The Ballad of Bob Dylan

The Ballad of Bob Dylan Book Cover The Ballad of Bob Dylan
Daniel Mark Epstein
Arcana
2011
9788862311847

Difficile dire quando Bob Dylan sia diventato un classico. In un certo senso, è come se fosse stato istantaneamente, naturalmente un classico: dal primo disco in avanti. Bob Dylan è stato così amato, così discusso e così frainteso che da parecchio tempo qualcuno scrive che è stato un poeta, non soltanto un cantautore di fama internazionale. Non so dire se sia stato un poeta. I poeti sono gente più pericolosa di Bob Dylan, o più introversa. So che ogni volta che qualcuno mi parla di lui – e in questo periodo succede un po' più spesso, complici i suoi settant'anni – mi ritrovo a chiedermi una cosa buffa. A chi piace, davvero, Bob Dylan, tra le persone che conosco?

Bob Dylan piace a quanti, nella mia generazione, hanno saputo sviluppare un minimo di sensibilità politica, sicuramente democratica: non piace ai totalitari, che al limite si divertono a ricordarlo gruppettaro e ribellotto, giovane vecchio che non aveva nessuna voglia di diventare un avatar maudit. Bob Dylan piaceva e piace a quelli come mio padre, più o meno suoi coetanei, perché nonostante certe cadute di stile e una inequivocabile pallosità lui ricorda o ricordava loro certe cose della giovinezza e degli anni Sessanta, dei primi Settanta. Le prime sigarette, il primo alcol consapevole, la prima disillusione feroce nei confronti delle parole “repubblica” e “democrazia”, la prima vaga idea di cosa fosse veramente l'imperialismo, e di quanto doloroso fosse scoprire che si viveva in una generazione che per protestare contro certe cose poteva soprattutto cantare. Guai andare troppo oltre.

Bob Dylan piace a chi è abbastanza spirituale da saper comprendere che peso possa avere avuto la sua conversione al cristianesimo, e il suo successivo entusiasmo, e il suo successivo cambiamento, nel tempo: e non ha nessuna intenzione di giudicarlo. E poi piace a tutta una serie di giovani cinefili, ma questo mi piace immaginarlo perché giovanissimo non lo sono più, e quindi non so di che parlo ma mi piace tanto illudermi di avere ragione, che qualche anno fa sono andati in fissa con “I'm not There” di Todd Haynes, film che dovrebbe e potrebbe essere di grande ispirazione per la nuova generazione di intellettuali e artisti occidentali – e dovrebbe insegnare parecchie cose a tutti.

Ecco, detto ciò confido che non sono mai stato un grande fan di Bob Dylan. Piaceva a mio padre, piaceva e piace molto a un paio di amici di sinistra molto o abbastanza impegnati, mi sembrava finito già vent'anni fa, ai tempi di “Oh Mercy”. Mi sembrava e mi sembra un'icona di un periodo ben preciso, un'icona con cui non ho mai sviluppato un rapporto di devozione o di particolare riconoscenza. Cioè: Bob Dylan era un classico, era sempre stato un classico, e io come un classico lo trattavo. A me non fanno impazzire i classici, a me piacevano e piacciono parecchio le figure un po' sbagliate o tanto sbagliate, quelle laterali e un po' irrisolte, magari incompiute. Gusti.

Ma adesso ho un'età classica – 33 anni – e mi sono deciso a leggere almeno una biografia di Bob Dylan, prima che fosse troppo tardi. Si chiama “The Ballad of Bob Dylan”, è stata appena tradotta da Arcana a cura di Claudio Mapelli. L'autore è un certo Daniel Mark Epstein, da Baltimora – tra gli yankee è apprezzato per un paio di biografie su Lincoln e Whitman (due classici, guarda un po') e per qualche articolo apparso sul “New Yorker” e altrove. Scrive poesie, ma la sua narrativa è estranea al lirismo, vi assicuro. Come potevo aspettarmi, in più d'un frangente mi sono un po' impigrito e bloccato, sfogliando le oltre 400 pagine del libro, perché non sono un aficionado di Bob Dylan e non sapevo che farmene di certe notizie e certi rilievi. Altrove, invece, mi sono divertito. Soprattutto per le analisi dei suoi versi – e per la brillante traduzione dei versi in lingua italiana, per cui vanno fatti bei complimenti a Mapelli.

