Aspetta primavera, Lucky

Aspetta primavera, Lucky Book Cover Aspetta primavera, Lucky
Flavio Santi
Socrates
2011
9788872020401

«Caro Bianciardi, tu non puoi saperlo, ma noi siamo la prima generazione di intellettuali-operai. Che buffo, una volta Flaiano ha scritto: “Non ci restano che gli artisti a voler sembrare operai”. Adesso lo siamo diventati per davvero, e non per posa snobistica. C'è stata una sottile evoluzione della specie umana: dal proletariato delle fabbriche siderurgiche e metalmeccaniche a quello dei plurilaureati. Oggi le classi meno agiate sono spesso quelle che hanno il più alto grado di istruzione. Senza soldi, senza futuro e senza nulla da perdere e da rimpiangere». Vero. Almeno: sin qua.

“Aspetta primavera, Lucky” (Socrates, 2011), quarto libro di narrativa di Flavio Santi, è un magnifico dramma esistenziale e generazionale. È il canto del cigno d'una generazione che sembra aver perso la battaglia senza nemmeno aver potuto cominciare a combattere. Il romanzo di Santi è una sintesi appassionata e trascinante di tanta onesta, buona e ispirata narrativa sul precariato intellettuale, dal paradigma bianciardiano in avanti: e ha una personalità così forte che può pretendere di surclassarla. Può essere un punto a capo. Potrebbe esserlo. Flavio Santi ha un grande stile, e sembra scrivere grondando sentimento, senza mentire. Sentimento e coraggio e umanità grondano con la stessa, ciclopica intensità. È un libro che somiglia molto alle cose più belle che potevano capitarci in questi anni. Meglio: il protagonista di questo libro somiglia molto alle poche persone belle, sfortunate, talentuose e inquiete che abbiamo incontrato. Alle poche persone vere che abbiamo incontrato, quelle che abbiamo amato e che stanno ancora qui, nella vita quotidiana di tutti noi. Sono poche. Ma sono qui. Il narratore è molto famigliare, in questo senso, e ti viene da raccontargli anche tu qualcosa, perché si senta meno disperato, meno arrabbiato forse. Ti viene da raccontargli qualcosa perché senta ancora e sempre voglia di combattere per la repubblica dei letterati e della letteratura, fino alla morte.

Ma consolazione diversa da suggerire fantasia e utopia e speranza io non sento di darla. So che dobbiamo ritrovare fantasia, utopia e speranza. Profondamente. Il vecchio mondo sta finendo e sta finendo male. Forse, Santi, è già finito tutto quanto da un pezzo. Era tutto abbastanza finto già quando lo denunciava Bianciardi, e adesso l'unica cosa vera rimasta sono le persone. Poche persone. Il sistema s'è disintegrato, e non ci crede più nessuno. Forse i soldi servono a farci credere che esista ancora, e che abbia senso. Servono a quello e basta. Il resto è ideale e non dipende dal denaro né dal nostro ruolo. È, appunto, ideale e basta.

Il narratore di questo libro è uno che ha scoperto che a dispetto del mazzo straordinario che si fa mese dopo mese (anno dopo anno: da anni) guadagna quanto un portinaio. E il dramma è che appartiene a quella generazione (l'ultima) che credeva che studiando e perfezionando la propria istruzione avrebbe potuto – come si suol dire – arrivare in alto. La vita lo sta dissanguando, scrive. Sogna un paio di giorni di pace. «Per ora non è possibile. Chissà quando sarà possibile. Se mai sarà possibile. Vivo appeso a un periodo ipotetico. Appeso a un cappio invece ci è finito un mio amico, per cui al momento mi ritengo fortunato».

Fulvio Sant è uno che sta facendo strame della sua vita. Si sta sfasciando di traduzioni, pur di campare. Testa sotto terra, come uno struzzo, e lavorare. È uno stuntman delle Lettere: imprese difficili o rocambolesche, stipendio da fame, e se il lavoro finisce per andar bene tutti i meriti vanno a un altro. Triste. Sant ha il chiodo fisso che la vita dipenda dal caso, da dove si nasce, con quanti e quali contatti, quante e quali opportunità di crescita. Naturalmente è un chiodo fisso pieno di senso, e decisamente credibile. Perché è proprio così. Se Pasolini fosse rimasto in Friuli, come congettura l'artista nelle prime pagine, non sarebbe mai diventato Pier Paolo Pasolini. Niente Roma, niente contatti, niente cinema, niente grande editoria. Piuttosto: tanta dedizione al mestiere di insegnante, tanta discrezione per le proprie scelte erotiche, qualche poesia, tante lettere spedite di qua e di là. Sì. Senza un padrino non sarebbe diventato l'artista che abbiamo conosciuto, restando a Casarsa. È abbastanza pacifico. Ma aggiungo una cosa: Roma o non Roma, senza un certo partito, in quegli anni – duole dirlo – Pasolini non diventava Pasolini in nessun caso.

