Big Sur

Big Sur Book Cover Big Sur
Jack Kerouac
Mondadori
1998
9788804450894

Big Sur non ha confini chiari, come la scrittura di Kerouac; è un territorio selvaggio, seducente e caotico: Kerouac, scoprendolo, si chiedeva esterrefatto perché mai fosse famoso “per la sua bellezza al di là del terrore che incute, al di là del travaglio della Creazione di roccioni gemebondi che fanno pensare a Blake, e del panorama che quando viaggi sulla strada costiera in un giorno di sole offre allo sguardo chilometri e chilometri di orribile risacca battente” (Quattro, p. 801). La paura è il sentimento principe di JK, da queste parti: assieme alla meraviglia per la natura. Parla di “inospitale manicomio terrestre”, ma forse è per via del principio di delirium tremens che lo accompagnerà per tutto il romanzo. JK ormai sostiene che “l'unica cosa che conta è ciò che la mia mente concepisce” (p. 929): una mente confusa dalle droghe e dagli alcolici difficilmente può essere coerente e lucida. Non c'è niente di coerente e di lucido in questo romanzo: è l'ennesima variazione sul tema dell'unico libro di JK. Senza respiro, senza punteggiatura razionale, senza trama, senza spessore: è una vicenda egolatrica, egoica e sciatta. Incomprensibile, sconnessa, tecnicamente poverissima.

Contestualizziamo “Big Sur” con l'aiuto di Mario Corona, curatore del “Meridiano” di Kerouac: “Ritenuto il suo libro più bello da Goffredo Fofi (1988), viene portato a termine il 9 ottobre 1961, a Orlando, Florida, in dieci giorni di scrittura sostenuta dalla benzederina, usando il resto del rotolo di carta per telescrivente che gli era servito quattro anni prima per 'I vagabondi del Dharma' (…) In dicembre il testo viene ribattuto a spaziatura doppia, con i nomi delle persone/personaggi alterati. La pubblicazione avviene immediatamente, nel 1962” (p. LXXVI). Quando si dice “bona la prima”...

Cos'è successo tra “I vagabondi del Dharma” e “Big Sur”? Kerouac s'è scoperto Proust: a Proust direttamente si assimila, nell'introduzione all'opera, spiegando che le sue opere costituiscono un unico grande libro esattamente come nel caso del maestro; nel suo caso, s'è trattato di un lavoro composto strada facendo. Tutta qui, la differenza. E poi? E poi già nella prima pagina si autonomina “re dei beatnik”, salvo poi ricordarci che s'è trattato di invenzione giornalistica. Si sente artista famoso e dichiara di impazzire (pagina seconda) “per la valanga di telegrammi, telefonate, richieste, lettere, visite, giornalisti, ficcanaso”; è già stufo dei suoi tanti cloni, “sono arcistufo di tutti gli entusiasmi infiniti dei nuovi bambocci che vogliono conoscermi e scaricarmi addosso tutta la loro vita per farmi saltare su e giù dicendo sì sì hai ragione” (p. 888). Se solo sapesse quanto siamo stufi noi, dei suoi cloni, cinquant'anni dopo.

Intanto, beve, beve a tutto spiano: per lo stress, per il disagio, per la contentezza... alcol. Ci sono frammenti dedicati agli incubi dei bevitori che rimangono decisamente impressi (Quattordici, p. 857), quando JK racconta del delirio, dell'insonnia, del sudore e dei tremiti dell'alcolista che lascia la bottiglia dopo quattro o cinque giorni di sbronze.

Bastona qualche autore che non ritiene alla sua altezza (Hesse per “Il lupo della steppa”), vagabonda, fa qualche perplesso autostop, cerca comprensione nel suo clan di grandi artisti – come sempre – accenna soltanto al terribile misticismo emi-new age che aveva tracimato nei “Vagabondi”, s'abbandona alle solite descrizioni irrisolte e un po' straccione (“La stuoia della notte accoglie l'amore mugolante glorioso divino suppongo, ma allo stesso tempo anche noioso in un certo senso e parlandone ridiamo entrambi”: p. 927: ma cosa significa? E non è il passo più contorto e stupido), blatera qualcosa di non sempre chiaro a proposito del suo grande isolamento e della difficoltà di interagire serenamente con l'alterità.

Quindi? Quindi io allargo le braccia e mi fermo definitivamente qui. Leggere Kerouac è stato come restare a guardare le briciole di una grande torta cucinata da uno chef di fama internazionale; è molto difficile immaginare come dovesse essere quella torta soltanto contando le briciole, serve proprio una gran fantasia. Potrei anche averla, ma non ho nessuna intenzione di spenderla. Per chi è stato suo contemporaneo, bastavano quelle briciole per visualizzare torta, candele e chef – con tanto di cappello d'ordinanza. Delle fantasie d'un generico antagonismo, fortunosamente estraneo alle ideologie, sempre abbinato a stravizi d'ogni genere, vagamente ecologico e vagamente spirituale, non credo abbia bisogno il nostro tempo. Spurgato da tutto questo, JK rimane un autorello d'una Letteratura ancora molto giovane – quella Americana – con molte pretese d'eternità, e nessuna ragione di potere ambire ad appartenerle. Farei carte false per viaggiare nel tempo, e sfogliare la Storia della Letteratura Nordamericana scritta nel 2250: io dico che di questo signore non rimarrà che un paragrafo concentrato su “On The Road”, nel contesto di quattro paginette dedicate ai beatnik. Kerouac – la scrittura di Kerouac – è carne morta.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Jean-Louis Lebris de Kerouac, alias Jack Kerouac (Lowell, 1922 – St. Petersburg, 1969), scrittore americano, di sangue franco-canadese, cattolico; fu tra i padri della Beat Generation.

Jack Kerouac, “Big Sur”, in “Romanzi”, Mondadori, Milano 2001. A cura e con un saggio introduttivo di Mario Corona. Traduzione di Igor Legati.

Prima edizione: “Big Sur”, 1962.

Gianfranco Franchi, agosto 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.