Biasella prima di Biasella

Poche settimane fa, a Castel di Sangro, ha firmato un contratto per la cessione dei diritti di uno dei suoi outsider, Silvia Ferreri, in Cina; nel corso di circa dieci anni di attività, ha scoperto e lanciato talenti come il narratore padovano Paolo Zardi, come la poetessa Alessandra Racca; come editore, ha dato un contributo decisivo alla riapertura della famigerata “Transiberiana d’Italia“; come scout, ha scelto artisti che si sono aggiudicati il premio Solinas (Gianni Tetti) o si sono ritrovati in finale allo Strega (Paolo Zardi e Silvia Ferreri). Le sue interviste, sin qua, hanno raccontato, con apprezzabile coerenza e linearità, la storia della sua Neo Edizioni, il suo sodalizio con Francesco Coscioni, lo spirito delle collane. Nessuno ha raccontato Biasella prima di Biasella. Chi è, davvero, il papà della Neo?

Bologna, primi anni Novanta. Un giovane studente abruzzese, una passionaccia per la Teoria dei Sistemi di Luhmann, studia Scienze Politiche. Cosa puoi raccontarci di quegli anni? C’è stato tanto disordine? Chi è stato il tuo mentore?

Non ricordo esattamente ma, a quel tempo, dovevo essere del tutto sprovveduto o già molto avvezzo alla vita, giacché il primo atto del me stesso studente fu di assoldare un’agenzia che m’iscrivesse alla facoltà evitandomi ogni sorta di trafila burocratica. Sono certo che mio padre mi diede del coglione (non lo disse, è taciturno, ma lo pensò sicuramente). Mia madre, invece, tra sé e sé, si complimentò per i geni conferitimi e mormorò, sorridendo: «Risoluto». Mio fratello, dal canto suo, m’insultò apertamente per i tre mesi seguenti.

Partimmo in quattro dal paesello. Un anno dopo, eravamo rimasti in due. Il terzo anno, c’ero solo io. Una moria delle vacche che manco il principe De Curtis avrebbe preventivato. Pensandoci adesso, non capisco da dove venisse quella stolida ostinazione a insistere. Fin lì ero stato uno che mollava. Forse mi ero responsabilizzato oppure la vita bolognese aveva iniziato a piacermi. Tant’è che continuai a studicchiare nei ritagli di tempo tra i concerti nei centri sociali e le partite di basket al playground dei giardini Margherita. Misi su anche un gruppo (una roba improponibile a metà tra grunge e alternative rock) ma durò poco perché io come batterista sono una pippa.

Se ripenso alla mia “carriera” universitaria, l’unica figura importante che mi viene in mente è quella di Giovanni Boccia Artieri. All’epoca era un assistente di Teoria dell’informazione. Seguii tutte le lezioni con interesse febbrile e il suo libro Lo sguardo virtuale mi aprì la mente dandomi una prospettiva diversa dalla quale continuo a guardare il mondo. Chiaramente non mi palesai. Ero timido, introverso. Solo ultimamente, dopo averlo ritrovato su facebook, gli ho scritto un lungo ed esaustivo messaggio per ringraziarlo al quale lui ha risposto: “Ciao Angelo, grazie, veramente”.

Cosa ti aveva spinto a scegliere Scienze Politiche? Cosa volevi diventare? A cosa (o chi) volevi servire, nel tempo? In cosa credevi? E perché avevi scelto proprio Bologna?

Da giovane ero interessato alla res publica. Più di quanto lo sia adesso, intendo. Gli anni del liceo furono intensi dal punto di vista del fermento politico. Si parlava tanto (non c’erano ancora i social) e spesso si sfiorava la rissa in tenzoni dialettiche che puntualmente non portavano a niente. A pensarci adesso, erano momenti confusionali di un candore struggente. Scienze Politiche perché, ingenuo com’ero, miravo a riverberare nel tempo le sensazioni che provavo abbarbicato sugli scranni della mia fazione mentre, come schegge impazzite, pontificavamo (senza alcun rudimento in materia) e poi andavamo a letto ancora carichi di adrenalina. All’epoca ero asservito a un’idea di giustizia universale. Nella mia professione vedevo le Nazioni Unite, la risoluzione del conflitto in Jugoslavia, un anziano Biasella che sedava l’intifada a favore dei palestinesi. Avevo ancora fiducia nell’uomo. Credevo che, al netto delle barbarie di cui è capace, ci fosse sempre una ragione sottesa; una tensione che, anche inconsciamente, portasse la specie verso un futuro migliore. Bologna, in quegli anni, prometteva un cammino in tal senso. Per questo mi adagiai nel suo grembo, carico di belle speranze.

