Dall’inferno

Dall'inferno Book Cover Dall'inferno
Giorgio Manganelli
Adelphi
1998
9788845913624

“Se questo è l'inferno, questo è il luogo della mia eternità; è la forma di durata che mi sono scelto, o che mi ha scelto; dunque sono un apprendista di me stesso. Non ho il sentimento, che dovrebbe essere connaturato all'inferno, di una definitiva sconfitta; sconfitta che, per esser totale, consentirebbe una sorta di maligna pace. Quel che significhi non so: ma non ho la sensazione di esser stato sconfitto, e oscuramente sospetto che da questa mia convinzione potrà derivare una qualche specifica angoscia, ma anche una letizia mescolata a disperazione, sentimenti che per la loro acredine mi erano da tempo ignoti” (pp. 10-11).

Dove sono? Cosa significa trovarmi “qui”? Questo si domanda il protagonista del romanzo, forse morto “per una dissolta alleanza nella mia compagine carnale, e spirituale”, o “per estenuazione” o per “cedimento dell'anima”; questo domanda alla prima ombra che incontra, altrettanto disorientata e perplessa. Prima scopre che tutti, lì, sono sempre vicini, sebbene si distinguano a mala pena; per incontrarsi basta evocarsi: “non c'è la distanza, c'è solo vicinanza” (p. 18). Quindi, s'accorge che ognuno di loro, lì, sogna; non c'è tregua, e non c'è possibilità di capire se si stia sognando senza interruzione, o se non si sia sognato mai. Di fronte a sé ha un alter ego: di paglia.

A un tratto appare una bambola – piccola, e non bella, scrive Manganelli; di stoffa; feroce, e giurista; nelle mani ha una forbice dalle lame lunghe e affilate. La bambola finirà per nascondersi nel suo doppio di paglia, che diventerà “cibo e latrina” di lei: ne deriverà una simbiosi di fatto. Potrà conoscere fine? La bambola: “Al che risponde la mia interiore teologa essere codesta condizione insieme eterna e peritura; tutto l'accadere essere accadere per sempre; e tuttavia tutto aver termine; pur conservando la qualità che ella denominava 'semprità'; così come di un morto si dice che è morto per sempre; e insieme che codesta semprità trae origine dall'aver costui avuto un termine” (p. 28).

Ma non vuole uscirne: è pigra, dice, “amo questa pace buia”, “godo delle mie sevizie”, “mi diletta questa finzione di tomba, questa casa in guisa di latrina” (p. 41). E intanto il narratore muta forma: diventa luna, animale, città; s'attende di diventare labirinto.

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L'inferno di Giorgio Manganelli è surrealista: metamorfico, allucinato, imprevedibile. Le apparizioni sono spiazzanti e disorientanti, i dialoghi più filosofici che letterari; ma sempre deliranti e incredibili, soprattutto quando, nelle ultime battute, l'ultima trasformazione – in un cazzo – del narratore riesce nell'intento di far ridere di tutto: dell'inferno, della possibilità di una teologia su un falso dio, della possibilità dell'incontro con il re degli inferi, dell'assurdità di una situazione grottesca come quella di vivere con una bambola nascosta nelle proprie viscere, e via dicendo.

Difficile credere che un romanzo come questo sia una discesa – solito verbo cruciale per le opere manganelliane, naturalmente presente anche in questo libro: s'agogna un precipizio impossibile, in una dimensione che sembra non avere limiti o confini naturali, e tuttavia si presenta come una “regione” – sia una discesa, dicevo, maledetta e cupa e irrimediabile; la pioggia di coprolalie e di epifanie del fimo stabiliscono i presupposti per una lettura ludica, e tutt'altro che nera della vicenda: i dialoghi al limite del credibile, in un contesto già di per sé farsesco ma tenebroso, aiutano a visualizzare un mondo interiore popolato di mostri, di spettri, di creature sempre (almeno parzialmente) umane, ma umanamente ridotte a relitti, a frammenti di carne, a frammenti di senso. Nelle prime battute, personalmente ho sentito – meglio: riconosciuto, una volta ancora, a distanza di sette anni dalla prima lettura – fortissimi echi morselliani; morselliani, più che beckettiani, come suggerisce Calasso nella (magnifica) bandella. La ragione è che un romanzo come “Dissipatio Humani Generis” (Adelphi, 1977) non poteva non essere presente a un letterato come Manganelli, soprattutto mentre scriveva le prime pagine di questo libro. La stessa sensazione di incredulità, di spaesamento, di passaggio avvenuto senza che il narratore ne avesse memoria; la stessa necessità di capire quando e come era avvenuto questo passaggio, e la medesima percezione di isolamento, di abbandono a sé stessi, costituiscono un forte e credibile trait d'union. Manganelli poi vira nella sua poetica, sprofondando nel suo immaginario mostruoso, allucinato, letterario punto d'incontro tra le creazioni pittoriche di Bosch e quelle narrative di Landolfi, scolpendo con tre o quattro descrizioni impossibili gli scenari di un ade personale e non ripetibile, né imitabile.

Romanzo che sarebbe piaciuto molto a Breton e compagni, “Dall'inferno” andava illustrato da Savinio e tradotto al cinema da Tim Burton; un Tim Burton in vena di cazzeggio erudito, capace magari di rappresentare il sinistro cerretano (“ciarlatano”) compagno di viaggio del narratore con un attore abbastanza simile a Benigni. Come a dire: c'è inferno e inferno, la parentela tuttavia rimane; quello di Manganelli è distante – d'una distanza siderale, novecentesca e orgogliosa – da quello dantesco, ma è divertente tenerlo ben presente: serve, oltretutto, a decifrare certe “sostituzioni”.

Manganelli ha violato uno dei tabù della Letteratura Italiana, forse il tabù principe: la narrazione della vita oltre la morte, dell'oltretomba, patrimonio esclusivo di un poeta magnifico, padre d'un'opera irripetibile. Manganelli ha preteso di violare questo tabù per liberarci dal complesso d'inferiorità nei confronti d'un genio: per questo va omaggiato, per questo coraggio pazzesco. Chissà che questo seme, un giorno, possa germogliare e sprigionare un capolavoro vero.

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Esperienza estetica irrinunciabile per tutti i cultori della scrittura di GM, fondamentale per tutti gli appassionati di narrativa dell'aldilà, discretamente suggestiva per i lettori forti – che vanno ammoniti; Manganelli non è un genio del ritmo, ha i tempi e il respiro di un autore di prose brevi (in quegli squarci, sì, dà il massimo) che spesso si distende in pagine da buon critico letteraria, e in divagazioni dal chiaro retrogusto filosofico; bambinesco e volgarotto, a tratti, ma pur sempre filosofico.  Buon viaggio.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giorgio Manganelli (Milano, 1922 – Roma, 1990), narratore, critico, traduttore, giornalista e saggista italiano. Si laureò in Lettere presso l’Università di Pavia; fu consulente editoriale Adelphi, Einaudi, Mondadori.

Giorgio Manganelli, “Dall'inferno”, Adelphi, Milano 1998. Collana Biblioteca Adelphi 354.

Prima edizione: Rizzoli, 1985

Gianfranco Franchi, agosto 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.