D’Annunzio. L’amante guerriero

D'Annunzio. L'amante guerriero Book Cover D'Annunzio. L'amante guerriero
Giordano Bruno Guerri
Mondadori
2009
9788804585664

“Bisogna che il mondo si persuada ch'io sono capace di tutto” (D'Annunzio a Emilio Treves, 1897).

Quattordicenne, il futuro eroe di guerra D'Annunzio scriveva che amava l'Italia, che tutto avrebbe dato per la sua nazione, e che la sua prima missione era insegnare al popolo ad amare il proprio Paese e a essere onesti cittadini, la seconda odiare a morte i nemici d'Italia e combatterli sempre (p. 17). Con questa intensità avrebbe amato l'arte nuova e le belle donne, sé stesso e il lusso; la giovinezza, e la bellezza; le droghe leggere (oppio, tabacco, e infine la dura cocaina) e i beni culturali; i cani, e i cavalli; l'eroismo, e gli aeroplani (a Barzini dirà: “il volo è una cosa divina (…) Un nuovo bisogno, una nuova passione”, p. 167). Con questa intensità avrebbe cercato di spettacolizzare ogni istante della sua esistenza, mostrandosi, per dirla con Guerri, “rabdomante sempre a caccia di emozioni e lusinghe nuove da trasfondere nei versi” (p. 31): mostrando – sempre – un feroce, incrollabile amore per la vita, per la bellezza, per il piacere.

“Campione smisurato” degli italiani e dell'italianità, troppo somigliante alla nostra essenza per essere amato da tutti (“io sono la puttana d'Italia che si odia per amore”, p. 172), il D'Annunzio di Guerri è un amante guerriero, un rivoluzionario, un esteta capace di rivendicare la superiorità dell'arte su qualsiasi esperienza senza mai cedere alla sua volgarizzazione. È, in altre parole, un giovane intemperante che

“(...) sferrerà colpi formidabili alla vecchia cultura italiana, impaludata nel classicismo carducciano; alla politica italiana, perduta nei meandri di un trasformismo interminabile; alle abitudini della borghesia e della società ottocentesca, scossa dal terremoto delle sue intuizioni e dalla rivoluzione scatenata dalle sue parole, dalle sue azioni, dal suo gusto (…) Un poeta che additava [all'Italia] un'esistenza diversa, un riscatto o, almeno, un sogno” (pp. 3-4).

Nemico delle Università (“amo più le aperte spiagge che le chiuse scuole dalle quali vi auguro di liberarvi”, scrisse ai bolognesi che gli offrivano una cattedra, cfr. p. 181) e degli onori letterari (rifiutò di diventare Accademico della Crusca nel 1914), innamorato del Cinema (“tecnicamente non v'è limite alla rappresentazione del prodigio e del sogno”, il telo bianco del cinema è il luogo dell' “opera d'arte totale”, p. 185) e delle medaglie in guerra (“le collezionava come donne”, scrive Guerri, p. 208), D'Annunzio disprezzava con tutto sé stesso la democrazia e la mediocrità (pp. 90-91), sognando una civiltà fondata sul genio degli intellettuali e degli artisti, assolutamente elitaria.

Guadagnò grandi amori e grandi odii. Il suo ex ammiratore Marinetti l'aveva definito “Un cretino con lampi di imbecillità”: la risposta, futurista, era stata: “Marinettì? Un cretino fosforescente” (p. 238). Pascarella diceva fosse come una sirena: un grande incantatore. Pascoli, suo grande rivale, nonostante un inizio promettente, era passato a giudizi come “Hugo e D'Annunzio: il gigante e il suo stronzolo”, “Arcangiolo cattivo”, “Orbetto”, “Imbecille”, “Modista”. GdA avrebbe saputo replicare (“tu hai il gusto di rimaner su la ciambella, di centellinare il fiasco, di curare la stitichezza del tuo cagnolino”, p. 138), mostrando maggiore creatività. Carducci bruciò così il suo terzo libro di poesia: “Roba porca” (p. 47). Eppure, solo qualche anno più tardi, Gide avrebbe detto che prima del suo avvento la Letteratura Italiana era considerata morta quanto la Letteratura Spagnola: che lui aveva richiamato sullo Stivale l'attenzione di tutta Europa (p. 87). Von Hofmannsthal si sarebbe spinto oltre: “Ci sono un po' ovunque giovani che sanno essere lieti che in questo mondo esista un artista come lui” (p. 94).