Strutturalmente, il libro si fonda, idealmente, su quattro diversi punti di partenza, scelti da Epstein in base alle sue esperienze personali: quattro concerti di Bob Dylan avvenuti tra 1963 e 2009. L'autore restituisce, più che lo zeitgeist e il contesto, il “suo” Bob Dylan – e forse non poteva essere altrimenti – senza nascondere, per esempio, tutte le sue perplessità per la sua conversione al cristianesimo, e per anni di dichiarazioni percepite come fanatiche e radicali. Insomma, l'approccio di Epstein sa essere decisamente sacrilego: sta parlando di un classico e in certi frangenti sembra pretendere di potersi mettere al suo stesso livello. Il problema, come spesso accade in certe biografie, è che pochi hanno interesse nei confronti del biografo: io dico che Epstein si sente veramente un autore, invece, e va be' – vi ho avvertiti. Questo implica che ogni tanto si prenda qualche libertà. Come questa:

“Tra tutti i miti riguardanti Bob Dylan, il più ridicolo è l'idea che non si lasci intervistare. Ha concesso centinaia di interviste, nei quattro continenti, la maggior parte delle quali cortesi, molte benevole, alcune argute, profonde e rivelatrici. Si tratta, ancora una volta, di una questione di intuito. Per ogni intervista che concede ne rifiuta quaranta e si attira una maggiore attenzione quando è insolente ed enigmatico di quando è serio” [p. 252]. Il che significa, a ben guardare, proprio l'opposto: e cioè che sebbene sia decisamente riottoso alle interviste, e piuttosto infastidito dalle ripetute richieste di interviste in tutte le lingue, dopo cinquant'anni di carriera, inevitabilmente, volendo uno ormai può raccogliere parecchie sue interviste. Ma non mi sembra un “mito ridicolo” per questo. Mi sembra invece, considerando i numerosi rifiuti, qualcosa di piuttosto sensato e caratterizzante.

Epstein ci racconta parecchie cose notevoli: ad esempio, la progressiva accettazione della “naturalezza” delle tournée [p. 286], o i sacrifici fatti, in gioventù, per andare a dare sostegno a Woody Guthrie malato [p. 83 e ss.]; il peso della paura sulla sua infanzia, complici le assurde esercitazioni negli States, e i guasti legati ai ripetuti cambi di immagine (cfr. almeno p. 132 e p. 173] e alle inattese nuove generazioni di ascoltatori e di ammiratori. Qualche aneddoto sulle questioni sentimentali e famigliari – per chi ha quel tipo di interesse – intervalla la narrazione con leggerezza, mai con negligenza.

Epstein è riuscito nell'impresa di omaggiare un suo idolo: un idolo di mezzo mondo, anche. Ma sospetto che Bob Dylan sia un po' troppo complesso per poter pensare di sintetizzarlo in 440 pagine, storia degli eventi principali degli Stati Uniti inclusa. Dico questo: a me è tornata una voglia pazzesca di rivedermi “Io non sono qui”. Perchè a un film perdono tante ellissi, tante insistenze, tante pretese. Con le biografie sono un po' più rigido. Epstein non me ne voglia, ma qui in Italia siamo contemporanei di uno dei massimi biografi del Novecento e del primo Duemila: Giordano Bruno Guerri. Uno legge Guerri su Marinetti, sulla Goretti, su Buonaiuti o su Bottai e poi ha il gusto livellato un po' più in alto del normale, nel genere. Succede. Detto ciò: “The Ballad of Bob Dylan” è per i fan, per i vecchi fan in particolare. Libro brizzolato, ma insomma – non grigio. Niente di eterno, niente di straordinario – a parte Bob Dylan, si intende. Dici, e ti pare poco? Giusto.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Daniel Mark Epstein (Washington, USA, 1948), scrittore e poeta americano. Vive a Baltimora, Maryland.

Daniel Mark Epstein, “The Ballad of Bob Dylan”, Arcana, Roma, 2011. Traduzione di Claudio Mapelli.

Prima edizione: “The Ballad of Bob Dylan. A Portrait”, 2011.

Gianfranco Franchi, maggio 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.