Adesso tienimi

Adesso tienimi Book Cover Adesso tienimi
Flavia Piccinni
Fazi
2007
9788881128488

Opera prima di Flavia Piccini da Taranto, classe 1986, “Adesso tienimi” è un drammatico romanzo di (de)formazione, che scolpisce la storia d’un amore proibito tra una giovane maturanda e un suo professore. La vicenda – narrata in prima persona dalla studentessa – è una tragica catabasi: un sentimento troppo intenso e troppo vivo trascina nella disperazione chi aveva perso il suo segreto amore, inspiegabilmente (così ognuno pensa, sempre) suicida.

È un esordio promettente: la Piccinni dimostra, in particolare, tre capacità interessanti. La prima, come vedremo più avanti, è quella di proporre una efficace lettura del suo territorio d’origine, attraverso la narrazione di diversi aspetti e differenti dinamiche della quotidianità tarantina e diverse commistioni di lingua e dialetto; la seconda è quella di non aver paura di massificare e generalizzare condizioni e comportamenti dell’alterità, rischiando il precipizio del luogo comune; il sentiero della pura egolatria è sterrato, s’avanza senza difficoltà, potrà rivelarsi fertile e – paradossalmente, forse – più generoso di altri nei confronti del prossimo. La terza è la dedizione alle emozioni e alle sensazioni, la capacità di descriverle e di vederne, in questo caso, i rovinosi effetti. È una dedizione che potrà figliare nuovi romanzi sentimentali e che senza dubbio sosterrà l’autrice, nel tempo, nella delicata fase dello studio dei personaggi.

Limite del libro: la terrificante scelta della colonna sonora, fortunatamente molto laterale sino a un tratto (cfr. incresciosa apparizione de “La dura legge del gol” di Max Pezzali, diegetica!, a enfatizzare un momento difficile vissuto sugli spalti, pensando al passato amore). Sembra onestamente difficile che una maturanda del Liceo Classico possa ascoltare gli 883, domandarsi che fine abbia fatto Mauro Repetto e al contempo mostrare diffidenza a proposito degli esordi di Tiziano Ferro. D’accordo, voleva forse essere un indice della scarsa circolazione di riviste specializzate o dello stentato segnale delle radio indie, chissà?, in ogni caso l’esito è fatiscente e non credibile. È musica da sottoproletariato culturale, indegna d’altro media che non sia catodico.

In seconda battuta, glisserei ma non posso proprio, registriamo diversi nomi di marchi e griffe che fanno capolino, come flash pubblicitari (quindi non appariranno da queste parti): c’è qualcosa da registrare, in questo senso; la luce del logo, e non di un gioiello, per dire, non deve guadagnare questo posto in altra carta stampata che non sia free-press, o al limite in colorate pagine tabellari d’un bel periodico. La disinvoltura non basta.

Si tratta, intendiamoci, di aspetti non fondamentali ma caratterizzanti; almeno, irritanti per una determinata fascia di lettori in cui mi riconosco. Una adeguata scelta sonora, estranea al più deteriore kitsch mainstream, avrebbe naturalmente accompagnato il romanzo alla conclusione senza stridere così fastidiosamente: la pioggerellina episodica di marchi non avrebbe richiesto la citazione (inevitabile) a “No Logo” di Naomi Klein, a poche pagine dalla fine (p. 165: e appare comunque un marchio).

Ciò detto, in considerazione della giovanissima età dell’autrice e degli ampi margini di miglioramento, torno decisamente a parlare d’altro, ossia degli aspetti interessanti e apprezzabili dell’opera. Non mancano. Si diceva dell’espressione del territorio. Molto bene: il dialetto campionato in diversi dialoghi è fresco e immediato; le riflessioni sulla distanza dialetto-lingua senza dubbio interessanti. Ad esempio, qui: “È solo che mi viene, a casa come a scuola, di fare così. Il tarantino mi piace solo sentirlo, con quelle bocche che si aprono e si chiudono velocemente, con le labbra che si plasmano armoniosamente per produrre suoni sgraziati e gutturali (…). Il dialetto è una questione di pelle. O ce l’hai o non ce l’hai. E io, anche se sono cresciuta fra la lingua e l’ho assimilata e la capisco, non riesco a esprimerla. Per molti sono una menomata, una che non riesce a dire attraverso il linguaggio della città, ma non mi importa. Mi accontento di essere capita” (p. 20). – passo che non ha bisogno di essere glossato, direi, in considerazione dell’esperienza d’ognuno di noi e della nostra reale diglossia, chiamiamola così questa necessità di passare dalla lingua al dialetto col variare dei contesti, in molte città.

Notevoli le descrizioni delle processioni (pp. 118-120) durante la Settimana Senta. Come qui: “Quando la Madonna scende da San Domenico, un dolore atroce invade chi osserva. La banda è marcia funebre. Le donne vestite a lutto, bizzocche dei tempi che erano, si lacerano rivelando la morte del cuore” – seguono riflessioni sull’assurdità di scene del genere nel duemila e via discorrendo, quindi: “Le voci che, di disapprovazione e tormento, si confondono in una nenia funebre che per tutta la ‘nanzicata, due passi avanti e uno ret’, attraverserà la città vecchia e la città nuova” (p. 120) – dove registriamo questi appassionanti “’nanzicata” e “ret’” a infiammare e contaminare la lingua letteraria dell’autrice, migliorando le suggestioni del lettore. Quanto alla vedovanza e al periodo di lutto: “Le vedove della città vecchia portano il lutto tutta la vita. Non importa quanto fossero ubriaconi e selvaggi i loro mariti, come le facessero soffrire e quante volte le avessero tradite. Importa solo, nella morte, vestirsi di nero, tenere il velo schiaffato sugli occhi, fare finta di soffrire” (p. 14). A proposito di alcolici, registriamo la prevedibile fortuna della birra popolare pugliese, la Raffo.

