Azzurro tenebra

Azzurro tenebra Book Cover Azzurro tenebra
Giovanni Arpino
Rizzoli
2010
9788817041348

“Dovresti fare il golpe. La rivolta di Spartaco in mutande azzurre. Cacciar via i piagnoni, le contesse della squadra, i nomi aurei che non hanno più gambe. Siete su una zattera fradicia e vi credete su una corazzata. Adesso chiudo e taccio per sempre”, suggeriva Arp. Invano. Era il 1974 e gli azzurri erano partiti per la Germania, per disputare l'attesa Coppa del Mondo. La stagione era stata tosta, i ragazzi erano “psicologori” o “psicotisici”, come diceva Giacinto (Facchetti) ma i pronostici erano abbastanza favorevoli. Proprio come quest'estate, nel 2010, nel mondo tutti li giudicavano “figli privilegiati di un paese matto però temibile se difende una palla”. Sbagliando. E proprio come quest'estate, la nazionale era fatta più di vecchie glorie, diciamo della vecchia guardia di Italia-Germania 4 a 3 (e Brasile-Italia 4 a 1), che di giovani di livello. E proprio come quest'estate, gli azzurri uscirono senza colpo ferire alla fine del primo turno. Allora si salvarono Zoff e Facchetti. Coincidenza, due che leggevano buona letteratura. Stavolta forse Quagliarella e Buffon, quest'ultimo causa infortunio e essenziale leggenda. Sospetto non siano lettori forti: peccato.

“Azzurro tenebra” è il romanzo dei Mondiali del 1974. Originariamente pubblicato da Einaudi, nel 1977, venne successivamente dimenticato sino all'edizione Spoon River, Torino 2007. Rizzoli, pochi mesi fa – con sinistra preveggenza: poco prima dell'estate – ha restituito a tutte le librerie italiane un'edizione popolare Bur del libro, con prefazione di Raffaeli e postfazione dell'ex portiere dei Mondiali del 1974 (e non solo) Dino Zoff.

Arp e Bibì (Bruno Bernardi) sono i due giornalisti protagonisti del romanzo. Arp è l'alter ego dell'autore, Arpino. Bibì è giovanissimo, sta al suo primo Mondiale. E sente i colleghi lamentarsi del mestiere, del grottesco nascosto nel giornalismo sportivo: “Ma è giornalismo, questo? In sessanta a rodere un osso spolpato, a inventare gli umori del signor Bomber o del signor Giorgione. Siamo gli unici al mondo. Scrivanelli di seconda serie. Peggio dei brasiliani”.

Arpino ci racconta che i colleghi sono divisi fondamentalmente in due gruppi. Jene e Belle Gioie. Le Jene sono i giornalisti sempre in cerca di scandali, equivoci o malignità. Le Belle Gioie sono i giornalisti paciosi, patriottici e pronti a polemizzare con giove pluvio, l'arbitro o la malasorte. E poi c'è uno che non è Jena o Bella Gioia. Si chiama Gianni Brera, scrive di calcio ma fa letteratura, e ogni volta che dice qualcosa tutti stanno a sentirlo, nel bene e nel male.

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Prima partita contro Haiti. Arpino: “L'Italia democratica e bombarola freme. Intere famiglie si mettono in mutua dalle Alpi a Siracusa per vedere la partita. Anche se il vero calcio è con gli olandesi e i brasiliani [...]”. Un magro tre a uno a nostro favore. Magro forte considerando quanto scarsi siano gli haitiani. Due giorni dopo si beccano sette pippi dai polacchi.

Il Vecio, Enzo Bearzot, all'epoca allenatore in seconda e non ancora eroe nazionale per il Mundial (1982), si confida con Arp. È uno che crede, crede nel suo lavoro, crede nel suo Paese. “Siamo un pezzo d'Italia o no? Rappresentiamo l'Italia o no? Non voglio far retorica, ma questo sente la gente, e qui dobbiamo rispondere. Non dico il vincere o il perdere, dico la dignità, la coscienza, la lealtà, il pudore [...]” (p. 98). Ha capito che non tutta la squadra ha questo suo sentimento. E che la squadra non condivide la sua angoscia di non restituire niente agli italiani che aspettano qualcosa, a casa. Figuriamoci ai nostri compatrioti, rabbiosamente e dolorosamente emigrati in Germania.

Seconda partita contro l'Argentina. “La luce incrudeliva su fantasmi rattrappiti, su uomini che si sbattevano da prua a poppa alla ricerca di sartie, remi, di un timone irraggiungibile. E sulla scassata zattera che cigolava in ogni giuntura erano in festa i corsari argentini, pronti a disegnare un arrembaggio di triangoli ordinati, parabole precise, intrecci assidui e anche vezzosi di festoni, ricami” (p. 130). Pareggio. Si mette male. Terza partita, Polonia. Batosta. E si rompe addirittura Burgnich, che sembrava indistruttibile. E finisce tutto. Eliminati per differenza reti. Con vergogna. Indifendibili.

