È Oriente

È Oriente Book Cover È Oriente
Paolo Rumiz
Feltrinelli
2003
9788807880452

“'Omnia mea mecum fero': portarsi tutto, disfare la sera e rifare al mattino, è il rito nomadico che rende irreversibile il distacco da casa. Ma non puoi capirlo, se il viaggio dura un giorno solo” (Rumiz, “È Oriente”, p. 11)

“È Oriente” è una raccolta di racconti di viaggio del giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz, classe 1947. Racconti nati “da un mix di lavoro giornalistico e viaggi in libera uscita”, precedentemente apparsi su “Diario” (“Dove andiamo stando?”, 1998), “Piccolo” (“L'uomo davanti a me è ruteno”, solo la prima parte, 1999), “Repubblica” (“Chiamiamolo Oriente”, “Capolinea Bisanzio”, 2000 e 1999) oppure inediti (“Ljubo è un battelliere” e il debole e caotico “Il frico e la jota”).

Nel primo racconto, padre e figlio partono in bici da Trieste per Vienna: le loro bici diventano “tandem generazionale, strumento di conoscenza, riconquista della lentezza, passaporto per una clandestinità nuova, perfino macchina sovversiva (…) macchina da presa, rosario di orazioni, miscelatore di immagini e memorie, fabbrica di pensieri e sogni straordinari” (pp. 5-6). Partono senza telefonino (“siamo uomini o commercialisti?”), vivendo con pienezza l'evasione; sarà un viaggio lento (“l'apprendimento è lentezza”), a misura d'uomo, come una volta: come l'antica e dimenticata tradizione italiana insegna. Perché “da noi si è smesso di viaggiare: ci si sposta. Così il mondo minore scompare, e la memoria pure” (p. 26).

Trieste già sembra lontana, e Vienna vicinissima. Una manciata di chilometri e “Mediterraneo addio, già si sente il fresco continentale, nebbioline danubiane si acquattano nelle doline” (p. 8). Sono viaggiatori: non “romantici cercatori di foreste, ma pellegrini medievali su antiche strade” (p. 23). Passano per la Slovenia, nazione giovane e piccola già segnata da una “sindrome svizzera”; i nuovi cittadini, orgogliosi della loro efficienza e della loro capacità produttiva, hanno “bioritmi campagnoli e postsocialisti”. S'avvicinano all'Ungheria, e “la gente saluta, sorride, non abbassa gli occhi come a Lubiana”, e Rumiz pensa che, cercando l'Occidente, gli sloveni ne hanno guadagnato: “ma forse hanno perso l'anima grande dell'Oriente” (p. 15). Infine, Vienna. Wien ist anders, Vienna è un'altra cosa. Rumiz la legge, la sintetizza coraggiosamente, e infine medita sul senso del suo viaggio: il nostro mondo, sospetta, ha disimparato a raccontare perché non viaggia più.

Nel secondo racconto, “L'uomo davanti a me è un ruteno”, si viaggia in treno tra Trieste e Kiev – e Rumiz racconta quanto siano lenti e grotteschi i collegamenti per Budapest, Zagabria: Trieste è, via terra, il “capolinea del nulla”. Ecco Budapest, “capitale dell'intemperanza”, “solitaria supernova in mezzo al nulla” (p. 36): da quelle parti, qualche imprenditore italiano (Benetton) ha già “delocalizzato” le sue fabbriche, per risparmiare sul personale. Osserva l'Est, e pensa: “L'Europa è una groviera dove la mala scava tranquillamente le sue gallerie; le frontiere esistono per le polizie e le magistrature, non per un crimine organizzato che ha reclutato in blocco i vecchi servizi segreti comunisti” (p. 45). Ucraina. Qualcosa ha resistito allo stupro comunista: l'essenza antica di periferia dell'impero asburgico. Rumiz racconta l'incontro con un ruteno, uno degli ultimi cittadini di un popolo oggi sparso tra sei nazioni: Slovacchia, Polonia, Ucraina, Romania, Ungheria, Serbia, determinato a ritrovare un proprio Stato – senza più sapere dove, e senza più trovare comprensione in nessuno dei popoli ospiti. L'Ucraina raccontata da Rumiz è falcidiata dagli estremismi: siamo nel 1999 e c'è chi soffia sul fuoco del nazionalismo per distaccare quel popolo – com'è naturale e sacrosanto che sia – da Mosca. Sin qua, a un passo dal 2010, l'impresa è riuscita.

