E morì con un felafel in mano

E morì con un felafel in mano Book Cover E morì con un felafel in mano
John Birmingham
Fandango
2001
9788887517248

John Birmingham, esordiente scrittore australiano, trasfigura in questo romanzo la sua atipica esperienza di vita: ha coabitato, nel corso di dieci anni, con ottantanove persone. Si trattava, fondamentalmente, di giovani che sopravvivevano col sussidio di disoccupazione, o lavoravano al minimo sindacale, tra mobili malridotti, furibonde lotte per assicurarsi il diritto alla (tele)visione, moquette bruciacchiate dalla cenere delle sigarette, “eclettica” fauna. Non mancavano momenti di quiete e d’armonia, destinati in ogni caso a dissolversi nel nulla: qualcuno si trasferiva, o impazziva. Tutti desideravano traslocare, in ogni caso: sempre.

Il narratore della vicenda, originario del Queensland, è giornalista e scrittore, dissociato e disoccupato. Un decennio di delusioni, inganni, furti e stravaganze d’ogni tipo non sembravano averlo convinto che fosse ora di rinunciare a queste esperienze di “condivisione” d’un ambiente: è necessaria la prima morte d’un conoscente, quella che inaugura il romanzo, per scuoterlo dall’eccessiva tolleranza nei confronti della sua allucinante esistenza.

Chi muore, nelle prime battute, non ha neppure un nome: era semplicemente un nuovo inquilino, giunto da una settimana. Stava guardando la hit parade, con il televisore al minimo, sgranocchiando un felafel. Il tragicomico evento richiama il narratore a una sorta di redde rationem: non solo restituirà alla luce il nome del ragazzo morto, ma rivelerà, per sequenze di aneddoti e bozzetti intervallati da testimonianze d’altri coinquilini e improponibili pubblicità di “vacanze sul divano” o “bastoncini da gala”, la sua incredibile, decennale esperienza.

Da Canberra a Brisbane, da Melbourne a Sidney, storie della casa più sporca del mondo, in King Street, tra invasioni di peli pubici e carcasse di topi morti, storie di spinelli fumati fino a illudersi d’aver perso la capacità di comprendere il linguaggio parlato (p. 31), di spargimenti di involucri di Mars e di mutande sul soggiorno, neanche fossero fertilizzanti d’un giardino in fiore, di “esche umane” (p. 40), di ragazze che ululano, nostalgiche d’un ex violento, “Bridge Over Troubled Water” alle tre del mattino, di impiegati di banca che vivono accampati in una tenda, sforando – forse non accidentalmente – nella zona del televisore, di straordinarie reminiscenze di pisciate nel frigo (p. 53), di eroi capaci d’indossare lo stesso paio di jeans per dieci settimane.

Il narratore ha solo un credibile momento di debolezza, prima del dramma del felafel: quando – stanco per l’ennesima occupazione precaria e sottopagata, da dattilografo – si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Durerà pochino: vediamo perché. “Sono circondato da questi adolescenti carnivori che profumano di pulito, coi vestiti firmati e gli occhietti perfidi: piccoli topi bastardi che mai e poi mai mi presteranno i loro appunti. Il giorno che ho riservato alla preparazione del compito non trovo più nulla, nemmeno il foglio con le domande, e così sbarello. Comincio a urlare. Le mie grida sembrano rumori della giungla o lugubri lamenti che risalgono da una prigione sotterranea per pazzi criminali popolata da questa strana sottospecie di esseri viventi mutanti” (cap. 1, “Negri bianchi”, p. 12). Segue allo sfogo un momento di teppismo domestico, previa riflessione sulle tecniche di comunicazione di questi giovani neo-rettili, che captano messaggi direttamente dalla corteccia cerebrale.

Smarriti in un sistema che li costringe ad un isolamento e ad una emarginazione umiliante, soffocati dalla crisi economica e pressati dalle visite degli esattori dell’affittuario, i ragazzi sopravvivono tra amorazzi, furibonde litigate e stravaganti riti domestici.

Incontreremo Neal, che apprezzava l’albina abbronzatura della luna, e Jabba detto “The Hut”, studente di Ingegneria, padrone della televisione 24 ore al giorno; incontreremo una nutrita serie di tossici – per restar fedeli alle parole dell’autore – evidentemente incapaci di resistere a tentazioni che il pur drogatissimo narratore sa contenere; infine, troveremo testimonianza della confusa relazione che intercorre tra il protagonista e i coinquilini gay, dipinti come individui molto puliti e ordinati, ma paranoici e ossessionati dall’angoscia di nuove aggressioni “trasversali” degli etero-fascisti.

È un libro disordinato, rocambolesco e frammentato, dallo spirito iper-realista, sardonico e anti-Friends: le false e ipocrite vite, melense e allegrotte, dei ragazzotti che dividono l’appartamento nelle fiction catodiche coeve, trovano un’equa replica nel grido (grido…? Rantolo? Rutto? Sbadiglio?) di stanchezza ed esasperazione di John Birmingham. Ecco la realtà che s’impadronisce dei cliché della finzione. E la annienta.

Il tono sarcastico e cinico della narrazione potrebbe velare e mascherare la sofferenza di fondo. E l’epifania grottesca della morte altro non è che la tragica fine della giovinezza: il divertimento che, fino a quel punto, aveva sposato la storia, nonostante violenze, overdose, furti e inganni, si spegne all’improvviso.

Eppure…soltanto qualche tempo prima, dopo uno sgradevole episodio “rock” avvenuto nella casa dei suoi genitori, dove era provvisoriamente ospite, il narratore aveva riflettuto: “Quello fu un punto di svolta nella mia vita. Uno di quei momenti tipo il salotto satanico con testa di capra mozzata. Non avrei mai più avuto problemi simili a questo. Le persone reali hanno un lavoro, una famiglia, una casa pulita e una macchina che funziona, e vanno a fare la spesa, e il loro frigo è pieno di cibi freschi e i loro vestiti sono puliti e stirati e pronti affinché possano affrontare il primo giorno del resto della loro vita. Nelle loro case non si aggirano strani mostri del sesso che si esercitano con il sax e si chiedono se sarebbe okay scoparsi un paio di parrucchiere sul pavimento del soggiorno. Non succede e basta”. (cap. 8, “Le mutande ingiallite del rock’n’roll”, p. 130) Post-Welshismo?

Il romanzo ha avuto un sequel: “The Tasmanian Babes Fiasco”, pubblicato in patria nel 1997, tradotto in Italia da Baldini & Castoldi col titolo “Blocchi di fumo colorato”.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

John Birmingham (Ipswich, Queensland 1964), giornalista e scrittore australiano.

John Birmingham “E morì con un felafel in mano”, Fandango, Roma 2001. Traduzione di Sandra Bordigoni.

Prima edizione: “He died with a felafel in his hand”, 1994.

Riduzione cinematografica: “E morì con un felafel in mano”, di Richard Lowenstein, 2001.

Gianfranco Franchi, giugno 2004.

Prima pubblicazione: Lankelot.