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“Azzurro tenebra” s'addormenta, spesso, tra le braccia d'una lingua letteraria assolutamente pretenziosa e allegramente fuori posto. La letterarietà dell'opera riesce nell'impresa assurda di tenere viva la memoria su un evento per noi infausto, come quel Mondiale: in più d'un frangente, però, rallenta la lettura, perché pare ribadire una ricercatezza non proprio necessaria e non particolarmente sensata, soprattutto in una valanga di dialoghi che sembrano quando rubacchiati all'operetta, quando costruiti in alcolico isolamento, con un'artificiosità immonda. Non divertente. Il romanzo ha il gran merito di aver costituito una buona rappresentazione dell'equivoco mediatico che va sostituendo (ha sostituito?) lo sport del calcio: e dell'irrichiesto protagonismo dei media. Arpino ha ben spiegato, direi, più che il malessere dei nostri connazionali all'estero, e la potenza simbolica della disfatta, tutta l'alienazione e l'assurdo protagonismo dei cronisti sportivi. Si sentono importanti quanto i calciatori, a quanto pare. O almeno, hanno voglia che si parli di loro almeno quanto dei veri eroi, vale a dire quelli che vanno in campo, e perdono o vincono e alè. Questo non sembra un libro sul calcio o di calcio. Non solo, almeno. Sembra un libro sul giornalismo sportivo, e sulle stravaganti simbiosi tra giornalisti e calciatori – o ex giocatori diventati allenatori.

C'è spazio, però, per qualche splendida descrizione. Come questa di Carletto Parola, detto Gauloise, l'uomo della rovesciata più famosa d'Europa. “In effetti ad Arp pareva ancora assurdo non ammirare Gauloise rovesciato in volo, mentre colpiva il pallone di pieno collo destro e ricadeva sull'erba tra la stupefazione di centomila italiani o centomila inglesi o centomila brasiliani. Perché Gauloise era stato un maestro, una perfezione di stile, e l'attimo di quella rovesciata era eterno, fissato con quattro puntine da disegno in pub scozzesi, spogliatoi turchi, scuole di Budapest e di Palermo. Ora Gauloise fumava quelle sue sigarette nere senza staccarle dalle labbra e tutta la maschera del viso si era come rappresa in una mirabile forma di guttaperca, da grande attore del biliardo, da incallito nottambulo” [p. 66].

O questa, di Zoff. “San Dino ha le gote color borotalco, lo sguardo ridotto a una fessura, raggrinzisce le mani nei guanti, pare assente, chiuso nel vetro d'una sfera lontana, come i suoi antichi paesani che risalgono il greto del Tagliamento e portano pietre al nuovo muro da costruire intorno al podere: la sua solitudine d'uomo di porta è totale” [p. 78].

O questo amaro esterno giorno, post debacle. “Fuori pioveva, i gradini del ristorante dell'albergo che scendevano verso il fiume erano d'un grigio verdognolo. Una ragazzetta ben avviluppata nel suo impermeabile scarlatto seguitava a pedalare su e giù lungo la riva del Meno. Barche incappucciate da teli di plastica neri e grigi e arancioni giacevano dondolando sulle acque spettrali. E tutta Francoforte si perdeva in vapori novembrini, un campanile aguzzo lontano apparì e subito disparve tra la nebbia” [p. 203].

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Sensato tornare a leggere questo libro di Arpino – superata l'assurda contingenza del nuovo disastro mondiale, pochi mesi fa – sia per ragioni storico-letterarie, per via della sua atipica natura di “romanzo calcistico”, sia per ragioni storico-documentaristiche, complici le descrizioni dei nostri emigrati in Germania o quelle delle tecnologie dei nostri cronisti d'antan, sia per ragioni estetiche – qualora s'abbia voglia di apprezzare una lingua letteraria carica sino all'esasperazione. Ma nessuno spenda la parola “capolavoro”, e nessuno parli di libro “fondamentale”. Siamo dalle parti delle rarità, delle chicche, delle stravaganze, non certo delle opere di genio.

Per calciomani e per letterati veri. Punto.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giovanni Arpino (Pola, Istria, Italia, 1927 – Torino, 1987), scrittore e giornalista italiano, figlio di un ufficiale. Cresciuto e vissuto in Piemonte, si laureò con una tesi su Esenin nel 1951; esordì in letteratura nel 1952, con “Sei stato felice, Giovanni” (Einaudi). Fu inviato speciale de “La Stampa” e scrisse per “Il Giornale”.

Giovanni Arpino, “Azzurro tenebra”, Rizzoli, Milano 2010. Prefazione di Massimo Raffaeli. Con una nota di Dino Zoff.

Prima edizione: Einaudi, 1977. Spoon River, Torino 2007.

Gianfranco Franchi, Novembre 2010

Prima pubblicazione: Lankelot.

Era il 1974 e gli azzurri erano partiti per la Germania, per disputare l’attesa Coppa del Mondo. La stagione era stata tosta, i ragazzi erano “psicologori” o “psicotisici”, come diceva Giacinto (Facchetti) ma i pronostici erano abbastanza favorevoli.