Diceria dell’untore

Diceria dell'untore Book Cover Diceria dell'untore
Gesualdo Bufalino
Sellerio
2009
9788838924019

Così, chi da poco chi da pochissimo, vivevamo alla Rocca, insieme ad altri che non nomino, io che vi parlo, e il colonnello, Sebastiano, Luigi, Luigi, Giovanni, Angelo: cascami della storia, uno sfrido umano. Tutti già soldati, per mestiere o per forza; ora ugualmente colpiti e con pronostico uguale; custoditi, intorno, da un reticolato, noi e nessun altro in Europa, ormai. Ed eravamo qui giunti a frotta, sotto stracciate mantelline d’eroi, da mille posti diversi”. (G.Bufalino, “Diceria dell’untore”).

Reduci di guerra, prigionieri in un sanatorio; smarriti, estraniati e incastrati nelle seduttive spire dell’idea della morte; la memoria e la fantasia sono la difesa, l’attesa è aggressiva e lenta. La vita è offesa e sospesa, c’è soltanto incandescenza e vitalità: è differente. Irresistibile il richiamo dell’epilogo: sopravvivenza è tormento, e solleva rifugiarsi nel sogno del grande viaggio.

Romanzo di intervallo, di buio e di ombra, “Diceria dell’untore” è opera prima d’uno scrittore che s’è concesso alle stampe dopo aver sconfitto un'apparentemente incrollabile riluttanza alla pubblicazione: e s’è geminata, così, nel microcosmo siciliano, la fortunata apparizione d’uno scrittore avulso dalle volubili logiche editoriali e dai precari dogmi accademici. Si pensa subito a Tomasi di Lampedusa; ma è associazione di idee troppo immediata per meritare più d’un passaggio. Perché Bufalino non sembra ereditare, né tanto meno sintetizzare, la tradizione culturale della sua isola o lo spirito dei conterranei immediatamente antecedenti: distante com’è dal macabro e torbido realismo del Verga, dalle sfortunate e odiosette istanze documentaristiche del Capuana, può al limite essere accostato a certi improvvisi acuti pirandelliani tutti volti al thanatos; le affinità isolane mi sembra possano interrompersi qui. Non basta nominare la propria terra per poterle appartenere.

La lingua di Bufalino mi sembra possa essere felicemente accomunata, all’opposto, a quella di letterati ancora trascurati e fraintesi ai giorni nostri: ho ritrovato l’effervescenza di Savinio, la ricchezza e la raffinatezza di Manganelli e la delirante e sofisticata prosa del primo Arbasino. L’ambientazione e l’argomento mi sono sembrati degni d’esser accostati al “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, pur con le dovute e certo non trascurabili distanze: questa “Diceria dell’untore” è certo meno immaginifica e meno evocativa, ma il simbolismo non è meno universale e il sentimento di sfida e di attesa della morte non mi sembra tanto alieno da quello buzzatiano. Azzarderei ancor più: rivalutando il potenziale di una analogia con il Meneghello de “I piccoli maestri”, per il segreto furore demistificatorio, e l’ostentata serenità espositiva. C’è in entrambi i romanzi la manifesta volontà di decostruire certo artefatto superomismo, assai male mascherato da minimalismo antieroico, proprio di certa narrativa ambientata nella prima metà degli anni Quaranta. Meneghello e Bufalino raccontano la guerra da altre prospettive, preferendo angolature meno chiassose e meno propagandabili; raccontano la desolazione e la dissoluzione della giovinezza, godendo, negli istanti di vita pura, sensualità e sentimento, di singolari e fragilissime gioie; e marcendo, altrimenti, e compatendo, e maledicendo. “Solo l’infelicità è degli uomini, la disperazione è di Dio”. Scrive Bufalino, raccontando le riflessioni, vergate sui margini di una Filotea, d’un sacerdote di Cividale, tra le anime più credibili e fascinose di questo romanzo: Padre Vittorio giudica la preghiera un vizio solitario, e ogni morte un assassinio. Dio, gigantesco eufemismo – sembra borbottare. Il mistero non si risolve: si delinea, ma delineandosi si deforma e si fraintende; si disperde il senso, è deriva dei significati.

E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d’aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita. Almeno finché la babilonia della luce non fosse tornata a proclamare sui tetti, per chi se ne stava dimenticando, che un altro giorno ci aspettava dietro l’angolo, con la sua razione infallibile di dileggio e di pena. E sarebbe stato un giorno di meno, uno dei pochi rimasti”. E questo frammento è forse la chiave per leggere quella colluttazione con la salvezza e la dannazione che vive il protagonista del romanzo, nei giorni del sanatorio della Conca d’Oro: il trionfo improvviso del sogno e dell’immaginazione sulla realtà, che non è combattuta, ma rifiutata e al contempo spontaneamente incarnata: ci si veste della noia, di quella lenta dissipazione dell’umanità che certo è l’attesa di morire; la noia è madre della fantasia più sfrenata. La fuga da se stessi è il contrabbando della vita; è forse spogliarsi dell’anima, o il consacrarla alla poiesis. Che significa rinunciare all’anima, a volte; ovvero, o almeno, può significarlo.

Il lettore ansioso di prose singultiche e singhiozzanti e frammentate può barattare certi eccessi e certe ridondanze bizantine di Bufalino con il puro piacere estetico della comprensione di un altro mondo; quello di chi vive nell’intervallo, nella sospensione, nel più cupo silenzio della speranza; tra la guerra e il futuro, tra la morte e la vita. Incontrerà il racconto di un amore, forse inatteso; si perderà certo nei labirinti dell’untore, sconfortato dalla diceria; si smarrirà cercando eredità dei conterranei dell’autore; tornerà infine alla vita, dopo l’immersione nell’oblio della vita.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Gesualdo Bufalino (Comiso,1920 – Comiso, 1996), dottore in Lettere, romanziere e poeta siciliano.

Gesualdo Bufalino, “Diceria dell’untore”, Sellerio, Palermo, 1981. Poi in Bompiani, 2016.

Il romanzo, opera prima dello scrittore siciliano, fu ideato e iniziato nel 1950 e concluso nei primi anni Settanta, dopo aver attraversato una dolorosa e complessa revisione. Suggerisce significati, in apertura, l’artista. Trascrive, e forse spiega: Diceria”: Discorso per lo più non breve, detto di viva voce; poi anche scritto e stampato… Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte… Il troppo discorrere intorno a persona o cosa… (Tommaseo-Bellini).

Untore”: Dispensatore et fabbricatore delli onti pestiferi, sparsi per questa Città, ad estinzione del popolo… (“Carte del processo”, 1630).

Gianfranco Franchi, aprile 2003.

Prima pubblicazione: Lankelot.