Nel mondo politico, lui, che voleva essere “al di là di destra e sinistra” (p. 110), “mai un numero” (p. 114), fu molto discusso: Lenin diceva fosse, politicamente, “l'unico rivoluzionario in Italia” (p. 247, ma forse con intento caricaturale e anti-italiano); Amendola, diceva fosse “stallone della carne ed eunuco dell'anima” (p. 172); Mussolini (ufficiosamente) asseriva che “D'Annunzio è come un dente guasto: o li estirpa o lo si copre d'oro” (p. 280). Nitti, il famoso “Cagoja” (p. 230), diceva che per lui l'Italia fosse “una delle tante signore che ha goduto”. D'Annunzio sapeva sempre ricambiare le offese – e inventarne di nuove. Coniò, ad esempio, il concetto di “pastor dai cinque pasti” poi caro al Duce in chiave antiamericana, riferendosi agli inglesi. Concetto, devo dire, abbastanza divertente ancora nel 2009.

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Nato da un mercante, Rapagnetta di nascita e D'Annunzio d'adozione, nel marzo 1863, cresciuto in un contesto borghese, da un padre “accanito dissipatore di patrimoni e di fanciulle”, ereditò dal suo genitore “la potenza, l'impeto, la sensualità, la crudeltà, la prodigalità (…), l'amore dei cani e dei cavalli, quel dei profumi e delle donne e dei frutti, il piacere dello sperpero...”. Tre sorelle e un fratello poco presenti nei suoi scritti e nelle sue memorie confermano la sensazione che l'artista non fosse particolarmente legato alla sua famiglia; alla famiglia preferiva la terra, il suo Abruzzo. E questo proprio a dispetto della sua povertà, della sua arretratezza culturale (ex Regno delle Due Sicilie), della sua cultura rurale: era semplicemente il luogo d'elezione ideale per la mitologia d'annunziana, che doveva fondarsi su una “barbara terra” per animarsi e fiorire.

Studiò presso il Collegio Cicognini, a Prato; ne soffrì le rigide regole, per sette anni, e spinse i compagni “alle più folli insubordinazioni”: come quella contro le polpette servite in mensa, punita con dieci giorni di clausura. Nonostante ciò, il suo rendimento era straordinariamente alto; e alto sarebbe rimasto sempre, a dispetto del suo odio per l'algebra e la geometria (p. 32). Studiava tutte le notti, per ore (diventò miope e scoliotico, per questo), innamorandosi su tutto delle “Vite parallele” di Plutarco. Aveva una grande facilità nelle lingue straniere. Sognava la gloria, la fama, il successo, il sapere; pensava sempre alla nostra patria, l'Italia, sognando di vederla grande; ammirava istintivamente Napoleone. Disprezzava Dio e detestava la Chiesa: a questi sentimenti sarebbe rimasto eternamente fedele. Tuttavia, nutriva un culto per San Sebastiano; era ossessionato dal suo martirio. Curioso. Intanto amava le donne, tanto, sempre: estetizzando ogni esperienza erotica, sull'onda degli insegnamenti di Benvenuto Cellini e di Agnolo Firenzuola, e cercando una fusione impossibile tra sesso e letteratura.

Sin dalle prime prove letterarie mostrava, secondo Guerri, l'attitudine “poi sviluppata senza pudore, di saccheggiatore di scritti altrui” (p. 17; cfr. poi almeno p. 106, dibattito feroce tra GdA e Enrico Thovez). Scoprì le “Odi barbare” di Carducci a 15 anni, nel 1878; considerò quell'opera e quello stile come esemplari, per la loro vitalità, per la loro passione, per la militanza contro la scuola manzoniana. “Voglio combattere al suo fianco, o Poeta” scrisse a Carducci nel 1879. Voleva intitolare, non a caso, la sua prima raccolta di poesie “Odi Arcibarbarissime”, firmandosi Albo Laerzio Floro: vedranno la luce a firma “Floro” come “Primo Vere”, come ben sappiamo. Sequestrate per oscenità nel regio istituto Cicognini (si cantava di “seni d'etere su cui passar le notti”), guadagnarono un primo credito all'autore, salutato da Chiarini sul “Fanfulla” come “nuovo poeta”, capace di “immagini felici” e “suoni armoniosi”, auspicando tuttavia che leggesse e studiasse molto prima di pubblicare altro. Solo qualche anno più tardi, ad altezza “Intermezzo di rime”, il “nuovo poeta” era diventato un “poeta porcellone e inverecondo”, secondo lo stesso Chiarini (p. 47). Cose che capitano.

