Dalmazia Dalmazia! Viaggio sentimentale da Trieste alle Bocche di Cattaro

Dalmazia Dalmazia! Viaggio sentimentale da Trieste alle Bocche di Cattaro Book Cover Dalmazia Dalmazia! Viaggio sentimentale da Trieste alle Bocche di Cattaro
Emilio Rigatti
Ediciclo
2009
9788888829616

Un viaggio in bici verso la terra perduta, la Dalmazia madre dell'amata Zara, e verso una terra splendida e cara all'artista, il Montenegro. Narratore d'eccezione, il letterato Emilio Rigatti, protagonista di questo emozionante viaggio sulla riviera adriatica, sulle tracce della cancellata (forse discussa, ma non rimossa) storia della sua famiglia, per reminiscenze della recente, drammatica guerra sfascia-Jugoslavia e di quella più antica che noi italiani ben ricordiamo, per via delle ferite mai rimarginate, figlie della mutilazione del nostro territorio, e della diaspora del nostro popolo.

Rigatti accenna, nelle prime battute, ai settant'anni di vita passati dalla sua famiglia in una villa zaratina. Una famiglia vittima non solo del doloroso esodo giuliano-dalmata, ma anche di visioni politiche differenti: il narratore, per dirne una, da comunista era – sulle prime – stupidamente tutto contento di essere stato mandato fuori da casa sua a calci nel culo da Tito (p. 13), mentre per suo zio Oddone Talpo quanto accaduto era un crimine assurdo e ingiusto, proprio come i bombardamenti angloamericani (per consiglio titino...) su Zara. Ma il modello di Emilio Rigatti è la compostezza e l'eleganza della zia, esule a Roma, innamorata della sua città perduta – una calviniana “città invisibile” – nella percezione del nevodo mato: nelle sue parole non ricorda tracce di revanscismo o di amarezza, ma “la vibrazione di un città ideale, civile, luminosa, una ventosa agorà che non esiste sulla terra. Non so se Zara sia stata veramente così e non lo saprò mai” (p. 15). Come nessuno di noi, d'altra parte, da quando Zara s'è fatta Zadar. Ma come “città invisibile”, tuttavia, Zara splende di una grandezza incancellabile, onirica. Il resto è patrimonio della storia, di chi vuole studiarla e di chi sa studiarla.

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Si comincia dalle parti di Fiume e di Abbazia (oggi, Rijeka e Opatija), con ellissi della vera origine: Trieste. “Se la Dalmazia è entrata nella mia geografia personale attraverso mio padre, dalla nonna Alba, madre di mia madre, ho ereditato un possesso feudale affettivo su parte dell'Istria. La nonna era nata austriaca a San Lorenzo di Daila, vicino a Cittanova. Cherso, invece (…) è la prima isola in cui misi piede” (p. 19), racconta l'autore.

A Fiume, Rigatti riconosce l'aria asburgica di una Vienna sparita, ferita dalla grigia polvere del socialismo jugoslavo; a Kraljevica, incontra suoi compagni slavi, tra i quali l'inevitabile partigiano nostalgico dei tempi di Tito, tutto un aneddoto del 1944, vago retrogusto “Underground” di Kusturica: non sarà l'unico amarcord titino. Non apprezzo e non approvo affatto, ma non discuto. Quindi, eccolo a Veglia (oggi, Krk), ad ammirare le mura veneziane, avanzando per le vie tortuose e strette che salgono sino alla parte più alta del borgo. La selvatica Pago (oggi, Pag) è una tappa veloce, prima dell'amata Zara. Rigatti entra in città e subito telefona ai parenti; andrà a cercare la casa del nonno e la tomba di famiglia, nelle sue intenzioni. Invano: la casa è caduta durante i bombardamenti degli Alleati nella Seconda Guerra, bombardamenti “spietati e non motivati da una reale importanza strategica dell'obiettivo. Zara come Cassino, o Dresda, o Foggia, o Benevento, una storia ancora in parte da scrivere e pericolosa da insegnare nelle scuole” (p. 49), chiosa.

La tomba, invece, è solo quella di un Nicolò Rigatti morto nel 1895; la famiglia s'affanna a ricostruire chi sia. Le nuove case hanno “abolito il profilo dell'antica città”. La Zara di Rigatti è uno stato mentale. È quella delle parole della zia, prigioniera d'un passato che proprio non può incarnarsi più.