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Fulvio Sant odia il potere. Odia il potere perché, scrive, ha capito che è il vero anello di congiunzione tra l'uomo e la bestia. «Il potere non è utile, non nobilita, non migliora, semplicemente credo che avvicini l'uomo al più basso livello di bestialità. Non esistono poteri buoni, cantava De Andrè». De Andrè aveva ragione. Fulvio Sant odia il potere e sogna la respublica literatorum, come i nostri grandi e indimenticati umanisti. La repubblica degli scrittori, «un paradiso dove tutti si vogliono bene, non ci sono invidie, doppi fini, ci si aiuta a vicenda, si riconosce con gioia il talento degli altri, ci si sostiene con sincero slancio». Sant ha sempre avuto l'idea che lo scrittore possa e debba essere un uomo eccezionale, «diverso dagli altri, più bello, più buono, più giusto». Sant ha sempre creduto che lo scrittore dovesse essere gentile. Perché gentilezza significa mettersi a disposizione della vita e degli altri, ripete, per poi saperla accogliere e raccontare con umanità. Sacrosanto. E invece, Sant, quante volte è stato terribilmente deludente, noioso o respingente incontrare certi artisti? Io direi tutte le volte in cui non si trattava di veri artisti. Quasi sempre.

Sant è tanto innamorato di sua moglie, Giulia. Esteticamente somiglia a Simone Weil. Simone Weil è il suo sogno erotico. Giulia è un'altra che viene dalla nostra generazione, una che pensava che vivere onestamente dedicandosi con intensità e amore agli studi e alla ricerca potesse servire a vivere con dignità: a garantirsi di poter vivere dignitosamente. Un'altra illusa. Sant parla di sua moglie con la grazia di un ragazzino. Bellissimo. E ragazzino rimane quando racconta perché si sono persi, perché hanno smesso di trovarsi: «Il comunismo, il comunismo: mi parla solo di comunismo. Ma che cazzo me ne frega a me del comunismo. Mi frega che non scopiamo più, a causa di questo cazzo di comunismo. Che poi. L'unica idea buona il comunismo se l'è giocata ed era quella dell'amore libero. Completamente persa. Che peccato». Si sono persi, lui e Giulia, e lui s'è regalato un bel po' di doppia vita. Con tanto di seconda città, Roma, in cui andare ad amare un'altra donna, che sembra meno impegnativa, più cameratesca, più aperta e niente affatto ideologizzata. Si chiama Sveva, è piena di fascino e sembra che non pretenda niente. Proprio come Roma. E proprio come Roma, non è affatto così. Non è mai così semplice.

Esce una sua nuova traduzione di Sant. «A me interessa quante bollette mi scala un volume di quattrocento e passa pagine. Vediamo. Luce, telefono e gas per un po' di mesi. Spesa un po' più decente, non più al discount per un po'». Prende e sfoglia il librone domandandosi quanto respiro gli darà: per quanti mesi. E meditando poi sulle traduzioni prossime venture, Sant s'accorge che le sta pesando, e non pensando. Sta pesando il numero di pagine che potranno derivarne. Le sta traducendo in bollette. Fa bene.

Dimenticavo. Commoventi gli omaggi al poeta Simone Cattaneo (1974-2009), morto suicida qualche anno fa. Secondo Santi, Cattaneo è stato un unicum nella poesia italiana: «a metà tra Irvine Welsh e Cecco Angiolieri». Andato. Punto a capo.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Flavio Santi (1973), narratore, poeta, traduttore e libero docente universitario italiano. Vive in campagna alle porte di Pavia. Ha esordito, in narrativa, pubblicando “Diario di bordo della rosa” (PeQuod, 1999).

Flavio Santi, “Aspetta primavera, Lucky”, Socrates, Roma 2001. Collana “Luminol”, 1. Il libro è stato stampato su carta riciclata e non trattata con sostanze inquinanti.

