44mila lettori nel 2019, soprattutto romani, milanesi, torinesi, napoletani, bolognesi, fiorentini e veneziani: a voi – stando ad Analytics, siete stati parecchi – devo qualche parola. Negli ultimi sei mesi ho pubblicato solo tre articoli. Mi sento estremamente distaccato da parecchie questioni letterarie ed editoriali che pure potrebbero appassionarmi: movimenti improbabili di outsider, amatori rabbiosi o giù di lì, polemiche tolkieniane, depressione cosmica della critica, improbabili giurie del “Corriere” e più affascinanti “giurie di qualità” di ritorno, vecchi amici che faticano a trovare un editore degno per la narrativa (e dire che vengono da Einaudi, Minimum Fax o dalla vecchia Bompiani)… tanta carne al fuoco, volendo. Tante opportunità per intervenire, più o meno a gamba tesa. Perché sto zitto o me ne sto in disparte? Non è stanchezza, non è snobismo, non è inerzia e nemmeno vecchiaia. E non è nemmeno perché sto continuando a pensare alla rivista letteraria diversa da tutte le altre di cui vi ho già parlato sui social, mesi fa.

Le risposte sono diverse. Ad esempio, mi sento profondamente dispiaciuto per l’ecatombe delle piccole librerie – ricordate l’intervista di Tiziana Zita a Paolo Nicoletti Altimari, su “Cronache Letterarie“? – e vorrei poter fare qualcosa in più: no, non so bene cosa. Trasformarmi in libraio e mettermi a combattere con loro, sì, ci ho pensato e poi ho abbandonato l’idea. Economicamente è uno sbaglio disastroso, ho due figli, mi spiace, non posso concedermi certi errori.  Che altro posso fare? Vorrei avere amici nella Guardia di Finanza per parlare con loro della “grande bolla” dell’editoria, delle “grandi balle” che la bolla si trascina a valle, per far fallire i disonesti, i banditi, i paraculi, gli omertosi e i conniventi e far restare in piedi solo gli onesti, i leali e i competenti. E magari far ripartire l’editoria su ben diverse basi, con ben diversi presupposti. Vorrei avere amici politici per sensibilizzarli su ciò che sta capitando nell’editoria, per spiegare quanto male fa il monopolio della distribuzione, la prepotenza delle stamperie e della vanity press, la “logica del debito” a tutto spiano, il lavoro ormai semigratuito o giù di lì: ma io non ho partito, non ho referenti, non ho canali riservati, non ho sindacato, niente. Vorrei poter fare qualcosa di rivoluzionario, a livello strutturale, perché ormai di questo si tratta: il re è disperatamente nudo e le conseguenze le paghiamo tutti, per primi gli artisti e i librai, poi gli addetti ai lavori, dai redattori agli ufficio stampa, ai traduttori, infine i lettori, che si ritrovano inondati dal caos, da pubblicazioni inutili e spesso farlocche, ripetute con ritmi demenziali e inumani; perché tenere in piedi questa ridicola baracca? Per la vanità di qualcuno – per qualche magra rendita di posizione. Perché c’è chi è “too big to fail”, forse. Perché più di qualcuno diventa matto se deve ammettere a sé stesso che scrivendo certi libri sta parlando da solo, o quasi. Poi?

 Non sono andato alla Fiera di Roma perché mi sembra umiliante che un settore con così tanti problemi economici si ritrovi in quel contesto fastoso, danaroso e radical chic come niente fosse. Stavamo così bene nella vecchia sede, con tutti i suoi limiti, l’aria condizionata mezza rotta e i tappetacci rossi: il Palazzo dei Congressi somigliava alle condizioni della piccola e media editoria. La Nuvola è una simpatica presa per i fondelli: a partire dai costi degli stand, credo difficilmente sostenibili soprattutto per chi viene da fuori Roma e deve pensare anche a vitto e alloggio, si capisce, non soltanto ai ritmi massacranti di lavoro (a quelli, magari, ci si abitua, come insegnava Marco Vicentini della fu, vera Meridiano Zero: masticava il suo panino nascondendosi sotto lo stand, per ottimizzare i tempi, 10 anni fa).

