La ragazza che non era lei

La ragazza che non era lei Book Cover La ragazza che non era lei
Tommaso Pincio
Einaudi
2005
9788806176099

“Il mondo non funziona per ragioni di essere e ordini interni. Se lo abbandonaste a se stesso, il mondo in cui vivete precipiterebbe nel casino più assoluto. E così sarebbe anche per il mondo in cui non vivete. Ogni cosa tende al disordine, è una legge di natura. Prendete voi stessi, per esempio. Voi vivete. È un fatto. Non si può negarlo. Nondimeno è un fatto insolito. Rispetto a quanto succede in migliaia di altre galassie e centinaia di migliaia di altri pianeti, nulla è statisticamente più improbabile e inverosimile del fatto che voi vivete” (p. 36).

Labirintico, allegorico, ambizioso e pretenzioso, “La ragazza che non era lei” è un romanzo che – come spesso accade nei libri di Pincio – sembra scritto, studiato e ideato per un pubblico anglofono; assolutamente estraneo alla Letteratura Italiana del Novecento, per struttura, argomento, ambientazione e tecnica di scrittura, è un giocattolo di lusso per lettori forti. Preferibilmente, di materia yankee. Pincio ha una gran classe e uno stile inconfondibile – la cifra autoriale è sempre riconoscibile; ha ottimi ascolti rock alle spalle (qui almeno Beatles – diegetici – Radiohead, Pink Floyd, Jefferson Airplane, tra i tanti) e una notevole capacità di sforare dal realismo per sprofondare su un piano onirico e lisergico allo stesso tempo. Cosa continua a non convincermi? L'estraneità alla nostra tradizione letteraria, l'estraneità all'interpretazione e alla trasfigurazione di terra e popolo italiano, l'ossessione per la nazione egemone. In questo caso, per quel che poteva diventare: per quel che poteva essere: per quel che stava rappresentando, in generale, negli anni Sessanta. Ossia, la culla della rivoluzione che avrebbe finalmente restituito – o avrebbe finalmente accompagnato? - l'umanità a uno stato di armonia e di pace prima soltanto sognato o mitizzato. Scriveva magnificamente Nino G. D'Attis: “l’America non è l’America, ma il modo in cui uno la immagina dopo averne sentito tanto parlare, dopo averne visto i colori sul grande o sul piccolo schermo. L’America è lo spettacolo sgradevole di sogni, utopie che si liquefano e ricompongono in forma di merci sotto gli occhi un bambino autistico: l’amaro risveglio è dietro l’angolo, serve al più presto una botola aperta su un altrove, su un universo parallelo” (fonte: Blackmailmag).

Ribadiva Sergio Pent: “In questa dimensione generazionale Pincio mette a nudo gli errori dei padri e le paure dei figli, lasciandoci capire - una volta di più - che davvero c'è stato un momento in cui sarebbe bastato un grande respiro collettivo per cambiare il mondo. Poi, chissà come, qualcuno ha trattenuto il fiato e il mondo è esploso. A questo punto vorremmo tanto che Pincio tornasse a casa e ci raccontasse i nostri sogni, le nostre province, anche se in lui la dimensione dello scrittore totale è evidente, naturale, matura. Tommaso Pincio non ci appartiene, dunque, perché non possiede la caratteristiche tipiche dell'italico scrittore. Ma ci piace, e forse proprio per questo” (fonte: “L'indice).

Considerando “Cinacittà” (Einaudi, 2009), l'esperimento non è del tutto riuscito; è chiaro che, da lettore, sogno un grande romanzo romano e italiano di Pincio. Uno che scrive così, uno capace di un respiro così massimalista e di assimilare e assemblare reminiscenze e citazioni letterarie (qui Burroughs), musicali, cinematografiche non dovrebbe e non potrebbe confinarsi nel recinto degli artisti derivativi. Non con queste potenzialità. D'altra parte, parafrasando proprio Pincio, “Chi è che accetta di stare sempre al suo posto in questa nostra epoca senza senso, a parte le Bibbie e i televisori spenti? Gli interruttori della luce, forse. Il bagno nei ristoranti. E poi?” (p. 13).