Gianfranco Franchi, febbraio 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

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SEMPRE A PROPOSITO DI "ASPETTA PRIMAVERA, LUCKY"

"Quello che non sopporto in Giulia è che non mi ha mai incoraggiato davvero. A spaccarmi la testa sulle traduzioni, be', sì. A scrivere per conto mio, quello no, mai. Allora mi torna in mente il sogno fatto su Pasolini mai scappato dal Friuli: come contano le occasioni, gli incontri, le circostanze casuali, il prendere o meno un treno che passa dalle tue parti, il coraggio di restare o andarsene, dipende, dipende dal caso e tu lo scoprirai solo dopo se hai fatto bene o male, che crudeltà".

Che crudeltà, davvero, dover ammettere che la grandezza e la fortuna di un artista, in vita, possano dipendere dal suo posizionamento sociale, partitico, famigliare, economico: e che sofferenza dover prendere atto che non basti averlo capito, perché quando si è parte di quella minoranza di intellettuali e di innamorati della bellezza che tutto ha fuorché voglia di scendere a patti col potere, quale che sia il suo colore, non c'è rimedio e non c'è soluzione diversa dal restare in vita. Che crudeltà, e che ingiustizia. Ma abbracciamo, almeno, col dovuto entusiasmo e con la dovuta amicizia lo scrittore che ha sentito necessario e giusto scriverne e denunciare lo stato degli intellettuali italiani indipendenti in questi foschi ultimi decenni: perché è riuscito a scriverne evitando strapiombi retorici, trombonate e paraculate di ogni ordine e grado, e non ha avuto paura di essere sincero e diretto sino all'ingenuità.

Grande romanzo di Flavio Santi, letterato classe 1973, traduttore, narratore, poeta e consulente editoriale, "Aspetta primavera, Lucky" non è soltanto un partecipe e sentito omaggio alla potenza espressiva, all'intelligenza e all'onestà di Luciano Bianciardi: è la drammatica e consapevole denuncia delle condizioni di vita e delle prospettive di quella che l'artista battezza prima generazione di operai-intellettuali: la nostra, quella degli ex ragazzi nati negli anni Settanta (e Ottanta, va da sé). È una generazione in cui nessuno ha più paura di morire, nonostante nessuno di noi sia in guerra: perché al di là del rammarico per il vino, per le donne amate e per i libri certe volte si ha la netta sensazione che si sarebbe pronti a tutto pur di barattare la pace eterna col disordine, la sporcizia e la frenesia di questo tempo. È una generazione i cui protagonisti sono stati allevati e addestrati per essere classe dirigente e classe intellettuale d'una nazione che non esiste più, ferita e oltraggiata dalla volgarità e dalla nulla etica del forzismo e dallo scarso appeal delle sue alternative, nel tempo: è una generazione che non sopporta l'idea che per essere parte di quella che avevamo mitizzato come repubblica dei letterati serva, più che il talento e più che l'intelligenza, una grottesca capacità d'essere sociali e socializzanti, una ridicola e colorita predisposizione alle pubbliche relazioni, una vigliacca sottomissione all'egida di certi quadri di partito.

Chi s'è trovato a vivere e lavorare nell'editoria italiana, con uno straccio di professionalità, non potrà che apprezzare il coraggio kamikaze di un professionista delle patrie lettere che tutto a un tratto, dopo aver denunciato vezzi strutturali e incomprensibili lacune del nostro mondo, prende e fa i nomi, camuffati con allegria, di quelli che non pagano e delle arie progressiste che intanto si danno. Come se non bastasse, l'alter ego dell'artista, narratore di questo libro, ha la suprema onestà di ammettere che le rovinose vicende professionali e contrattuali della nostra generazione di letterati, falciati dalla peste catodica del berlusconismo e dalla sparizione progressiva e metodica dei loro diritti di lavoratori, hanno determinato guasti sentimentali e comportamentali mica da poco: in questo libro, per esempio, un amore bello, pulito e istantaneo come quello tra il narratore e la sua futura moglie, una che somigliava a Simone Weil da un sacco di punti di vista, finisce per sprofondare nella normalità e nella prevedibilità del tradimento, della doppia o tripla vita – con tanto di delirio rancido e ideologico di lei, nella disperata ricerca di un senso e di una prospettiva che non può esistere, tantomeno nel torcicollo veteromarxista. Un romanzo come questo restituisce un'incredibile voglia di vivere, di combattere e di cambiare le cose: di fondare nuovi microcosmi a misura d'uomo, di tornare a scrivere per rovesciare il sistema, di tornare a considerare quanto seducente e patriottica sia l'eversione della letteratura.

Gianfranco Franchi. Prima pubblicazione: BlowUp, febbraio 2011