parte della redazione del settemestrale di letteratura e arte “L’accalappiacani”. Questo il curriculum. Non spiega niente e racconta qualcosa, in compenso).

Storia degli eroi di pace e di guerra da Garibaldi ai giorni nostri” era il nome del gran libro che il narratore del libro aveva scritto, lavorandoci per anni, correggendo per tanti anni ancora: smarrito e cestinato a seguito d’un grottesco episodio d’autolavaggio o qualcosa del genere, lascia l’io narrante smarrito e perplesso. Vorrebbe riscrivere questo libro e sintetizzarlo, ma non riesce. E intanto bastona come può Umberto Eco, a ragione almeno per via del (soltanto) corposo “L’isola del giorno prima”, e le lezioni di scrittura di Veronesi e Bergonzoni; va per digressioni più o meno letterarie e torrenziali, sciacquando la struttura con richiami dichiarati a Strümpell e Freud a proposito dei meccanismi della memoria (Yates è stato dimenticato), adotta una struttura narrativa ibrida cara alla narrativa di Kundera (salvo omissione di vicende sentimentali), e già che c’è s’affretta a minimizzare l’influenza di Kundera sulla sua scrittura, bastonando al contempo l’incomprensibilità di Calasso, e la sua altezzosità. Come dire che è un degno Adelphi, perché non vuol dire niente. E certo. Forzando la mano – ma senza fatica: trama non esiste, diversa da quella raccontata – va poi a raccontare come potevano nascere riverse letterarie (simpatica l’allegoria delle tubature d’un palazzo: leggera) e come poteva fallire un narratore di provincia vincitore d’un concorso per un piccolo editore. E giù descrizioni della miserabile questione distribuzione-promozione, delle librerie che non accolgono libri diversi dai due grandi gruppi e degli eventi che non s’organizzano se non alla carlona, e con poche vendite. E via a ridicolizzare la confezione editoriale che già a quel livello snatura il libro, tagliuzzando capitoli importanti e mutando il titolo, magari con un Cremonesi in copertina.

Si sarà inteso – già a questo punto – che al lettore occasionale e medio il libro non arriverà, e quando per accidente questo potrà accadere questi non riuscirà a capire. Magari penserà: verboso, caruccio, brillante!, autoreferenziale, illeggibile, curioso. Ma questo libro non è per loro. Questo libro è una scelta di campo dell’editore, non so quanto indovinata (non credo ai veggenti) e non so a quale posizionamento puntata. Colagrande è anche ironico e divertente, ma scrive un libro da pamphlettista con qualche sassolino da levarsi e tanta rabbia e tanta amarezza da esternare a tutti. D’accordo: personalmente sottoscrivo, firmo e apprezzo. Ben fatto. Ma la Letteratura dov’è? Nei richiami e nelle comparazioni tra Cyrano e Garibaldi? Nella segnalazione reiterata e compiaciuta della piuttosto dimenticata figura tragica del fratello musicista di Wittgenstein? Nell’anticonformista Benazzi e nel povero esordiente Pigozzi del testo, o nella trasfigurazione dell’esperienza d’un triste giornalista delle pagine di cultura d’un quotidiano di provincia? Nella sortita sulle malefatte del correttore di word o nel travaglio per la perduta opera? Nel discorso sull’anacronismo dell’ “eroe”? C’è materiale per una decina di saggi, a ben guardare, ma non per un romanzo. Con una storia d’amore, un pizzico di politica e meno editoria poteva essere kunderiano. A meno che Colagrande non voglia un domani scrivere una biografia romanzata del Benazzi, filosofo e “antieroe” di provincia. Altrimenti c’è materiale per tante discussioni, via mail, tra redattori e addetti ai lavori. L’eco ha appena avuto inizio.

Colagrande ha avuto fìdeg a pubblicare questo libro. È letteratura per la letteratura, o meglio: editoria per l’editoria, volume per lettori di volumi. Ma di classe. Da leggere, con la consapevolezza che qui si tira al bersaglio. Niente di nuovo, da questo punto di vista: tanto non cambia niente, finché restiamo agli effetti e non denunciamo le cause, questo lo sappiamo. Ma almeno si scrive bene, via. Si stuzzica qualche molosso che dorme. Magari mozzica, o forse sbadigliando si volta e mangia un biscotto. Si dà una planimetria del palazzo in cui c’è chi legge e scrive seduto nei cessi, per prendere l’ispirazione.

Espulse tante letture, la scrittura si libera. La scrittura si libera e va in cerca d’una dimensione nuova. Tanta, variopinta e ricca comunicazione, e nulla, nulla, nulla espressione. Da leggere, è un’opera prima (cfr. riflessioni nel libro in merito: comparando Calvino e Kundera) e un Campiello.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Paolo Colagrande (Piacenza, 1960), avvocato e scrittore italiano. Ha pubblicato il racconto “Non possiamo non dirci cani”, numero zero della rivista “L’accalappiacani” (DeriveApprodi), settemestrale di letteratura e arte.

Paolo Colagrande, “Fìdeg”, Alet, Padova 2007. Contiene un curioso glossario. Quarta di Paolo Nori. Il libro ha conquistato il Premio Campiello Opera Prima.

Gianfranco Franchi, giugno 2007

Prima pubblicazione: Lankelot.