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“L'America è un grande piano inclinato, tipo quello dei flipper, e tutto ciò che non ha radici è come una palla di metallo che rotola verso la California” (p. 132). "Smarrirsi" è una delle parole chiave di questo romanzo. Scrive Pincio: “Nei tempi in cui questo grande paese non era ancora una nazione e gli Stati non avevano confini certi e non c'erano strade asfaltate e lo sguardo delle persone veniva torturato da distanze enormi che non portavano a nulla, smarrirsi era all'ordine del giorno” (p. 29). Tutti possono perdersi, in una nazione così grande, da un momento all'altro: definitivamente. Laika Orbit, la ragazza immaginaria della prima parte del romanzo, ne è un buon esempio. Si risveglia in un alberghetto in un posto dimenticato da Dio; si sente inerme, impotente, indifesa, infreddolita. Forse ha un ritardo, non ricorda da quando. Sta aspettando qualcosa – qualcuno. Quel qualcuno è chi l'ha accompagnata in quella dimensione, e non ha più fatto ritorno. È una che “ha gettato al vento se stessa per timore di sbiadire nella consuetudine di una vita normale, non voleva diventare una donna infelice con le vene che affiorano nelle gambe, i fianchi appesantiti e il rimpianto di non essere stata abbastanza folle quando era ancora giovane e poteva” (p. 38). Forse è una giocatrice di Runaway, forse no. Cos'è il Runaway? Andate alle pagine 70 e 129. Si tratta di un nuovo gioco adulto, ammesso e riconosciuto dalla legge, con tanto di dadi e di mandala; l'atleta abbandona la vita adulta per scappare come un ragazzino, senza meta, senza sostegno, senza sicurezze. Forse.

Pincio incastra la vicenda di questa ragazza nostra contemporanea, prigioniera di un mondo inquinato da strane polveri, nella città di Cloaca Maxima, con quella di una madre hippy e dei suoi giorni, del clima del suo tempo e della sua società, quella dei genitori delle ragazze disorientate e allucinate come Laika. E a questo punto, come si può intuire dalla prima di questo articolo, l'intento paradigmatico e allegorico si incarna e si materializza, aprendo meditazioni e riflessioni sul buddismo, sugli acidi, sul libero amore, sul sogno di libertà e sregolatezza degli anni Sessanta, tessendo infine una trama che lega le due donne – vedrete come – e quella che potremmo chiamare, in un certo senso, la loro “eredità”.

La prima volta che ho letto questo romanzo, qualche anno fa, era un momento un po' difficile. Non avevo più voglia di letteratura e non entravo in libreria da più di un anno. I libri erano diventati una presenza dolorosa, nauseante, e non pensavo di poter tornare a considerarli parte fondante della mia quotidianità. Era un anno che non sentivo più nessuna forma di interesse e nessuna voglia di leggere. Una notte, solo e incazzato col mondo, me ne andai in Umbria a cercare isolamento assoluto, e portai con me questo libro, consigliato dal caro Claudio Morici, perché fosse (insperato) antidoto alla mia insonnia, e farmaco per il mio sempre più profondo distacco dalla letteratura. Ricordo che le prime luci dell'alba avevano l'odore della polvere. Sono ripartito da qui.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Tommaso Pincio, pseudonimo di Marco Colapietro, (Roma, 1963), scrittore italiano. Ha studiato all'Accademia di Belle Arti. Ha fatto l'assistente per vari pittori, italiani e americani. Ha esordito pubblicando “M.” nel 1999. Collabora con “Repubblica”, “Manifesto” e “Rolling Stone”.

Tommaso Pincio, “La ragazza che non era lei”, Einaudi, Torino 2005. Collana Stile Libero Big.

Gianfranco Franchi, luglio 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Labirintico, allegorico, ambizioso e pretenzioso…