Acqua storta

Acqua storta Book Cover Acqua storta
Luigi Romolo Carrino
Meridiano Zero
2008
9788882371593

Napoli, giorni nostri. Lo Stato vero è quello animato da chi governa il territorio, si direbbe. Dettando leggi diverse da quelle parlamentari; a volte complementari, può capitare. Le regole dei padroni di questo Stato sono barbariche. Tuttavia riescono, come uomini d’altri tempi, a parlare di un concetto nobile, antico e complesso come quello di “onore”. Proprio vero che i significati delle parole mutano, ed esistono nuovamente quando sono condivisi da un gruppo di persone. Estranee al senso originario. Nel libro di Carrino, “onore” è restare fedeli a un matrimonio combinato, nascondere l’omosessualità – in galera è diverso, intendiamoci – e ricordare la lezione dantesca di Brunetto Latini, tenendolo come monito. Ma l’onore è anche portare gli stipendi ai fedelissimi, porta a porta o giù di lì, e magari la spesa alle mogli dei galeotti. Lo Stato vero è questo, il nostro Stato è scomparso – ha mai avuto reale incidenza e reale influenza, in certe terre? – e quando appare è complice della fatiscenza e della decadenza. La polizia si diverte con le marchette. E via dicendo.

In questo scenario depressivo, terrificante e doloroso, e tuttavia non incredibile, s’ambienta il romanzo di Carrino “Acqua storta”, cronaca di una morte annunciata tra i barbari che affossano parte della nostra società, dominandola. Stilisticamente fondato su un periodare frammentato e scabro, essenziale, giocato su una struttura tendenzialmente dialogica, con rapide descrizioni dal retrogusto cinematografico, parla una lingua ibrida – parte napoletano, parte italiano regionale – che risulta comunque accessibile (non posso dire sia “suggestiva”: l’impatto, crudo e realistico, mi ha impedito di assaporare la qualità del lessico. La testa andava altrove).

Narratore in prima persona è Giovanni, figlio del Boss Don Antonio. La storia del loro cognome ha, in questi giorni, il sapore dell’istant-book: “Quasi vent’anni fa, papà fece bonificare una palude verso Villa Literno, per farci la discarica della munnezza, per farci costruire delle case. Gli altri capoclan invece di Don Antonio Farnesina cominciarono a chiamarlo Don Antonio Acqua Sporca. Poi, qualche anno dopo, forse per via dell’occhio, cominciarono a chiamarci Acqua Storta. A me pure mi chiamano Giovanni, il figlio di Don Antonio Acqua Storta” (p. 107). Glossare è superfluo.

Giovanni ha un’intelligenza elementare, rude e grezza. Ascolta musica popolare orribile (qualche nome, per fortuna, ancora sfugge extra-moenia partenopee; ma l’elenco si direbbe completo) e mastica sopravvivenza, divagando per brutale sessualità – non estranea alla violenza, e all’accatto – da un cliché esistenziale stomachevole. Impossibile – qualcuno esulterà – simpatizzare per un personaggio del genere, a dispetto del dramma della sua soffocata e respinta omosessualità: che racconta (anche) così:

Ma io e Salvatore siamo un fatto segreto in questa città che parla sotto i muri, che getta il sale dietro alle spalle per scongiurare il malocchio e la sfortuna. Nella nostra città noi siamo come a degli orfani e lasciamo pure i nostri figli orfani, prima o poi. Siamo sparati, prima o poi ci sparano a tutti quanti. E pure nella ‘famiglia’ siamo orfani, ognuno pensa ai soldi e a campare a lungo e ai cazzi suoi. E i segreti che abbiamo non restano segreti a lungo. Io questo lo so, è impossibile. Dobbiamo fare come le talpe, camminare sottoterra. E noi là stiamo, sottoterra. Solo là riusciamo un poco a vivere per i fatti nostri, a vivere un poco la vita come si deve vivere. Cazzo, si è fatto proprio tardi, devo tornare a casa” (p. 18).

Siamo dalle parti d’un romanzo neorealista, sia da un punto di vista linguistico che da un punto di vista contestuale e ambientale; sembra si stia badando sia alla satira che alla denuncia delle condizioni dei cittadini, nella fattispecie di quelle cricche feroci e spietate che controllano e inquinano la vita degli onesti. Cambiandola radicalmente. L’impatto è pesante, perché il lettore è inchiodato alla responsabilità dell’ascolto di storie – mondi, persone – che non vorrebbe esistessero, che non vorrebbe avessero cantori, che non vorrebbe conquistassero, con le loro azioni, regolarmente centralità nei notiziari e nei quotidiani.

È quindi un romanzo necessario e intelligente, perché va a risvegliare la nausea, l’odio e il malessere che faticosamente respingiamo ogni giorno quando sentiamo parlare di certi eventi e certe bande, altre da quelle parlamentari, diversamente impresentabili. Aiuta a capire perché quei sentimenti hanno ragione di esistere. Fa male. Carrino vuole essere crudo, terrigno e viscerale, e questa sua è essenzialmente una fotografia della retrograda cultura della Camorra, e dello scacco che soffoca una città e una regione. Tutti volevamo capirne qualcosa di più. L’omosessualità come ragione d’una condanna a morte è un movente che tra quella gente può risultare sensato. Farne Letteratura era estremamente difficile. Impresa riuscita, ma è difficile gioirne.

Allegoria atroce della palude del tempo nostro. Da leggere.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Luigi Romolo Carrino (Napoli, 1968), laureato in Informatica, specializzato in Ingegneria del Software. Scrittore, poeta e autore teatrale italiano.

Luigi Romolo Carrino, “Acqua storta”, Meridiano Zero, Padova 2008.

Gianfranco Franchi, gennaio 2008

Prima pubblicazione: Lankelot.com

Crudo, terrigno e viscerale