Veniamo a Berlino-Istanbul in treno, terzo pezzo: “Chiamiamolo Oriente”. Berlino è ancora sotto febbre edilizia da ricostruzione, “con furore sanitario radicale, da disinfestazione” (p. 62). L'orgoglio tedesco non è più Goethe, ma la Deutsche Bank. Rumiz passa per la meravigliosa Praga, passa per la Polonia. “È una cuccagna la Polonia, a fronte della tenebra e della miseria ucraina” (p. 69), osserva; poi la tetra Slovacchia e l'Ungheria, dove le nuove parole d'ordine sono “sicurezza”, “identità”, “conservazione”, “memoria”: le ferite del comunismo sanguinano, c'è una gran fame di tradizioni antiche. Ecco la Romania così scassata che “non ci sono nemmeno i soldi per sgombrare le strade dalla neve” (p. 80: ma almeno è sparito il comunismo). Turchia, dove si arriva comodi col passaporto europeo, meno per chi non ha quel pezzo di carta. “Qui tutto è incerto, tutto è nelle mani di Allah” per gli extracomunitari (p. 83). Qualcosa sta inghiottendo quel vicinissimo Oriente, la vecchia Costantinopoli: “Una volta a Istanbul c'erano greci, armeni, ebrei, una borghesia commerciale che faceva rete con la Mitteleuropa e rendeva tutto più vicino. Le pulizie etniche del ventesimo secolo hanno rotto questo equilibrio. E Istanbul, città europea, oggi diventa più asiatica, subisce un pauroso inurbamento dalle montagne anatoliche” (p. 84). L'Oriente, “portale che schiudeva mondi nuovi”, è diventato Est, “reticolato che esclude”.

Quinto passo: “Capolinea Bisanzio”, ossia “regioni adriatiche in auto”. Per questo Adriatico non più percepito come “mare nostrum”, nell'Italia tirrenocentrica (p. 136), dimentica dell'antica lezione di Venezia, della sua naturale apertura a Est. “Chi parla di Adriatico mare perduto esprime il rimpianto per l'universalità di Venezia, un'universalità talvolta piratesca, ma più spesso garantista. Il segno di quell'universalità è ancora qui, lo leggi nella topografia ai piedi del campanile, è scritto sulla Riva degli Schiavoni, nelle pietre del Ghetto, nel Fondaco dei Turchi, o nell'Isola degli Armeni. Nella pianta a croce greca di San Marco, il più grande tempio d'Oriente” (p. 136).

Il Danubio - “fiume d'Europa”, die Donau - su una chiatta: ecce “Ljubo è un battelliere”, storia di un serbo che fa il mestiere del padre, e intanto contrabbanda. Quel fiume è l'unico miracoloso elemento di continuità nell'Europa tartassata dai disordini novecenteschi. Rumiz ci informa che una ricerca di ordine, ovunque, e di identità – spesso complesse o impossibili – continua. In queste pagine trionfano le contraddizioni dei i popoli danubiani e balcanici; e non è forse un caso, infine e in sintesi, che le osservazioni migliori siano quelle dedicate all'Europa, nel libro. Queste:

“Europa vuol dire Terra del Tramonto, e il tramonto non vuol dire affatto morte: è la benedizione della quiete dopo l'attività del giorno. Perché la nostra nuova 'casa comune' nasce solo sulle monete e ignora il simbolo grandioso che la unifica?” (p. 20).

“Questo è il luogo dove le identità si addensano e non hanno alternativa tra la guerra e la coabitazione, fra l'autodistruggersi e l'essere spazio unitario di spirito e di civiltà. L'Europa è un arcipelago, con le diversità interrelate al punto che l'assenza di una sola di esse provocherebbe un crollo globale. Uno stomaco capace di digerire popoli e culture, senza farne mai un meticciato informe” (p. 65).

Ecco, l'essenza dell'Oriente di Rumiz si riconosce meglio quando comincia a parlare di Europa. Curioso, vero? Soltanto un triestino riesce a riconoscere tanti “capolinea del nulla” e tanti contrasti etnici in una carta geografica chiara e limpida per la maggioranza assoluta degli italiani; che sia una piccola pietra miliare, allora, in questo sentiero di osservazione e di studio della vita di nazioni nuove ma a volte davvero antiche, e magari compagno di viaggio – d'un viaggio lentissimo, meditato, nato studiando prima il “Danubio” di Magris. Un viaggio vissuto sognando un rinnovato amore degli italiani per l'Adriatico, e una nuova e pacifica coesistenza tra popoli spesso nemici; e il ritorno a casa dei popoli scacciati dalle proprie terre, dall'Istria in giù – popoli espropriati dalla marepatria, e da allora perfettamente sommersi nella memoria dei compatrioti. Sbaglio?

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Paolo Rumiz (Trieste, 1947), giornalista e scrittore italiano. Ha esordito pubblicando “Danubio. Storie di una nuova Europa” (1990).

Paolo Rumiz, “È Oriente”, Feltrinelli, Milano 2003. Collana “I Narratori”.

Gianfranco Franchi, ottobre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Ecco, l’essenza dell’Oriente di Rumiz si riconosce meglio quando comincia a parlare di Europa.