Cosa leggevi in quegli anni? Quali sono state le letture fondamentali, in quel periodo?

Fino al liceo non avevo letto granché. Avevo approcciato qualche classicone russo, Primo Levi, il sempiterno Richard Bach e gli studi di Freud e Jung sulla psicanalisi. Ma erano perlopiù stratagemmi da poser per irretire qualche sprovveduta. I miei interessi erano altri, ed esulavano dalla materia letteraria. All’università, invece, iniziai a leggere in maniera continuativa. Lo facevo più che altro per bypassare i libri di testo. In una sorta di autoconvincimento nocivo, mascheravo il mio diniego a studiare con un’inedita brama di letteratura “alta”. Così, scansavo i manuali di Sociologia ma passavo comunque ore alla scrivania leggendo altro. Per qualche assurdo meccanismo mentale, la strategia non produceva sensi di colpa difficili da gestire. Solo una punta di sconforto esistenziale man mano che si avvicinava l’esame. Così andai avanti per anni. Sempre stato un mago dell’elusione.

Grazie all’avversione per le materie di studio, quindi, mi approcciai alla lettura. In quel periodo, soprattutto americani e francesi. Lessi molto ‒ forse tutto ‒ Bukowski (sì, lo so, è banale), Henry Miller e Burroughs (senza capirci un cazzo). Da Miller andai a finire ad Anais Nin, a da lì alle opere di Otto Rank. Infine, pasteggiai Sartre, Camus e Céline. Per motivi insondabili, già allora mi piacevano le cose “traverse”. Mai andato d’accordo con il mainstream. Nel senso, mi piacciono le cose particolari che potrebbero diventarlo, ma mai quelle che nascono con l’intento di esserlo.

Passa qualche anno. Angelo Biasella, archiviata la tesi sullo sviluppo sostenibile nel territorio della Comunità Montana dell’Alto Sangro e Altopiano delle Cinquemiglia, s’inventa giornalista. Mi racconti com’è iniziato tutto?

Ho iniziato, per gioco, a scrivere su ZAC, un mensile di inchieste della mia zona. Mi ha fatto bene perché il direttore, Patrizio Iavarone, era un impavido che combatteva contro ogni tipo di ingiustizia. Mi ha dato carta bianca e subito ho iniziato a scrivere cose che urtavano la classe dirigente. Era divertente e stimolante. Avevo anche un mio spazio in cui recensivo libri di autori abruzzesi. Poi, dopo qualche anno, mi ha ingaggiato Il Centro, del gruppo “Espresso”, il quotidiano più letto in Abruzzo. Lì mi è passata la voglia di fare il giornalista. I ritmi serrati, la pochezza dei contenuti, i tagli che facevano ai miei articoli senza chiedere il permesso, la necessità di dover compiacere questa o quella parte politica mi hanno stomacato in fretta. Non ricordo bene, ma penso di essere durato nemmeno due anni. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando morirono quattro minorenni in un incidente stradale. Mi recai sul luogo insieme al mio caporedattore e lì vidi i corpi straziati dei ragazzi in braccio alle madri in lacrime. Quando mi chiesero di andare a intervistare i genitori, mi rifiutai. Il mattino dopo, il caporedattore si complimentò con i colleghi “per la bellissima pagina redatta”, allora capii che non era la mia strada.

Il tempo di prendere la tessera, e mi sono licenziato.

Torniamo, per un attimo, al presente. Cosa ti rimane, adesso, degli anni dedicati al giornalismo? Quanto sei riuscito a essere fedele al desiderio di combattere contro le ingiustizie, da editore, sin qua? Penso a “Palace of the End” della Thompson, pubblicato nel 2010. Penso ovviamente a “Coi binari tra le nuvole” di Finelli, 2012.