Passiamo allo slang cittadino. Scopriamo il misterioso tipo dell’ibrido tarantino: “Non è abbastanza coatto per essere definito cozzaro, né sufficientemente raffinato per essere un daquino” (p. 80) – i corsivi sono miei. Naturalmente non ho la minima idea di cosa significhino questi termini, ma ne immagino il significato. Intanto mi contento di memorizzare due parole gergali locali, nuove. Il cozzaro torna più avanti, in un discorso sui tatuaggi: lei si voleva tatuare l’eroe greco fondatore (il termine corretto sarebbe “eponimo”, ma coerentemente la narratrice non se ne serve: detesta il Greco. Plausibile quindi la semplificazione) fondatore, dicevo, della città, Taras, o forse la bandiera della città. E lui a dire che “era una cosa da portuali, cozzari e zelate. Insomma, da poco di buono” (p. 147) – i corsivi sono miei. Chi saranno mai queste zelate?

Taranto è descritta con amore e con desolazione e rammarico – tendenzialmente quando s’accenna alle periodiche tragedie dell’Ilva, ai programmi di Cito, ai debiti e alla povertà della città, alla diossina. Positiva, a differenza dei loghi, la ripetizione del nome “Ilva” associata sempre a morti sul lavoro: il concetto arriva, stavolta, con chiarezza e aiuta a sensibilizzare il lettore; dovremmo saperne di più. Grazie, quindi, all’autrice, per aver raccontato colori, profumi e voci d’una città non eccessivamente conosciuta, nel belpaese: se non per gli antichi fasti. Testimonianza importante.

Passiamo ora a discutere dei personaggi. I genitori della studentessa si ritagliano uno spazio molto ridotto; spesso vengono considerati ombre, sembrano mostrare chiare difficoltà di dialogo e le interazioni, non di rado, sfociano nel grottesco. Ad esempio, confido che leggendo le prime pagine avevo appuntato “padre e matrigna”, salvo scoprire che di madre si trattava.

Gli amici e le amiche non sono memorabili; si tratta di figure tratteggiate giocando per superficie profonda, rimangono inevitabilmente sullo sfondo. Sono funzionali alla narrazione, sono interludi, stop. C’è chi un po’ ci prova, c’è l’ex rancoroso, c’è chi offre spinelli per non pensare e rilassarsi; segnalo una rarità, in questo libro si va all’ippodromo a scommettere (non sono in grado di decifrare la centralità o la lateralità dell’ippodromo, nell’economia cittadina tarantina). La scuola – a dispetto della prossima Maturità – la nostra protagonista la vive male, e non solo per via della recente tragedia del suicidio dell’amato. In generale, le parole spese nei confronti dell’istituzione scolastica sono depressive, si accenna a canne fumate prima del pasto, a docenti che sembrano soltanto offendere la mediocrità degli allievi, al greco incomprensibile (al Liceo Classico? Al Liceo Classico), all’alienazione, in generale. Allo studio per la sufficienza, per sfangarla. La protagonista sembra essere lì per accidente. Tuttavia è attenta all’estetica e al ceto dei compagni. Critica gli alternativi modaioli che pogano, vestiti di stracci, considerandoli figli di borghesi – mi sembra accostando la categoria dei “figli di medici” alla sorprendente “figli di insegnanti”: beata gioventù, ti mostrerei le buste paga per farti capire. Lasciamo stare, ma l’errore di valutazione è abbastanza stravagante. Protagonista ulteriore dell’alienazione è – naturalmente – in secundis la televisione, con robuste carrellate per le centinaia di vuoti canali di Sky; e non il web, in assoluto (che pure la narratrice accenna estraneo ai suoi compagni. Al Liceo Classico? Al Liceo Classico. Basisco), ma il sito di eBay, oggetto di aste per un feticcio che ricorda il perduto amore.

L’amore per il suicida Vianello si tinge, poco a poco, di proibito; l’autrice è intelligente nel non rivelare subito che si trattava d’un suo professore, sposato e con figlio in arrivo. L’indagine sulle ragioni del suicidio è d’una tristezza lancinante, e onestamente risulta credibile e sconfortante. Non può appassionare, se non nella misura in cui si va auspicando, invano, che la giovane riesca se non a dimenticare almeno ad andare avanti.

In conclusione, saluto positivamente l’esordio di Flavia Piccini, che proprio sul nostro vecchio Lankelot pubblicò qualche racconto anni fa, prima dei vari riconoscimenti conquistati, dal Campiello alla pubblicazione in antologia per Minimum Fax. Sono convinto che ci sia stoffa e nell’adesione allo spirito del proprio territorio, e nell’indagine sulla psiche e sui sentimenti. Quella è la strada da battere. Se serve, mi dichiaro pronto a masterizzare opportuna legione di dischi veri: immagino sia necessario. Questo il mio (con)tributo. In bocca al lupo.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Flavia Piccinni (Taranto, 1986), scrittrice italiana. Questo è il suo primo romanzo. Il racconto “Manco un po’” è apparso nell’antologia “Voi siete qui” di Minimum Fax (2005).

Flavia Piccinni, “Adesso tienimi”, Fazi, Roma 2007

Gianfranco Franchi, luglio 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.