Avanti, quindi, per Sebenico e Traù: “Una di quelle città che fanno credere che esistano luoghi dove sia possibile un parziale arrestarsi del tempo, in cui il panta rei acquatico possa addormentarsi in una morta, come la corrente dietro i piloni. Qui l'elemento che si calma dietro i bastioni non è l'acqua, ma la luce. Magari in simbiosi con la pietra, o diffusa in cielo a scialbare il troppo azzurro, la protagonista è lei: la verticale, eccessiva, alluvionale luce dalmata” (p. 60).

Ecco l'isola di Brazza, l'ospitalità di amici degli amici Luxardo, e poi la dolce Lesina (Hvar), e Rigatti pensa: “Veniamo qui proprio per questo, credo: per sentirci soffocare di bora e d'azzurro luminoso come lenzuola, per vivere con gli occhi socchiusi, per assaporare di sera del vino dalmata ghiacciato, mentre i monti sembrano andare alla deriva verso la notte” (p. 73). E poi si vira dalle parti di Neum, si supera l'impatto col peggiore albergo del mondo e con le congetture più stravaganti dettate dall'etimologia fantastica, e quindi ecco Trsteno, col suo favoloso albero (un platano di ottocento anni, trentasei metri di diametro), magnifica vittoria della natura sulle storie dei popoli europei. S'avvicina l'agognato Montenegro, Rigatti è felice perché ripercorrerà i suoi passi di vent'anni prima; qui, però, mi interrompo.

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C'è un passo, nelle prime battute, che mi ha colpito. È una memoria di infanzia, di una cena in famiglia, piena di battute sulla perduta patria. “Non me ne importava niente di morire per la Dalmazia, avevo cinque anni e mi sentivo un eroe. Sarei morto per quel paese che non conoscevo, perché credevo che la morte non esistesse e la Dalmazia si disegnava nella mia fantasia con la potenza dell'irreale che solo i bambini sanno vedere. La Dalmazia certamente era blu, come la bandiera di Zara, e gli zaratini dovevano essere aristocratici, intonati e convinti come il nonno, che dopo aver concluso il canto alzava il calice e gridava: 'Fora le cavre!', cioè, 'Fuori i s-ciavi', gli iugoslavi, insomma” (p. 11). E questo a dispetto delle inevitabili commistioni di sangue, solite dalle nostre parti: Rigatti aveva (e vantava) sangue serbo e croato, tra i suoi antenati. L'autore non è un nostalgico, e sembra piuttosto felice per la passata fortuna della nazione jugoslava; oggi, il suo approccio fraterno e solidale sembra suggerire una speranza di coesistenza tra popoli nemici, al di là delle ideologie che hanno straziato la nostra storia: chissà che non possa derivarne un equilibrio molto antico (Romano, Veneziano, Austriaco) e nuovo.

Non riesco a credere che Rigatti abbia potuto parlare di Zara, e di quel che ha implicato il socialismo jugoslavo, con tanta dolcezza e tanta comprensione; nella narrazione mostra rabbia solo per la questione dei bombardamenti. Non mi stupisce, invece, che l'autore conosca la lingua dei croati: è un'antica tradizione dalmatica, quella della poliglossia. Bettiza insegna. Certo: decidere (suggerire?) che il dalmatico è un dialetto più croato che italiano mi sembra una scelta di campo. Una delle tante niente affatto mascherate, e quindi pienamente accettabili, apparse in questo viaggio.

Agli amici ciclisti segnalo volentieri che in appendice troveranno tutta una serie di consigli e suggerimenti per il viaggio. Mi permetto, tuttavia, di invitarli a partire dopo aver letto i libri di Bettiza, quelli di Vegliani e almeno “Trieste” di Ara e Magris; è allora che questo reportage si rivelerà per quel che è, e cioè un libro divertente, semplice, intenso, emozionante, personalissimo. E rosso.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Emilio Rigatti (Gorizia, 1954), scrittore italiano, è insegnante di italiano alla scuola media di Aiello, in Friuli. Ha pubblicato, sempre per Ediciclo, “La strada per Istanbul”, “Minima pedalia”, “Yo no soy gringo”, “Italia fuorirotta”.

Emilio Rigatti, “Dalmazia Dalmazia. Viaggio sentimentale da Trieste alle Bocche di Cattaro”, Ediciclo, Portogruaro, 2009. Collana “Altre Terre”, 16. Contiene un inserto fotografico.

Gianfranco Franchi, dicembre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.