La battaglia si è spostata su altri fronti ma non so quanto volutamente. L’idea alla base del progetto Neo era di fare buona letteratura, ma non necessariamente impegnata. In effetti, il catalogo rispecchia il nostro carattere. Siamo gioviali, scanzonati ma anche intransigenti e moralmente retti sotto alcuni aspetti. È inevitabile, poi, che l’indole degli editori influenzi le scelte che fanno. E allora, negli anni, accanto alla (apparente) leggerezza dei testi di Alessandra Racca, sono fioriti libri più “pesi”. Oltre ai due che hai citato, ricordo Guida alla vita laica di Roberto Anzellotti, vademecum utile e indispensabile contro le ingerenze della Chiesa cattolica nella vita dei cittadini; Pensiero madre, antologia curata da Federica De Paolis, in cui si indaga, da un’angolazione prettamente femminile, il desiderio di diventare madre o il sacrosanto diritto di non esserlo; Gli stonati, libro curato da Alessio Romano, un manifesto letterario a favore della legalizzazione della cannabis; La madre di Eva di Silvia Ferreri in cui si affronta il tema della disforia di genere dal punto di vista genitoriale. Io, però, darei connotazioni politiche anche a XXI secolo di Paolo Zardi, a Grande nudo di Gianni Tetti, a Cometa di Gregorio Magini e a Genesi 3.0 di Angelo Calvisi. La distopia, nella tradizione italiana, è sempre un atto di accusa contro il potere costituito, un tentativo di smuovere le coscienze e compromettere l’attuale stato di cose. Per assurdo, anche Vinpeel degli orizzonti di Peppe Millanta è un romanzo rivoluzionario. Predica il “bello” in un’epoca che ha fatto di acredine e sopraffazione i propri tratti distintivi.

Quanto ti ha formato, come editor e come editore, l’esperienza d’essere stato un giornalista al quale, tutto a un tratto, tagliavano i pezzi senza nemmeno dire “a”? Cosa hai imparato dagli editor macellai dei quotidiani e di certi periodici?

Ho imparato a fare il contrario. La redazione di un quotidiano è un antro infernale per chi si avvicina alla scrittura con un minimo di aspirazione letteraria. Al mio caporedattore andava in fumo il cervello se azzardavo una subordinata in un periodo di 200 battute. Hai voglia a spiegare che non tutti siamo Hemingway e che la paratassi è un’arte difficile da maneggiare se, appunto, non sei quel fottuto yankee (o Gianni Tetti).

A parte gli scherzi, ho imparato a mediare. Sono convinto che l’editing debba essere il risultato del miglior compromesso possibile tra editor e autore. L’incuria con cui mi tagliavano i pezzi ha fatto nascere in me una forma di rispetto archetipica verso l’opera su cui lavoro. Ho gusti difficili ‒ molto ‒ ma, una volta che scelgo un libro da pubblicare, faccio di tutto per farlo rendere al massimo del suo potenziale. A monte c’è una fascinazione; durante, innamoramento; al momento del lancio, puro orgoglio.

Per quanto riguarda la metodologia, ho sempre pensato che l’editing fosse simile al rodeo pentro di Montenero Val Cocchiara. Posso avere tutti gli strumenti necessari, e saperli maneggiare, ma sarà sempre una nuova avventura. Non ci sono tecniche inoppugnabili, dogmi, comandamenti. Ogni volta è diverso e il rapporto cambia a seconda del testo, dell’autore, del periodo storico, dell’umore di entrambe le parti in causa. Posso impiegarci tempo o può essere breve. Può essere complesso o indolore. Posso usare la delicatezza o la forza bruta. Anche quando uso il bastone, però, lo faccio in nome di un bene superiore. L’opera è in cima alla scala di importanza; tutti i fattori in gioco per migliorarla (compresi editor e autore) sono due gradini più in basso. È necessario azzerare l’Ego e votarsi a una sorta di abnegazione monastica che abbia come unico anelito la validità del prodotto finale. Chiaramente, nel gioco delle parti, l’ultima parola spetta all’autore ma io so essere molto persuasivo, e caparbio al limite dell’ignoranza.

È esatto dire che hai cominciato a fare scouting quando scrivevi recensioni sui libri degli artisti abruzzesi o comunque legati alla tua terra? Chi hai scoperto, in quel periodo? Chi vorresti recuperare?

