La via della fame

La via della fame Book Cover La via della fame
Ben Okri
Bompiani
2000
9788845244865

Nigeria: ex colonia britannica reduce da un secondo Novecento decisamente travagliato. Indipendente dal 1960, ferita successivamente da una sequenza di dolorose guerre civili e colpi di Stato, ancora oggi relativamente estranea alla democrazia: le elezioni del 2007 sembrano state macchiate da pesanti brogli. Ne sappiamo poco davvero, le notizie circolano con difficoltà e attecchiscono una tantum; magari, se la loro squadra di calcio vincesse finalmente un Mondiale saremmo costretti a interessarcene, qui in Italia. Qualche anno fa sembravano sulla strada giusta, peccato. Quel giorno scopriremo la storia degli Yoruba, ad esempio; e scopriremo il loro letterato principe, di sangue Igbo e Urhobo. Si tratta di Ben Okri, classe 1955, ormai adottato dall’Inghilterra; insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2001, e già Booker Prize, nel 1991, per questo romanzo: “The Famished Road”, “La via della fame” nell’edizione italiana (Bompiani, 2000; trad. di Susanna Basso).

Ho scoperto questo romanzo per via di una vecchia intervista di Thom Yorke: parlava dell’opera in questione asserendo fosse fondamentale per la scrittura di una canzone dei primi anni della sua carriera, contenuta in “The Bends”. Il nome di Ben Okri – sono italiano, appartengo a una razza inferiore – non mi diceva assolutamente niente, con buona pace della sua pubblicazione mainstream. È un peccato, perché questo suo romanzo di formazione atipico – è stato ascritto da altri alla categoria del “realismo magico”, ma bisognerebbe meditare bene, prima di spenderla – meritava altra e diversa fortuna, da queste parti. Le ragioni? Semplice: in prima battuta perché ci parla di una terra e di un popolo che non conosciamo affatto; quindi, perché ha la capacità di essere allegorico e satirico senza mai precipitare nella cattiveria e nella malignità: e così, parla di un periodo caotico della storia della sua Nazione senza mostrare odio o risentimento nei confronti di nessuno. Infine, perché racconta l’infanzia – meglio: la formazione – di un bambino mescolando fantasia e realtà: trasfigurando la realtà quando diventa troppo dolorosa, edulcorandola di follia e di spiritualità quando è fatale, e via dicendo.

Intendiamoci, non riesco a definire “La via della fame” un capolavoro: perché per la mia sensibilità e le mie abitudini è un libro discretamente lento, estremamente ripetitivo, e probabilmente da editor avrei avuto una gran voglia di prosciugarlo di 300 delle sue 500 pagine. Magari sbagliando: ma restando convinto che, spurgato di ripetizioni nelle azioni dei personaggi e di descrizioni spesso superflue, questo sarebbe stato un libro acclamato da mezzo pianeta. Morale, leggetelo con calma, dategli tre o quattro notti di tempo per decantare, e pazientate quando vi sembra di essere già passati per quelle pagine. Avete ragione voi, ma non ditelo a nessuno. Adesso entriamo nelle trame e nei significati dell’opera.

L’incipit è abbastanza al di là delle vostre attese. C’è un omaggio (laico, o forse pagano) alla Genesi: in principio era… un fiume. Il fiume diventò una strada, che si ramificò per il mondo. E siccome era stata fiume, aveva una fame grande. Insaziabile. Lassù, nel mondo degli spiriti bambini, giocavano liberi e nessuno voleva nascere: avevano paura della crudeltà degli esseri umani. Il loro Re rinasceva spesso. A volte era un gatto. Gli spiriti bambini si chiamano Abiku; destinati a morire e a rinascere più volte, magnetizzati dal mondo degli spiriti che nascendo andiamo obliando, sono sgraditi agli spiriti e spesso marchiati a fuoco tra i vivi. Quando Lazzaro sta per nascere, chiede allegria, e niente fame. Ottiene, in risposta, paradossi.

Lazzaro – presto “Azaro”, per tutti – vivrà parlando con questi spiriti, diviso tra due piani: è un bambino fatato, telepate e capace di intendere la lingua degli animali – volendo – e di tradurre a suo modo gli errori degli adulti. D’altra parte sta vivendo rivoluzione, violenze e allucinazioni, pure se stinte da descrizioni liriche: come questa…

Bruciato dall’agonia di quella musica, barcollando attraversai la strada e, d’improvviso, li vidi tutti: spiriti in fiore su un campo di arcobaleni, che si tuffavano nell’estasi dell’amore eterno. Una lama affilata lacerò il mio cervello. Crollai sull’asfalto fiorito, in mezzo al fragore assordante dei camion” (p. 26).

Azaro perde il padre e la madre, durante confuse manifestazioni di rivolta, e crede sia per sempre – ma un sogno, forse, è il punto più alto dell’esistenza – e non è così. Il padre saprà riabbracciarlo così forte che gli verrà da piangere. Entriamo nella loro vita: poveri, sempre affamati e scossi dal clima politico in atto – ben semplificato dalla dicotomia “partito dei ricchi vs. partito dei poveri” – alternano momenti di migliore sopravvivenza, quando il padre trova ingaggi o creditori più comprensivi, ad altri di dolorosi stenti. Ma Azaro sembra sereno; non solo per gli spiriti sempre al suo fianco, ma per quello che una barista guaritrice, Madame Koto, gli ha pronosticato: avrebbe vinto sul male, avrebbe sconfitto la strada.

