Mi chiamo Cristiano Ferrarese, ho 44 anni e mi sento una persona fortunata

Mi chiamo Cristiano Ferrarese, ho 44 anni e mi sento una persona fortunata Book Cover Mi chiamo Cristiano Ferrarese, ho 44 anni e mi sento una persona fortunata
Cristiano Ferrarese
Edizioni Il Galeone
2018
Edizioni Il Galeone
9788899892067

Dieci anni fa, a cavallo tra la Hacca diretta da Cristina Tizian e quella diretta da Andrea Di Consoli, avevano visto la luce i primi due libri di narrativa di Cristiano Ferrarese, presentati come i primi due pannelli della “Trilogia dei matti”: si chiamavano “1967” e “1976”, erano due apprezzabili esempi di narrativa sperimentale, benedetti da due ispirate copertine di Maurizio Ceccato e fregiati da due bandelle d'autore – la prima di Simone Cristicchi, all'epoca reduce dal successo sanremese di “Ti regalerò una rosa”, nel fulcro della sua poliedrica attività artistica sui centri d'igiene mentale; la seconda di Andrea Di Consoli, che scriveva cose tobiniane con buona ispirazione. Ho letto “1967” e “1976”, a suo tempo, ben sapendo che per poter dare un giudizio più consapevole sulla scrittura di Ferrarese, e sulla portata della sua trilogia, avrei dovuto aspettare il suo completamento. Sino a quel punto, era una sorta di personalissima, bislacca e paranoica stagione all'inferno, forse con qualche velleitaria ambizione di lettura politica del Belpaese [pre 1968, pre 1977...], giocata molto sui tre puntini di sospensione [più alla Selby che alla Céline, a dire il vero] e su un periodare breve, singultico [o laconico]: decisamente sconnessa, aveva un suo sinistro fascino perché ti costringeva a immaginare un senso, o una linea, che forse non c'era, o chissà, stupefacendoci si sarebbe clamorosamente rivelata alla fine della trilogia. In ogni caso era un lavoro oscuro, probabilmente eccessivamente irrazionale, ma molto vitale, e spesso verace; c'era qualche artificio, qualche pretesa di troppo, ma niente di esasperato. Il terzo pannello non è mai stato pubblicato dalla Hacca – è uscito, forse un po' troppo in sordina, per una piccolissima casa editrice, la Relapsus, nel 2015. Della promessa ligure Cristiano Ferrarese, insomma, si erano perse le tracce – da outsider era diventato, come dire, uno “un po' troppo appartato”; e quando qualche tempo fa sono stato informato dell'uscita di un nuovo libro dell'artista di Busalla, classe 1970, sono rimasto particolarmente contento, perché l'artista ha parecchie cose da dire, col suo stile. E si vede.

E così vede la luce per le romane Edizioni del Galeone una sorta di diario: è il quaderno di un emigrato italiano a Bristol: “Mi chiamo Cristiano Ferrarese, ho 44 anni e mi sento una persona fortunata” [euro 15, pp. 264], in copertina una buona illustrazione di Aladin Hussain Al Baraduni. In comune con i due libri d'esordio di Ferrarese c'è il periodare frammentato, a volte esilissimo, suddiviso per piccoli blocchi di testo, al limite capaci di avere un respiro da paragrafo o da sommario; c'è la tendenza a una scrittura laconica; graficamente, basta aprire il libro e sfogliarlo e la memoria torna istantaneamente a quegli strani impaginati dei due vecchi libri Hacca. Tutto il resto è diversamente ordinato e razionale: è il diario di un'esperienza di emigrazione a Bristol vissuta come opportunità per un redde rationem su tutto quanto, sull'Italia, sulla bellezza della sconfitta, su un breve matrimonio e sull'unico grande amore, sul Genoa e sugli scrittori irregolari, anarchici come Bianciardi o amatori talentuosi come Morselli; è un memoir sul rapporto tra Ferrarese e la sua famiglia e sul rapporto tra Ferrarese e gli inglesi, non senza qualche flash su un suo vecchio e “incosciente” tentativo di fuga inglese durato un anno, vent'anni prima o giù di lì; è un esame di coscienza sulle esperienze di lavoro in Italia, sugli anni di militanza nel sindacato, sull'avventura da libraio, sulle raccomandazioni, sulle cattiverie e sulle astuzie del nostro decaduto Paese; è un quaderno sentimentale, politico, elegiaco – in altre parole, un onestissimo autodafé e al contempo una lancinante lettura delle contraddizioni e delle bassezze italiane. Italiane e – finalmente – inglesi: Ferrarese non va a scrivere l'agiografia della Gran Bretagna, anzi; racconta di un primo padrone di casa psicotico, con episodi dal retrogusto polanskiano, racconta quanto improbabili siano le speranze in Corbyn e quanto fredde le politiche di Cameron, accenna alla buona parte di emigrati italiani, velleitari o direttamente fallimentari, e alla loro mancata integrazione; insiste sul nazionalismo e sul distacco che gli inglesi mostrano nei confronti degli stranieri, etc. E tuttavia, piuttosto che restarsene in Italia, a farsi mortificare dalla politica, dal Vaticano, dal giornalismo (“piaggeria, silenzio e moralismo imbarazzante”), dagli intellettuali (“stanno sempre con chi vince, moraleggiano ovunque e comunque, annoiati e profetici”), dai sindacati e via dicendo, Ferrarese preferisce la solitudine, preferisce andarsene al di là del mare, lavorare magari prima a fianco dei malati terminali poi di notte, quando non c'è un'anima viva in giro, e da quella solitudine e in quella solitudine sprofondare, per meditare e per trovare la forza per ricominciare a fallire, come insegna il maestro Beckett.

La mia narrazione non inventa nulla ma è necessaria per un mondo alla deriva, rinchiuso in se stesso. Non l'hanno capito. Forse hanno fatto finta di non capirlo”, scrive a un tratto, commentando – apparentemente – un fraintendimento tra lui e i suoi compagni sindacalisti, avvenuto parecchio tempo prima. In realtà sembra un manifesto, sembra una dichiarazione di poetica: almeno, una restituzione della poetica di questo diario, scritto da uno che va, come un funambolo, a camminare a centinaia di km di distanza dall'Italia per ritrovare se stesso, per rigenerarsi, per vincere la rabbia e le paure [e magari ricominciare a ridere]. “Sono quello che sono grazie alle mie sconfitte”, scrive. È una frase di eccezionale saggezza.

Ultima cosa. Segnalo, a beneficio di quanti avessero apprezzato, pochi anni fa, “La Repubblica dei Matti” di John Foot, che Ferrarese, trovandosi a Bristol, a un certo punto ha trovato tempo per contattarlo e per andarci a parlare, apprezzando un'intelligenza entusiasta della nostra cultura e delle nostre contraddizioni. È stata una trovata esteticamente in linea con la sua storia autoriale – una delle varie. Aspettiamo la prossima.

Gianfranco Franchi, aprile 2018.

Per approfondire: FERRARESE in PORTO FRANCO.

Un quaderno sentimentale, politico, elegiaco – in altre parole, un onestissimo autodafé e al contempo una lancinante lettura delle contraddizioni e delle bassezze italiane. Italiane e inglesi…