A quel tempo ero poco a fuoco. Non s’era ancora condensato, in me, il nucleo fondativo della Neo Edizioni. Sentivo che la parola scritta sarebbe stata parte della mia vita ma non presagivo l’orrore che sarei diventato. Leggevo per passione e recensivo, forse, per darmi una connotazione. Avvertivo il bisogno di delimitare i miei gusti per capire meglio me stesso e quello che volevo essere. Fondamentalmente, avevo bisogno di esprimermi. Penso che tutto si riduca a questo. E scrivere di libri mi dava soddisfazione. Ho un’ammirazione maniacale per l’intelletto umano. Assistere al concretarsi del genio; essere davanti alla sua rappresentazione terrena ‒ in qualsiasi forma artistica ‒ è, probabilmente, lo scopo principale della mia esistenza. Credo sia il triste destino dei NON baciati dalla fortuna. Ecco, io non ho alcun talento, però credo di saperlo riconoscere negli altri.

A tal proposito ‒ non posso dire di averlo scoperto io ‒ ma in quegli anni incappai nei romanzi di Giovanni D’Alessandro (Se un Dio pietoso e La puttana del tedesco) e penso ancora che sia l’autore abruzzese contemporaneo più autorevole, per voce e ambizione letteraria. Delle generazioni successive, invece, mi colpirono Sushi bar Sarajevo di Giovanni Di Iacovo e Le giostre sono per gli scemi, l’esordio di Barbara Di Gregorio. Una boccata d’aria fresca per la scena letteraria abruzzese, perennemente schiacciata in mezzo allo stinto Flaiano e alle immarcescibili prosopopee dannunziane. Se proprio devo scegliere un nume tutelare della letteratura abruzzese, vado indubbiamente su Silone. Nessuno tocchi Silone!

Dopo gli anni del giornalismo si avvicina la fondazione della tua Neo. Prima, c’è stato un corso di editing diretto da Nicola Lagioia, un classico corso minimum fax. Poi, c’è stato un periodo da freelance. Cosa ti è rimasto più impresso di questo periodo? Con chi hai collaborato, e che treni hai perso? Chi t’è piaciuto, e chi hai rifiutato?

Il corso minimum fax ‒ nella vecchia sede di Ponte Milvio ‒ più che insegnarmi cose, mi diede certezze. Aspetto fondamentale per il lavoro che andavo a fare. Insomma, per chiedere a un autore di rivedere il suo testo, devi essere molto convinto del fatto tuo (o almeno dare l’idea di esserlo). È come affondare le mani e rimestare nella sua anima. Se sei poco credibile, e non proponi soluzioni accettabili, perdi la sua fiducia e il lavoro diventa un calvario di malintesi e recriminazioni.

Come freelance mi sono occupato di cose tutt’altro che memorabili. Qualche pubblicazione di editoria a pagamento, un paio di correzioni bozze. “Opere” di una mediocrità avvilente. Probabile che l’idea di aprire una casa editrice sia germogliata esattamente in quel periodo per bilanciare, in me, lo scoramento provocato da quei lavoretti.

In quegli anni, l’unico treno importante che ricordo di non aver preso… probabilmente mi avrebbe portato a Roma nella redazione de L’Espresso. Non ricordo le ragioni per cui non andai. Devo averle rimosse. Forse il giornalismo era già uscito dalle mie priorità oppure, più semplicemente, ero un pavido… più di quanto avrò mai il coraggio di ammettere.

Quanto ai rifiuti, ce n’è uno presunto che alimenta illazioni e dileggi tra colleghi da dieci anni a questa parte. Quel masaniello di Marco Marsullo va ripetendo, da tempo immemore, che io gli avrei rifiutato un romanzo (poi pubblicato da Einaudi col titolo Atletico Minaccia Football Club). Non gli credete. È un impostore. La verità è che non arrivai a leggerlo in tempi utili. Lo lessi dopo, un volta uscito… e comunque no, non gliel’avrei pubblicato.

Cosa leggevi in quel periodo? Come sceglievi le tue letture? Cosa ti affascinava di più, cosa ti infastidiva, cosa reclamava il tuo sguardo?

Ho l’alzheimer ma nella nebbia dei tempi scorgo libri come Woobinda, Molto forte incredibilmente vicino, Il vangelo secondo Biff, Correndo con le forbici in mano, Me parlare bello un giorno. Robette del genere segnarono il passo nella mia formazione di lettore frivolo. M’insegnarono che la letteratura può essere anche divertente. Poi, però, siccome, di fondo, sono un pesantone, in quegli anni uscii di testa per Michel Houellebecq. Estensione del dominio della lotta fu un’epifania. Il francese aveva le mie idee ma sapeva argomentarle meglio. Non è così che ci s’innamora di uno scrittore?