«Disse: “Se fai il cattivo, succederà la stessa cosa anche a te”. “Che cosa?” La foresta ti ingoierà”. “E io diventerò un albero”, replicai. E allora ti taglieranno, per costruire la strada”. “E io diventerò strada”. Le macchine ti pesteranno, le mucche ti cagheranno addosso e la gente celebrerà fatture sulla tua faccia”. “Allora io griderò, quando è notte. E la gente si ricorderà della foresta”» (p. 222).

E così, accompagneremo il marmocchio per varie traversie famigliari – difficoltà lavorative del padre, ex pugile pronto a tornare ad allenarsi, a combattere con la sua ombra e con avversari spettrali e non, e infine a inventarsi politico; malessere della madre, e sempre nuovi creditori alla porta – nel contesto delle sempre prossime elezioni nigeriane. Intanto, le città sono in costruzione. Così:

Le strade non avevano fine. Ognuna portava a migliaia di altre che, a loro volta, diventavano sentieri che si aprivano su piste di terra battuta, per diventare vie, poi viali, quindi vicoli ciechi. Intorno a me, accanto a quello vecchio, stava nascendo un mondo nuovo. I grattacieli svettavano imperscrutabili tra le capanne e le baracche di lamiera. C’erano ponti in costruzione; cavalcavia incompiuti sembravano lanciarsi nell’aria come visioni future di un tempo in cui le macchine sarebbero state in grado di volare. Sulle strade in corso di realizzazione si ammassavano enormi macchinari. Qua e là, guardiani notturni dormivano sotto le stelle, con lampade fioche che illuminavano il loro sonno terreno. La luna era grande e tonda, e sembrava risplendere del viso di un maestoso sovrano (…)” (pp. 117-118).

E la miseria? “Vedevo dovunque ferite aperte: la desolatezza delle capanne; le baracche di zinco arrugginito; la spazzatura che ingombrava le vie; i bambini coperti di stracci; le bambine nude che giocavano nella terra con lattine taglienti; i ragazzini che saltellavano qua e là, mostrando genitali non circoncisi e imitando il rumore degli spari; l’aria tremolante di calore velenoso e di vapore che saliva dalle fogne. Il sole denudava la realtà delle nostre esistenze, ed era tutto così sgradevole che mi parve un mistero come potessimo continuare a capirci e a preoccuparci gli uni degli altri o di qualunque cosa accadesse” (p. 165).

E allora Okri ci racconta di chi – col suo stile, e la sua preparazione – si batte per verità e giustizia; neppure Dio deve dire per chi votare. C’è chi parla di pietà, amore di Dio, misericordia di Allah: invano. Le violenze continuano, nel bar della guaritrice come nelle strade. Insensate e stupide, a oltranza. La mamma prega Dio e gli antenati in tre lingue. Sa che i politici, potendo, avrebbero divorato tutto quel che vedevano: anche loro (p. 235).

E intanto un fotografo t’insegna a volare sulla Luna, e il partito dei ricchi vuole decidere chi può sedere al bar. Non importa: la Bellezza, un giorno, governerà il mondo. E i Bianchi? È presto detto. Con grazia e con umanità, ma non senza dolore:

Noi eravamo già stati sulla Luna, e su tutte le stelle maggiori. In quei tempi antichi, i Bianchi venivano per imparare da noi. Mio padre mi diceva sempre che siamo stati noi a insegnare loro a contare. E a guardare le stelle. E a regalargli qualcuno dei nostri dei. Abbiamo condiviso con loro il nostro sapere. Li abbiamo accolti benevolmente. Ma loro se ne sono dimenticati. (…). Quando tornarono la seconda volta portarono con sé anche i fucili. Ci presero la terra, bruciarono gli dèi e si portarono via moltissima gente per farne schiavi oltre il mare. Sono uomini avidi. Vogliono possedere il mondo intero e conquistare il Sole. Alcuni di loro credono di avere ucciso Dio, altri adorano delle macchine (…). Non sono tutti cattivi. Impara da loro, ma seguita ad amare il mondo” (pp. 282-83)

Siamo fantasmi. A loro non resta – a un tratto – che un mondo annegato nella miseria, una luna di madreperla e la lunga tenebra che precede l’alba (p. 308); avanti per una strada che porta dappertutto, non ha fine: porta all’inferno e in paradiso, al mondo degli umani e a quello degli spiriti. Ma la morale della favola è solare, pure nella sua tristezza. Possiamo sognare il mondo da capo, e realizzare quel sogno. Le nostre vite stanno cambiando. Ci occorre un nuovo linguaggio per parlare. Molte persone abitano in noi, gli uomini sono un grande mistero. Come i punti di contatto tra le culture. Da leggere.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Ben Okri (Minna, Nigeria 1955), poeta, saggista e romanziere anglo-nigeriano, di sangue Igbo e Urhobo, laureato nell’Università dell’Essex. Esordì pubblicando “Flowers and Shadows” nel 1980. Nel 2001 è stato insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico. Vive e lavora a Londra.

Ben Okri, “La via della fame”, Bompiani, Milano 2000. Traduzione di Susanna Basso.

Prima edizione: “The Famished Road”, London, UK, 1991. Booker Prize 1991.

Approfondimento in rete: Wiki en

Gianfranco Franchi, agosto 2008.

Prima pubblicazione: Lankelot.