L'opera seconda, “In memoriam”, andò parecchio male; tutto venne dimenticato quando sulla “Gazzetta della Domenica” apparve la (grottesca) notizia della morte dell'autore, presto pianto da molti giornali senza che ce ne fosse minima ragione. Genio dell'autopromozione sin dall'adolescenza, a dispetto degli abnormi costi di questo comportamento, smaniava per avere sempre maggiore popolarità (e conoscere donne nuove). Corteggiatore e seduttore instancabile, nel 1909 avrebbe definito la sensualità “condizione necessaria per l'arte dell'artista” (p. 29). Suo primo, vero amore fu Giselda Zucconi, giovane figlia d'un suo docente, il poeta e garibaldino Tito. A lei scrisse 500 lettere in un anno e mezzo: per lei ideò “Canto Novo”, ennesima raccolta di versi, espressione di sensualità e spiritualità al contempo, e di un chiaro superamento delle posizioni carducciane. Uscirà a Roma nel 1882, con discreto successo. Giselda, invece, uscirà dalla sua vita non molto tempo dopo.

Iscritto all'Università di Roma per due anni, senza dare nessun esame, rimarrà un formidabile studioso – in privato – ossesso dalla ricerca di una lingua nuova, capace d'essere commistione di italiano colto e popolare; Guerri parla di “sontuosa ricchezza” di uno “sterminato vocabolario”, trovando le parole adatte a definire una competenza linguistica e lessicale del genere.

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“D'Annunzio. L'amante guerriero” è la solita, monumentale biografia di Giordano Bruno Guerri, espressione di un'intelligenza capace di plasmare opere ciclopiche; un ricco e divertente campionario di aneddoti esalta una documentazione abnorme, sia storico-letteraria che politica, insegnando l'arte della biografia a tutti noi contemporanei. Non c'è niente di più divertente di ritrovarsi, tra una meditazione e l'altra sui fatti fiumani, a leggere di un GdA appassionato di sedute spiritiche (p. 87) e di gioco del lotto (con tanto di vittoria nel 1907, p. 169); vi risparmio tutti i retroscena erotici. In qualche caso c'è da sganasciarsi, come prevedibile.

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Sullo sfondo, descrizioni di Roma e della vita romana d'antan: la Capitale, nel 1880 soltanto 300mila abitanti (p. 37), stava conoscendo un periodo di profonde trasformazioni architettoniche e culturali. Nel frattempo, “affaristi, impresari e speculatori erano accorsi nella capitale, insieme a molti immigrati meridionali in cerca di lavoro, e le avevano conferito quel carattere di inesausta fonte di corruzione che non ha ancora perso nel corso di un secolo”. In quegli anni, mentre venivano distrutte ville patrizie e borghi rinascimentali per creare via Veneto e Corso Vittorio Emanuele II, sembrava, scrive D'Annunzio, che “soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di Ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia” (p. 61). Riuscite a immaginarlo? Vi sembra stia soffiando ancora?

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Fisicamente, D'Annunzio giovane era affascinante e seducente: un giovane “tutto boccoli e sorrisi”, come le cronache dell'epoca lo descrivono, “incarnazione dell'ideale romantico del poeta: adolescente gentile e bello” (p. 39). Era piccolo, scrive Guerri, “un metro e 64 (…); il naso un po' grosso è ridimensionato dalla fronte alta e da acutissimi occhi grigi; la barba e i baffetti biondi ravvivano un colorito pallido” (p. 38). Invecchiando, c'è chi avrebbe scritto “Piccolo di altezza, calvo, una rada barba, grandi occhi cerchiati, un grande naso che s'ingrossa all'estremità, specialmente di profilo, la voce dolce se non proprio melata. Ha l'incedere di un personaggio della commedia italiana” (p. 172).

Amò un numero sterminato di donne; seppe mantenere le amanti al pianoterra, mentre conviveva con la moglie ai piani alti di un palazzo (p. 74). Purtroppo, qualcuna di loro ebbe una vita sfortunata, come Guerri ricorda. Le preferiva pallide, esangui; sembravano “malate e stanche” (p. 60). Potrebbe essere affascinante domandarsi le ragioni di questa sua predilezione: nell'amore cercava la morte?

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giordano Bruno Guerri (Monticiano, Siena 1950), scrittore, giornalista e storico italiano. Si è laureato in Lettere con una tesi su Giuseppe Bottai, poi pubblicata da Feltrinelli (1976). Già direttore del mensile “La Storia Illustrata”, collabora col “Giornale”. Ha lavorato come redattore per Bompiani e Garzanti.

Giordano Bruno Guerri, “D'Annunzio. L'amante guerriero”, Mondadori, Milano 2008. Collana “Le scie”. Include bibliografia, indice dei nomi e indice delle opere di Gabriele d'Annunzio.

Gianfranco Franchi, ottobre 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.

“Bisogna che il mondo si persuada ch’io sono capace di tutto” (D’Annunzio a Emilio Treves, 1897).