Perché dovevo tornare nella Nuvola? Per abbracciare tanti vecchi amici e conoscenti, qualche vecchio collega, per emozionarmi per qualche (sempre più rara) scoperta, per conoscere qualcuno. Umanamente, artisticamente e professionalmente aveva senso. Politicamente ed eticamente, no. Non sono solidale con questa iniziativa. Non mi ci riconosco, non mi ci raccapezzo, non mi somiglia. Non la voglio. Tanti dei miei amici vengono economicamente ammazzati dall’editoria, perché le loro traduzioni vengono pagate sempre meno, perché il loro stipendio (quando resiste o esiste) rimane basso, perché i loro diritti d’autore vengono puntualmente negati o pagati alle calende, con maquillage osceni di vario genere (che il sindacato non punisce, no). Perché devo andare là in mezzo e fare il gioco delle tre scimmiette? Io vedo, sento e parlo. E sono stufo delle mascherate dei vanitosi: sono anche stufo e triste per i miei vecchi amici che vengono malpagati o costretti a lavorare in condizioni sempre più indegne. Nella Nuvola ci andate voi, penso che se non cambiano le cose non mi ci vedrete più. Pazienza, dirà l’autore romano “Feltrinelli o giù di lì”, che in questa palude di plastica e di ciarpame ci sguazza da quando era ragazzino di vent’anni, con la sua intelligenza da scaldabagno (con superbo anticalcare). Infatti per gente come lui quello che sta capitando non è niente di particolarmente grave. A persone come lui non interessa – loro sì che sono degni della plastica della Nuvola. Li trovate dappertutto, quelli così. Comodi al sistema. Pratici e vuoti.

Vado avanti ancora un po’, dico ancora tre-quattro cose, poi magari sto zitto qualche altro mese.

Che anno è stato, da queste parti? Cosa ho letto di notevole? Cosa mi è rimasto profondamente impresso? Cosa rimarrà di questo 2019?

Credo che i libri dell’anno siano stati quattro. Il più originale è il romanzo di Matteo Trevisani, “Libro del Sole”, pubblicato da Atlantide; ve ne ho parlato a luglio: qui. Il più riuscito omaggio a un territorio e una città letteraria per antonomasia è stato pubblicato da Luigi Nacci, si chiama “Trieste Selvatica” [Laterza]; ve ne ho parlato a maggio: qui. Il mio recupero d’eccellenza è stato l’indimenticabile “Amari limoni di Cipro” di Lawrence Durrell [Giunti, 1994; grazie a Mauro Maraschi: ve ne parlavo a gennaio, qua]; il libro più coinvolgente ed emozionante, “Un album di storie” di Andonis Gheorghìu, pubblicato da Stilo; ve ne ho parlato a febbraio, qua.

Ho scritto poco – 34 tra interviste, approfondimenti, recensioni e saggi brevi – e quando ho scritto è stato perché ero rimasto comunque abbastanza colpito dalla materia o dall’artista. Ho letto parecchio, e di quelle letture non rimane traccia diversa dai miei scaffali. Ho sempre più difficoltà a leggere narrativa, ma questa è un’altra storia. Sullo stato della critica e sullo stato del romanzo ho risposto, per tempo, a una bella intervista di Vanni Santoni; probabilmente ho messo qualche punto a capo. Se avete tempo, sta qua, è roba di quasi 1 anno fa. Non so se ne riparlerò più con tanto equilibrio (adesso ho semplicemente nausea da saturazione, per la narrativa. Passerà).

Ho presentato soltanto due libri: quello di Zandomeneghi, all’Auditorium – un buon esordio: ve ne ho parlato a marzo, qua – e un recupero del triestino Stelio Mattioni, complici i ragazzi della Cliquot. Qui per un saggione su Mattioni postumo. Non ho presentato altro perché non mi andava. Non è ovviamente perché è solo questione di lavoro “volontario” o giù di lì. Basta.

Sono sempre più appassionato di mercatini e di librerie di modernariato. Leggo più volentieri fumetti che narrativa, da qualche mese. Ciò che trovo nei mercatini – e come lo trovo, in quali condizioni, e a quale distanza dall’uscita – potrebbe meritare un lungo racconto, e prima o poi mi ci metto. Ciò che sto ritrovando nei fumetti, soprattutto in Asterix e in Zagor, è ciò che il nostro ambiente ha perduto. La pulizia, la misura, l’esattezza – la “perfezione” della storia, come nei primi 24 Asterix. La fantasia, l’anarchia, la cura dei personaggi marginali o laterali. La povertà – nel senso più nobile, italiano e parisiano del termine.

Vado, ho parlato troppo.

Buon 2020.

Franchi