In quel periodo, lessi anche i libri che poi sono diventati i miei classici. American Psycho, Trilogia della città di K., Cecità, Brevi interviste con uomini schifosi, Le particelle elementari di Michel Houellebecq, Piattaforma di Michel Houellebecq, La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq. Ho già detto Michel Houellebecq? Roba che, a vederli elencati, mi scopro bipolare. Anche le mie letture sono sempre oscillate tra il cazzone che sono e l’integerrimo che vorrei diventare.

Tornando a bomba, Houellebecq lo scoprii per caso. In un Conad di Nocera Superiore scovai una prima edizione a 2 euro e 99, buttata in un cassone insieme agli Harmony da mandare al macero. Per tutti gli altri, vige la regola del passaparola. Con la rete è cambiato il supporto ma la sostanza è rimasta quella. Un consiglio, per me, conta più di una recensione su Repubblica. Indirizzato arrivai anche agli autori che mi affascinarono di più in quel periodo. Credo che la scena milanese abbia dato un apporto importante al tipo di letteratura che vorrei perpetuare. Penso ad Aldo Nove, ad Andrea Pinketts e a Franz Krauspenhaar. Autori che si approcciano alla scrittura con una sana sconsideratezza e che rifiutano di castrare la propria voce in nome di fantomatiche tendenze del mercato. Ecco, quello che più odio è la letteratura rassicurante. Dare al lettore ciò che si aspetta è esattamente la cosa che non farò mai.

E poi hai fondato la Neo. Cosa t’ha spinto a fare l’ultimo passo, con tuo cugino Coscioni? Davvero pensavi di riuscire ad avere tutte le soddisfazioni che avete avuto sin qua? Mi dici cosa t’immaginavi, all’inizio, e quanto pensavi potesse durare? Mi dici cosa non è ancora andato come doveva andare?

Appurato l’ambito lavorativo nel quale volevamo muoverci, credo che, per entrambi, il motivo scatenante sia stato il desiderio di creare qualcosa di nostro. Avevamo fatto i dipendenti e non ci era piaciuto. Quindi, non restava che mettersi in gioco personalmente. A quel tempo ‒ in piena crisi economica ‒ sembrò una pazzia. Il fatto che, dopo dieci anni, siamo qui a parlarne dimostra che forse non lo era del tutto. Del resto, non ci siamo inventati niente. Abbiamo solo seguito le nostre passioni senza mai mentire a noi stessi. Se oggi riusciamo a fare cose relativamente importanti è perché non abbiamo tradito il nostro lato goliardico. Sono convinto che se iniziassimo a prenderci troppo sul serio, svanirebbe l’allure che ammanta l’operato della casa editrice. Invece, folleggiando, andiamo avanti consapevoli che i nostri competitor sono Mondadori, Einaudi, Bompiani, Adelphi. Può sembrare presuntuoso ma, fin dagli albori, ogni volta che pubblichiamo un libro è quello il mercato nel quale vogliamo confrontarci. Chiaramente ci sono differenze di struttura e di numeri effettivi ma, a livello di qualità e dati i mezzi a disposizione, crediamo sia quella la cerchia che ci compete.

In futuro, vorrei che i nostri libri avessero più visibilità all’estero. Partecipare a premi nazionali, o vincerli, è importantissimo ma vedere un Neo con il marchio di un editore straniero, pensare che un altro popolo abbia la possibilità di leggere un autore che hai scoperto e vedere che le tue scelte hanno seguito anche oltre i confini italiani… è piuttosto appagante. Poi, vorrei che un mio autore andasse a profanare il profilo Instagram di Petunia Ollister, ancora illibato da quel punto di vista. Vorrei vincere lo Strega entro i prossimi dieci anni. E vorrei formare attorno a me e Francesco una squadra di persone fidate. La Neo è diventata un’ossessione. Fagocita ogni minuto della mia giornata ‒ personalmente non conosco altro modo per fare le cose a dovere. Il problema è che essere ossessionato dal tuo lavoro e cercare di non farlo pesare alle persone che ti sono accanto, diventa impegnativo, quanto il lavoro stesso. Così finisci per lavorare due volte. Quindi, propositi per i tempi a venire: imparare a delegare e vivere sereno.

Gianfranco Franchi, febbraio 2019

Per approfondire: Neo Edizioni in Porto Franco.

 

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